Storie originali > Soprannaturale > Vampiri
Segui la storia  |       
Autore: Melian    01/09/2015    3 recensioni
"«Questo è il Grande Segreto della nostra razza», concluse gravemente Demetrius quando Sanakht non volle più continuare a parlare." Qual è il Grande Segreto che si cela a proposito dei Vampiri? Cos'è accaduto quando Alphonse è sparito, subito dopo aver detto addio ad Alexandra? Riuscirà a ricongiungersi a lei? E come potrà Alexandra seguirne le tracce, se non con l'aiuto dei Vampiri più antichi che Alphonse ha potuto conoscere durante la sua lunga esistenza? In un'avventura che catapulta Alphonse e tutti i suoi amici fino ad Alessandria d'Egitto, finalmente il duca di Benavia potrà svelare il mistero che a lungo aveva inseguito.
[Sequel di "Letter to Alexandra" e "L'Eco del Sangue"]
Genere: Avventura, Dark, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Lime | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
 <<  
- Questa storia fa parte della serie 'Mondo di Tenebra'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

EPILOGO

 

 

Marzo 1806

 

 

 

Se dovessi descrivere i miei pensieri nell'ora in cui lasciai Sanakht all'interno della Biblioteca, probabilmente non ne caverei molto.
Ho deciso di raccogliere questa storia in uno dei miei diari proprio nel tentativo di fare ordine tra quelle idee confuse. Ho anche scoperto che ad Alexandra piace l'abitudine che ho di appuntare tutto dei miei viaggi e si diletta a sfogliare i miei memoriali.
Era un groviglio di pensieri troppo confuso, dove si intrecciavano diversi motivi: da un lato, la soverchiante eccitazione di aver scoperto il segreto dell'Albero della Vita, dall'altro la gioia di aver ritrovato Alexandra e Violate; per ultimo, la malinconia dell'arrivederci di Sanakht era giunta come il classico fulmine a ciel sereno.
Ma lo comprendevo, l'egiziano. In un mondo che stava rapidamente mutando, lui aveva trovato la sua piccola oasi di pace ed era giusto che la conservasse. D'altronde, era ciò che desideravo ardentemente anche io.
Noi tutti, comunque, prestammo giuramento sul nostro stesso Sangue Tenebroso che non avremmo mai condiviso il Grande Segreto con estranei. Persino Nuberus venne vincolato a quell'accordo, benché avesse dimostrato – in fin dei conti – uno scarso interesse per la rivelazione sulle origini dei Vampiri. Ma di Nuberus e dei suoi reali pensieri so sempre poco, se non quello che lui stesso ha voluto rivelarmi negli anni o che abbia compreso da solo nell'averlo accanto.
Quando lasciammo la Biblioteca, il mondo dei mortali non mi era mai parso così vivido come in quell'ora, con i suoi colori vibranti e le ombre plastiche, lo sciabordio delle onde e le lampare, le risate brusche dei marinai ubriachi che caracollavano fuori dalle bettole.
Alessandria d'Egitto era una città sospesa. Prometteva di proiettarsi nel futuro, ma ammiccava irrimediabilmente ad un passato che era nelle sue ossa, che l'aveva forgiata fin da quando Alessandro Magno aveva voluto fondarla nel bel mezzo del deserto fulminato dall'ispirazione. Chissà se quel condottiero tanto ardimentoso aveva immaginato le conseguenze della sua decisione.
Passeggiare tra le sue strade poco dopo il tramonto in compagnia delle mie donne, soffermarsi ai bazar per comprare spezie profumate o stoffe pregiate, osservare Alexandra volteggiare mentre provava un grazioso cappellino, mi fece sentire... vivo.
Per un Vampiro, la vita e la morte hanno chiavi di lettura assai diverse rispetto a quelle dei mortali e, forse, proprio perché viaggiamo come funamboli tra di esse, possiamo guardarle oggettivamente, sfiorarle e decidere di danzare con entrambe, senza snobbare l'una o l'altra.


Il viaggio di ritorno, comunque, non fu come quello di andata.
L'andata, infatti, fu un tragitto pieno di amarezza e rimpianti, dettato dall'urgenza di deviare la mannaia del destino dalle cose a me più care: non me lo godetti. E uccisi, in quelle notti precipitose, con ferocia e rabbia, lasciandomi dietro scie di cadaveri e d'orrore.
La partenza era stata approntata in tutta fretta e non avevo una meta precisa, tanto meno un itinerario prestabilito.
Avevo deciso di attendere la venuta dell'alba nella cappella della mia famiglia, distendendomi a dormire tra le tombe che ospitavano i miei genitori e i miei avi. Avevo lasciato per Alexandra una lunga lettera, l'intero castello e una fiala con il mio sangue, così che potesse vantare un ultimo ricordo di me. Ero davvero persuaso dall'idea che, distruggendomi, Nuberus sarebbe finito con me.
Il Demone, però, lo scoprì appena i primi raggi del sole filtrarono dalle finestre a mosaico colorate e lambì la mia pelle e io tentavo di non assecondare il mio istinto alla fuga. Mi prese di peso, gettandomi al buio della carrozza e partì, scortandomi lontano dal castello. Tentai di fuggire, ma la carrozza era come dotata di vita propria e mi fu impossibile lasciarla per giorni. Quando Nuberus si decise ad aprire lo sportello e farmi uscire per permettermi di cacciare, eravamo ben lontani dalla mia città. Eravamo a Roma.
Vagai tra le strade di quella città alla ricerca di idee e risposte, ma non riuscivo ad essere lucido e sfogavo tutta la mia frustrazione sulle prede che incrociavo per le strade, tra tagliagola e ubriaconi.
La prostituta che incontrai la terza sera che vagavo senza meta lungo il Tevere era abbigliata con un corsetto e una gonna a balze di qualità scadente. Mi sorrise come se fosse stata la più pura tra le donne e non badai al fatto che fosse pesantemente truccata o alla volgarità della sua scollatura; ignorai persino la sottile disperazione sul fondo del suo sguardo.
«Siete davvero un bel giovane. Potrei allietare la vostra notte, se lo volte, signore.», mi richiamò con la voce arrochita e un sorriso di circostanza sulle labbra sporche di rossetto.
«Davvero, tesoro? Credi di riuscire ad accendere in me il fuoco della passione?», le risposi con un che di cinico, inchiodandola sul posto con uno sguardo tagliente.
«Sì, posso fare tutto ciò che volete», concesse lei.
La sua disponibilità mi irritava, per quanto comprendessi che non fosse che frutto del bisogno di lavorare e che non poteva certo essere schizzinosa. Tuttavia, mi appariva incredibilmente volgare quell'ostentazione della sessualità priva della più piccola seduzione e magia della conquista.
«Eccoti una moneta d'oro, mia cara. Adesso lascia che ti prenda», risposi prontamente, posandole una moneta nel palmo.
Mi sorrise, incredula, rigirandosi il denaro tra le dita che poi cadde, tintinnando tra i sampietrini appena le sfiorai la guancia con le dita. La trassi a me,con un gesto imperativo e urgente, mentre la sottile malia dei Vampiri abbatté ogni sua riserva. Non avevo voglia di indugiare o di giocare, volevo solo bere e ucciderla, sbarazzarmi di lei e mettere fine alla sua vita infelice.
Quella pelle che aveva conosciuto ogni oltraggio e ogni vergogna non riusciva a scaldarmi mentre posavo la bocca contro il suo collo. In quegli attimi, quella creatura senza nobiltà e aspirazioni, conosceva tra le mie braccia il brivido di un piacere insano, molto più oscuro dei peccati che altri uomini avevano sfogato su di lei in passato.
Il mio morso, però, fu talmente brutale da staccare un pezzo di carne dalla sua gola e far zampillare il sangue in un improvviso fiotto. E lei urlò di dolore, le sue grida riecheggiarono nel vicolo e svegliarono un cane che rispose con un furioso abbaiare e richiamando l'attenzione delle guardie che pattugliavano i quartieri.
Bevvi tutto il suo sangue in un colpo solo, senza godere davvero di quella comunione e rifiutando di vedere gli stralci di ricordi che la mente di quella donna mi lasciava scorgere.
Contrariato e in tutta fretta, mi staccai e la lasciai crollare per terra: aveva gli occhi sbarrati, le labbra socchiuse in un ultimo anelito di orrore, ma le sue membra erano fredde e il cuore aveva ceduto di schianto. Coi riccioli scuri che, dalla crocchia sfatta, si allargavano in una pozzanghera in cui era immerso il viso, la abbandonai lì senza degnarla della più miseria cura, mentre le guardie accorrevano.

 

Mi sentivo come un pazzo, in trappola. Non potevo tornare a casa e non sapevo dove altro andare.
Infine, una notte, seduto sulle merlature di Castel Sant'Angelo a scrutare le carrozze che attraversavano la strada in lontananza e le signore nelle loro stole ai tavoli dei caffè, decisi di riprendere il viaggio che avevo iniziato anni prima e di dare un senso al mio ramingare.
Mi restava pur sempre tentare di scoprire da dove fossimo venuti noi Vampiri. Così, proposi a Nuberus di andare in Egitto, a cercare Sanakht. Sapevo che era tornato lì, mi aveva scritto brevi lettere per dirmi che era vivo ed era partito per quella meta qualche anno prima. Quindi, ci imbarcammo a Napoli e raggiunsi Alessadria d'Egitto: chiesi all'egizio di raggiungermi lì.
Vagai a lungo nel deserto, al limite della città, facendomi scorrere la sabbia tra le dita e beandomi del calore che rilasciava. Era un modo per ricordarmi del sole, di sperimentarne l'eco in tutta sicurezza.
Scoprii ben presto che, come nelle altre città in cui mi ero fermato in passato, giovani Vampiri mi seguivano e mi spiavano.
Incontrai uno sparuto gruppo di Bevitori di Sangue e li interrogai, desideroso di scoprire qualche indizio sulla nostra storia. Timorosi, non volevano rispondermi e solo dopo molta insistenza da parte mia mi condussero dal loro capo. Era un Vampiro da poco più di trent'anni, vestito con abiti dalla foggia tipicamente orientale e che mi accolse tra le rovine di un antico tempio vegliato da sfingi dal capo spezzato e dalle colonne rovinate.
«Benvenuto, straniero. Io sono Hapi. Cos'è che cerchi?»
«Risposte», iniziai con un pizzico di ironia.
Hapi mi sorrise e mi indicò un vecchio sgabello sgangherato: «Hai spirito, qualità rara. Dunque, fai le tue domande e, se sarà in mio potere, ti risponderò.»
«Cosa sai della storia della nostra razza? L'Egitto è un mondo antico, la culla della civiltà, per molti versi. Non vi sono forse notizie che corrano di bocca in bocca in queste terre?»
Hapi rimase seduto in silenzio, le braccia abbandonate sui braccioli di legno, lo sguardo fisso su un punto indistinto: «Il mio Creatore mi aveva raccontato di certe dicerie, ma non saprei davvero cosa fosse o meno vero. Prima di gettarsi nel fuoco, mi aveva parlato di una vecchia leggenda, quella dell'Albero della Vita. Pare che abbia a che fare con noi, ma sembra che – appunto – sia solo una vecchia storia, probabilmente null'altro che una favola dei tempi antichi. Non saprei dirti molto altro. Ma perché ti interessa?»
Rimasi ad ascoltarlo profondamente colpito da quelle poche e rade informazioni che, però, costituivano il primo gradino di quella cerca. Dunque, esisteva una leggenda e un cosiddetto “Albero della Vita”, ma Hapi non ne sapeva nulla di più: mi accorsi che la sua ignoranza era sincera.
«Mi importa per un motivo molto semplice: voglio sapere chi siamo, a cosa devo essere grato per quello che sono. Non mi piace accontentarmi di vivere il mio dono, voglio indagarlo», gli rivelai con sincerità.
Hapi annuì, come convinto da quell'argomentazione e fece un cenno ad uno dei suoi Vampiri che mi portò una scatola di legno scuro. Aprendola, trovai un vecchio rotolo di papiro che sembrava sul punto di sbriciolarsi.
«Puoi prenderlo. Io non so leggerlo: è scritto in geroglifico e ormai nessuno più sa parlarlo, tanto meno leggerlo qui. Il mio Creatore ci aveva scritto alcuni appunti delle sue memorie. Può darsi che, se trovi il modo di decifrare il messaggio, tu possa trovare le risposte che cerchi.»
Ringrazi Hapi e me ne andai, portandomi il rotolo. Mi chiesi come avrei potuto fare a tradurlo e l'entusiasmo che avevo covato all'inizio sfumò. Fu Nuberus ad offrirmi la soluzione. Tornando alla carrozza, gli mostrai il papiro e lui, con una disinvoltura assurda, mi sorrise.
«Posso tradurtelo io, Alphonse. Non c'è nulla di più semplice.»
«Tu conosci l'egiziano antico?», chiesi incredulo.
«Io conosco tutte le lingue dei mortali, anche quelle di cui non c'è più alcuna traccia sulla faccia della Terra. Esisto da che esiste l'uomo e ho avuto parecchio tempo per apprendere tutte le sue favelle», si limitò a spiegarmi come niente fosse.
La notte seguente, mi svegliai al pensiero di conoscere il contenuto del papiro e Nuberus, divertendosi a tenermi sulle spine, non fece altro che dilatare l'attesa. Alla fine, mi lesse il messaggio: «C'è scritto che l'Albero della Vita è custodito nella Biblioteca di Alessandria.»
«Cosa?! Assurdo, quella biblioteca è andata distrutta secoli fa!», obiettai, scuotendo il capo.
«Non ho finito. Hai troppa fretta, come al solito», mi apostrofò e continuo a spiegarmi, trattenendo il papiro con delicatezza tra le dita. Mi riferì che era firmato da un Vampiro che si chiamava Sarenput che aveva contribuito a trasportare tutti i volumi occulti nella nuova Biblioteca prima che venisse distrutta e che essa si trovava in un passaggio magico a cui si accedeva dal basamento del Faro.
Fu così che venni a conoscenza di quel segreto che Hapi, nella sua ignoranza, non sapeva di custodire. Il suo Creatore doveva essere molto antico ed era un vero peccato che avesse scelto di distruggersi. Non avevo nulla da perdere e seguii quell'unico indizio a mia disposizione. Grazie alle istruzioni del papiro, trovai il passaggio ed entrai nella Biblioteca. Fu come una violenta scossa: tutto quel sapere mi lasciò stordito, senza fiato. Ma cosa cercavo davvero, non lo sapevo.
Il resto della storia è stata già narrata nelle pagine precedenti, così come me l'hanno riportata i miei amici.


Nel compiere la traversata che mi riportò a casa, invece, assaporai la dolcezza del rollio della nave, lo schiaffo del vento contro le vele e la salsedine che si incrostava sui vestiti e i capelli. Mentre tutti erano riuniti nella cabina di Larion ad ascoltare le sue vecchie storie che riusciva a raccontare con l'abilità di un istrione, io avevo preso l'abitudine di trascorrere le notti sulla prua del vascello, in piedi sulla polena dalle fogge di meravigliosa sirena, con le cime avvolte attorno al polso solo per sentirne il ruvido contatto, mentre mi sporgevo a fissare la tavola cupa del mare.
Allora, mentre i marinai sonnecchiavano pigramente sul pontile e i timonieri si davano il cambio per riposare, io trovavo pace nel mare d'inverno che cantava al mio orecchio con le voci dei marosi e dei gabbiani, nel Mediterraneo che baciava le coste e ci si insinuava, scavando le sue forme meravigliose.
A Napoli salutammo Larion e Demetrius. Lasciarli mi crucciò molto, ma Larion aveva il forte desiderio di tornare alla sua signoria in Russia e io non ebbi cuore di trattenerlo. Gli ripromisi che sarei andato a trovarlo, un giorno o l'altro, assieme a Violate e Alexandra, che si era molto affezionata. Ci salutammo con un braccio e una pacca sulla spalla, come se fossimo stati fratelli. Demetrius, il greco che parlava solo quando ne aveva motivo ma sapeva sedurre con il fascino di un oratore nell'agorà, andò con suo figlio, lasciandomi in pegno parole colme di rispetto, che ricambiai assicurandogli la mia lealtà e la mia ospitalità se fosse mai tornato da San Pietroburgo.
Quanto a me, Alexandra e Violate, decidemmo di restare a Napoli.
Nel Regno di Napoli la gente era sempre allegra, anche quando aveva fame e non c'era abbastanza farina per infornare il pane per tutti. La fibra dei napoletani era degna di nota e di invidia. Le giovinette vestivano con graziose gonne colorate a balze e grembiulini, gli uomini con calzoni larghi e le loro voci squillanti si confondevano tra le strade e le osterie dove si intonavano canzoni d'amore al suono vibrante del mandolino.
Una sera decidemmo di raggiungere Posillipo, attraversando le abbaglianti strade bianche a bordo della carrozza condotta da Nuberus. Io avevo indossato comodi abiti signorili, con una lunga giacca nera e la cravatta che si infilava sotto ad uno stretto gilet; con i capelli raccolti in una bassa coda, avevo persino le mani guantate e un bastone da passeggio. Violate vestiva di velluto nero e seta argentata, con la fronte cinta da belle perle e ricordava la candida Selene dei miti. Alexandra, invece, vestiva di bianco, perché era il colore che più amava e che le stava d'incanto: rassomigliava ad una ninfa dipinta dal Botticelli.
Il litorale s'apriva sulla vista dei Campi Flegrei e di capo Miseno, costruiti della stessa pietra vulcanica del Vesuvio. Arroccato sul mare in cui la sua facciata seicentesca si specchiava, sorgeva Palazzo Donn'Anna, con le sue arcate e finestroni che intrappolavano le ombre e le luci tremolanti e, privi di imposte, si specchiavano nel mare come occhi senz'anima. Là, da quasi quattrocento anni, si ergeva mai finito come una rocca foggiata dai flutti; la sua pietra grigia diveniva nera nel buio della sera, gli scalini erano livellati dal mare sciabordante che si infilava nei cortili e il cui suono riecheggiava fin nell'intimo delle sue stanze. Era una vista malinconica, il trionfo del barocco napoletano che si inchinava al mare.
«Le leggende raccontano che la regina Giovanna d'Angiò incontrasse i suoi amanti in questo palazzo: erano tutti prestanti pescatori e che, all'alba, ella faceva giustiziare, gettandoli in mare dalla stanza più alta», raccontai alle mie due fanciulle, facendo un lieve cenno ad una delle finestre da cui promanava la luce di una lampada, conferendo alla facciata qualcosa di ultraterreno, «Altri, invece, raccontano che donna Anna Carafa dava grandi feste nei suoi saloni. Una sera, sua nipote Mercedes de las Torres durante una rappresentazione teatrale baciò l'amante di Donn'Anna. Si sa solo che ella, dopo qualche tempo, scomparve misteriosamente. Si vocifera che, nelle notti di luna piena, Mercedes torni ad aggirarsi tra le scale e i corridoi del Palazzo e che, ogni tanto, quando il mare si infila sotto i portici ululando, si possano sentire le voci dei pescatori precipitati e morti annegati.»
«Oh, Alphonse, non dirai sul serio?», mi chiese Alexandra, deliziata da quelle leggende.
Nuberus, però, sogghignò, mormorando: «Di fantasmi ne vedo molti, in effetti».
Ma il tono enigmatico con cui fece quella considerazione lasciò un'ombra di mistero sulla veridicità dell'asserzione.
Dopo quella vacanza napoletana, mi lasciai alle spalle i teatri dove avevo visto recitare le opere della Commedia dell'Arte di Goldoni, la maschera nera dal naso adunco di Pulcinella e le danze popolari al suono dei tamburini.


 

A bordo della carrozza nera che mi aveva accompagnato in lungo e in largo nel corso di quattrocento anni, tornammo alla tenuta dei Benavia. Ritrovai il mio castello e le mie stanze, la mia biblioteca che – al pensiero di quella di Alessandria – sembrava troppo piccola e troppo vuota.
La sera, mentre l'ultima neve sporcava i tetti, Violate suonava il clavicembalo per noi e spesso Alexandra cantava per accompagnarla.
Poi uscivamo a caccia e nessuno poteva resistere al nostro passaggio. Adoravo restare in disparte ad osservare le due donne che si aggiravano ai crocicchi e fermavano gli incauti viaggiatori: somigliavano a due splendide Madonne dipinte da Raffaello e potevano essere scambiate effettivamente per madre e figlia.
Con loro, avevo ritrovato la mia felicità, un senso di profonda soddisfazione, il pieno appetito per l'esistenza.
La linfa dell'Albero della Vita, ovvero il Sangue di Osiride, la portai sempre con me, come una sorta di talismano. Molte volte, mentre l'alba spuntava e il sonno dei Vampiri scivolava sulle mie membra, io mi addormentavo contemplando quella fialetta con la netta impressione che il liquido si muovesse, sciabordando e raggrumandosi come dotato di vita propria.
Il Grande Segreto della nostra specie non ha modificato il mio modo di affrontare le notti eterne, né il modo con cui mi accosto alla sacra coppa del sangue, l'unica libagione di cui esiste la perenne abbondanza. Naturalmente, il sapere come siano nati i Vampiri e del retaggio divino che ciascuno di noi possiede, mi ha fornito una dimensione nuova della nostra storia e la voglia di scoprirne di più: ho un pezzo dell'immenso mosaico, ma – anche se è un tassello fondamentale – ne mancano molti altri per completare l'opera.
Avrei potuto abbandonarmi all'idea di essere la creatura più vicina agli Dei a camminare in mezzo ai mortali ostentandolo, chiedendo di essere adorato ovunque al mio passaggio, ma... non sarebbe poi tanto divertente, perché dalle divinità ci si aspetta la perfezione, l'onnipresenza e l'onniscienza e io, nonostante tutto, sono solo un errante in cerca di risposte, di nuove avventure e sensazioni.
Sono avido di sensazioni, tutto il mio mondo è fatto di sensi. Trovo che non ci sia nessuna chiave di lettura più profonda e forte dell'esistenza che quella delle parole mute scritte dall'incresparsi della pelle, dal respiro ansante e dal cuore che accelera in preda alla vertigine.
In fondo, non mi sento un Dio, per quanto la definizione sarebbe così calzante per il mio ego. Forse potrei considerare Dei che camminano Sanakht, Demetrius e Violate, i Vampiri più antichi che abbia fin'ora conosciuto, ma persino loro stessi rifuggono questo epiteto, così come rifuggono l'idea ripugnante di divenire simili a statue di pietra da incensare nei templi.
Se i mortali devono proprio adorarci, che lo facciano nel segreto dei nostri incontri, nell'afflato del nostro Bacio Oscuro, mentre mesciamo la coppa sacra della loro vita con le nostre labbra.

 

 

Alphonse di Benavia

 

 

 

 

 

 

 

 

________________________________________________________

 

NOTE DELL'AUTRICE

 

 

Eccomi giunta alla fine. Ancora non ci credo. Guardo la mia ultima “fatica” e mi chiedo come abbia fatto a concludere questa storia in tempo per consegnarla ai contest per cui l'ho scritta.

Se sono soddisfatta? Beh, non credo che nessuno sia mai soddisfatto fino in fondo, posso solo dire che ho tentato di dare il massimo e scrivere una storia quanto meno all'altezza. Avrei potuto fare qualcosa di meglio, magari, non so... ci tengo semplicemente ad aver tentato di creare un sequel ai miei due precedenti racconti di questa serie nata praticamente per caso, “Letter to Alexandra” e “L'Eco del Sangue”. Tutti i Vampiri qui apparsi, infatti, sono personaggio che hanno già avuto il loro ruolo nelle altre vicende: ho tentato comunque di riprenderne i tratti e renderli personaggi comprensibili anche senza aver letto le altre storie e spero di esserci riuscita.

Ho voluto in qualche modo rispondere ai diversi interrogativi nati con i finali aperti delle due storie già pubblicate, ma ho lasciato anche ampio spazio per innestare, volendolo, diversi racconti da sviluppare a parte, nel passato come nel futuro di Alphonse.

Mi piaceva trovare una risposta significativa alla domanda su come siano nati i Vampiri e non potevo esimermi dal darne una chiave di lettura egizia. La leggenda di Osiride, Iside e Seth (così come i vari riferimenti mitologici) è autentica, ciò che io ho romanzato riguarda, appunto, il ratto del sangue di Osiride da parte di Seth con cui ha mischiato il proprio per darlo ai suoi seguaci, i primi Vampiri. Credo che sia stata una buona soluzione, quanto meno è di mio gusto. :P

 

Stavolta, benché abbia deciso di mantenere l'impianto con un prologo e un epilogo, la storia si snoda su una scelta stilistica differente rispetto alle altre due storie della serie: il racconto è, infatti, per la maggior parte in terza persona, con l'innesto di narrazioni in prima persona laddove ho ritenuto necessario approfondire un certo personaggio (per esempio il racconto di Violate o di Sanakht) o dare voce per risolvere certe parti maggiormente oscure (come nell'epilogo in cui è Alphonse a prendere la parola). Tuttavia, ho tentato di spaziare molto con i point of view dei vari personaggi e mantenere uno stile adatto all'ambientazione, ai personaggi e al periodo storico trattato.

A proposito di periodo storico, tutto ciò che trovate nella storia ha ovviamente dei riferimenti che mi sono premunita di cercare, per dare ovviamente corpo e verosimiglianza dell'ambientazione stessa, compresi i vari personaggi storici o eventi citati. A tal scopo, ho provveduto ad aggiungere delle note esplicative che possano costituire aiuto e approfondimento, per chi volesse cimentarsi.

 

Passando al resto, ecco la carrellata di contest indetti sul forum di EFP a cui la storia è iscritta, con i miei ringraziamenti agli organizzatori per avermi dato l'ispirazione adeguata.

 

 

- “The melancholy spirit”, indetto da Yuko Chan, con il prompt: http://it.tinypic.com/view.php?pic=2ld9m6d&s=8

Anche se a questo contest non ho potuto più partecipare perché non sono riuscita a terminare la storia per tempo, è grazie all'immagine che mi è venuta l'idea dell'Albero della Vita.

 

 

- “Frammenti di mondi”, indetto da Elsker e Lutea Eos, con il pacchetto:

 

Tenné

Città: Alessandria d’Egitto → naturalmente, Alessandria è la città dove si svolgono i fatti importanti dell'intera storia, il fulcro – con il suo bagaglio di antichità e segreti – dove si snoda la vicenda.

Genere: Thriller → non avendo mai scritto storie di questo genere, ho cercato di fare del mio meglio nel tenere un ritmo quanto meno più serrato e dotato di suspance.

Terzo elemento: un misterioso strumento musicale → ho scelto, in questo caso, i Sistri di Hathor. Esistevano veramente, avevano precisamente i nomi e le funzioni descritte nella storia.

 

 

- “The Ancient Tales”, indetto da Tsunade e InoChan con il pacchetto:

 

Classe -> azzurro: Vampiro → è una storia di Vampiri, su questo almeno non ci piove XD

Situazione -> Drago: "I rovi coprivano completamente la porta di quell'edificio diroccato." → ho scelto di usare questa situazione nella scena in cui Sanakht torna a reclamare i Sistri di Hathor, una scena significativa.

Immagine -> http://fc07.deviantart.net/fs70/i/2011/327/b/0/dreamer_by_erina-d4h3e5i.jpg → l'immagine mi ha ispirato la scena della trasformazione in Vampira di Violate, molto suggestiva.

 

 

 

Non saprei che altro aggiungere, sarà il caldo micidiale, non saprei. XD

Ringrazio comunque chi passerà a leggere e, magari, vorrà lasciare il suo parere.

 

 

A presto,

 

 

Melian

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale > Vampiri / Vai alla pagina dell'autore: Melian