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Autore: lilJEyre    03/09/2015    2 recensioni
A volte la bellezza sta nel ghiaccio del Nord, nel mare della Norvegia, negli occhi dolci di chi non conosciamo e che mai ci vedranno. In un cielo che non conosciamo, ma che impariamo ad amare.
A volte la vita è dura, ma trova sempre il modo di farsi perdonare.
A volte abbiamo solo bisogno di amare e di essere amati.
(...) Le sue mani scesero sul mio collo, sulle spalle, facendomi venire la pelle d’oca sulla nuca. Poi, ancora, scesero nell’ incavo del mio collo, sulle orecchie e infine tra i capelli.
L’unico rumore percettibile era lo scoppiettio del fuoco, accompagnato dal il mio respiro corto.
Uno strano calore s’irradiò dal centro del mio petto in tutte le parti del mio corpo, facendo vibrare ogni mia terminazione nervosa. Affondò il viso fra i miei capelli ed inspirò.
«Il profumo di lavanda è anche il mio preferito.» mormorò allontanandosi.
Le fiamme del camino ballavano e si riflettevano nei suoi occhi vitrei. (...)
(...) Le sopracciglia erano unite in una linea retta, le labbra dischiuse. Pensai che se la mitologia scandinava fosse stata reale, Thor, figlio di Odino, avrebbe avuto il suo volto.
«Grazie…»
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo due

 

 

 

    «Piacere di conoscerti», la sua voce vibrò, ridestandomi.
    Afferrai la mano tesami. «Piacere mio» risposi stringendola. Era fredda e solo allora mi resi conto che indossava ancora il cappotto.
    Era rivolto verso me, i suoi occhi era posati sul mio viso, ma non mi stava guardando. Sorrise.
    «Linn mi ha parlato molto di te, al telefono.»
    «Oh. Spero siano state parole carine» farfugliai in imbarazzo.
    Lui fece un risolino, guardando un punto indefinito fra me e Linn. «Sì, piuttosto carine.»
    «Middag!» esclamò la nonna sulla soglia della cugina.
    Mi voltai verso Linn, con espressione interrogativa.
    «La cena. E’ pronta» sorrise lei.
    «Andiamo, Ruth» aggiunse Linn prima di rivolgersi al cane steso ai piedi di Alexander, così simile più simile ad un lupo che a un cane. Batté le mani sulle ginocchia e correndo verso la veranda alla destra del soggiorno.
    Per un alcuni istanti mi ritrovai a dondolare sui talloni, evitando di guardare il viso di Alexander, e concentrandomi sulle sue larghe spalle, mentre si sfilava la pesante giacca.
    Lo vidi allungare una un braccio e avanzare di un passo nella direzione dell’entrata.
    «Posso aiutarti?» chiesi tendendo le mani verso lui.
    «Te ne darei grato» mormorò con voce bassa, abbozzando un sorriso.
    Afferrai la sua giacca e l’appesi accanto alla mia. Poi mi voltai, trovandolo nella stessa posizione, lo sguardo perso nel vuoto.
    «Andiamo?» mi chiese sorridendo con fare gentile.
    Annuii col capo, ma mi resi conto che ciò non bastava. «Sì» dissi avvicinandomi a lui credendo di doverlo aiutare, lui però, sfiorando il divano con i polpastrelli, si diresse verso la cucina, quasi avesse nella propria testa l’immagine vivida del soggiorno.
    Una volta in cucina Elna mi sorrise e, avvicinandosi ad Alexander, lo prese per il braccio, poggiandogli poi una mano sulla sedia. Si sedette, mentre lei prendeva una grande ciotole contenente una zuppa.
    «Iris, puoi sederti lì» dissi Harald indicandomi la sedia accanto a quella di Alexander.
    Sorrisi ed annuii col capo.
    Mentre prendevo posto, Linn entrò dalla porta in cucina, che dava probabilmente sul retro della casa.
    «Aaaah, la zuppa della nonna!» esclamò entusiasta, mentre si sedeva di fronte a me. «Vedrai, è squisita.»
    Elna ne versò un po’ nel piatto di Alexander e poi nel mio. «Grazie» mormorai.
    Alexander, lentamente, afferrò il cucchiaio e poggiando l’indice ed il pollice al lato del piatto, cominciò a mangiare la zuppa.
    Quando anch’io l’assaggiai, estasiata, mi voltai verso Bretta. «E’ deliziosa!» esclamai.
    «
Deilig» sibilò Alexander sporgendosi verso me.
    Per qualche inspiegabile motivo, avverti una stretta allo stomaco.
    «Deilig!»
dissi alla nonna Britta, che annuii col capo, sorridendo.
    Mi sporsi verso Alexander, guardando il profilo del suo viso. «Grazie» mormorai, mentre il profumo di dopobarba m’invadeva i polmoni.
    Sorrise. «Non c’è di che» mormorò.
    Quando tornai diritta, incontrai tre paia di occhi che luminosi mi sorridevano.


    Dopo cena, stanca per il viaggio, distrutta per il viaggio, anche se le mie ore di sonno non coincidevano con quelle di Trondheim, salii in camera, esattamente come fece Linn.
    «Chiudi gli occhi, e basta. Ti addormenterai.»
    Sorrisi. «Oh, ci proverò» risposi prima di varcare la soglia della porta.
    Una volta entrata, poggiai la schiena alla porta e mi lasciai cadere lungo essa. Mi passai le mani fra i capelli, trattenendoli sulla nuca. Lì, seduta sul caldo legno, ripensai alla cena, all’affetto che trapelava da ogni sguardo, che colorava ogni voce. Ripensai ad Alexander e mi chiesi per quale motivo fosse privo di vista. Il suo viso, così nordico e virile, era allo stesso tempo dolce, come un mix di rovi ed orchidee. Mi chiesi cosa celasse negli occhi, in ogni espressione del viso. Non era un tipo loquace, era ovvio, durante la cena parlò solo se interpellato.
    Scossi il capo, come se potessi scrollarmi dalla mente le immagini della cena. Mi alzai, dirigendomi in bagno. Lì, mi feci un’altra doccia calda, legandomi in una coda i capelli color del cioccolato. Indossai una t-shirt ed i pantaloni di una vecchia tuta, prima di mettermi sotto le coperte. Con la luce soffusa rimasi interminabili minuti a fissare il soffitto, girandomi e rigirandomi, controllando e ricontrollando la sveglia. Non riuscivo a dormire, così presi il libro che avevo lasciato in borsa. Lessi qualche capitolo, fino a che non sentii le palpebre diventare pesanti. Colsi tale occasione e spensi la luce, affondando il viso nel cuscino, ma non riuscii ad addormentarmi comunque. La radiosveglia segnata l’una di notte, quando decisi che restarmene lì non serviva a nulla, così mi alzai e, dopo aver indossato un maglioncino e le pantofole, uscii dalla camera. Camminai lentamente, evitando di far scricchiolare il pavimento rivestito da lunghe travi di legno, per non svegliare nessuno. Barcollai nel buio, reggendomi al muro, fino a che non arrivai alle scale e quasi parsi l’equilibrio. Quando scesi anche l’ultimo gradino, il cuore mi balzò in gola.
    Nel buio pesto, illuminata dalla fioca luce dei carboni ardenti nel camino, una figura maschile era seduta sul divano. Le gambe appena divaricate e le mani giunte.
    Feci un singulto, facendo un salto all’indietro e poggiando la schiena al muro. La figura mosse di scatto la testa, tendendo l’orecchio sinistro verso la mia direzione.
    «Chi c’è?», riconobbi al voce roca di Alexander.
    «Non volevo spaventarti» mormorai deglutendo rumorosamente e portandomi una mano al petto, mentre il cuore martellata veloce contro il mio palmo.
    «Devo essere io a chiederti scusa.»
    «Perché?» chiesi avvicinandomi ad una delle due poltrone.
    «Ti ho spaventata.»
    Mi portai una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Forse un po’.»
    Ridacchiò. «Scusa ancora.»
    «Beh, sì, potrei prendere in considerazione l’idea di perdonarti» dissi sedendomi sulla poltrona, portandomi le ginocchia al petto e stringendole con le braccia.
    «Se?»
    «Se… se mi dici quanto sei alto.»
    Rise. «Perché vuoi saperlo?»
    Feci spallucce. «Beh, sei la persona più alta che abbia mai conosciuto.»
    «Davvero?» chiese, e lo vidi sorridere nella semioscurità.
    «Sì.»
    «Sono alto un metro e novantaquattro.»
    Strabuzzai gli occhi. «Sul serio?»
    Rise ancora. «Sì, sul serio.»
    Accavallò una gamba, mentre guardava in direzione del camino, mostrandomi solo il profilo del suo volto.
    «Beh, allora… sì, sei perdonato.»
    «Ne sono felice» sussurrò con voce roca.
    Dopo alcuni istanti di silenzio, parlai ancora. «Linn non mi ha mai parlato di te.»
    Schioccò la lingua. «Non ama parlare della sua famiglia. Ci ama troppo, per farlo. Cerca di non pensarci. Le fa male. mormorò.
    «Perché il tuo inglese è così perfetto?» chiesi, ingenuamente.
    Lui non rispose subito, per alcuni istanti rimase immobile, prima di voltare il viso verso di me, guidato dalla mia voce. «I miei genitori si trasferirono in America quando avevo dieci anni. Dopo la loro morte ho continuato a vivere lì. Sono tornato qui solo un paio d’anni fa.»
    «Mi dispiace, non sapevo.»
    «Oh, tranquilla, è successo tanto tempo fa.»
    «Allora, come trovi la Norvegia?» chiese cambiando argomento.
    «Per quel poco che ho visto… è meravigliosa.»
    «Sì, lo è.»
    Mi chiesi se fosse cieco dalla nascita, o se lo fosse divento, e in tal caso come fosse accaduto. Chiederlo sarebbe stato scortese, così tacqui.
    «E tu vivi qui?» chiesi poggiandomi allo schienale della poltrona.
    «Sì. Vivo qui, in mansarda.»
    «Da bambina ne volevo una anche io. Ma abitavo in una casa su un piano solo.»
    «A Los Angeles?»
    «No, sono di Tucson. Mi sono trasferita a Los Angeles per lavoro.»
    «Tucson è in Arizona, giusto?»
    Sorrisi. «Sì.»
    «Ci sono stato, una volta. Di passaggio, però. Ero con la mia fidanzata, aveva parenti a Phoenix.»
    «Sei fidanzato?» chiesi inclinando il capo, mossa da una curiosità insana.
    «No, non più.»
    «Oh, io…»
    Rise. «Non sapevi e ti dispiace.»
    Arrossii. «Sono così prevedibile e monotona?»
    Tacque un attimo. «Sembri… sincera. La tua voce non è monotona.»
    Deglutii a fatica.
    «Usi un profumo alla lavanda?» chiese corrugando la fronte.
    Sbattei più volte le palpebre. «Il mio balsamo è alla lavanda» mormorai. Com’era possibile che lo sentisse?
    «E’ così forte?» chiesi.
    «No… sa di buono. Di fiori» mormorò, sorridendo sghembo.
    «Sono i miei fiori preferiti. Il loro odore… sa di casa.»
    «Sì, sono d’accordo» mormorò.
    Guardai il fuoco spegnersi, la fiamma dei carboni affievolirli lentamente. «Ti spiace se aggiungo un ciocco nel camino?» chiesi.
    Scosse il capo. «No.»
    «Grazie» sorrisi. Mi alzai e presi della legna accanto al camino, piano, la posai su ciò che restava nel camino, poi tornai indietro, verso la poltrona.
    «Ti spiacerebbe sederti qui?», la voce di Alexander era roca, graffiata, ma fu una venatura di dolcezza e gentilezza, che mi attirò sul quel divano.         Mi sedetti accanto a lui, con il viso rivolto verso il fuoco, ma lui scosse il capo, afferrandomi per il polso e conducendomi dall’altro lato, in modo che io dessi le spalle al fuoco.
    «Cosa…»
    «Non sono del tutto cieco, Iris. Riesco ancora a vedere luci ed ombre, sagome. E’ come se vedessi attraverso un telo di un grigio molto scuro. La luce del camino mi permette di distinguere i contorni del tuo viso, del tuo corpo» mormorò.
    «Oh.» soffiai.
    Il suo viso illuminato dalle fiamme del fuoco sembrava essere di porcellana.
    «Posso farti una domanda?» chiese appoggiandosi allo schienale del divano.
    Mi voltai verso lui, piegando una gamba. «Certo.»
    «Iris è un nome insolito. Non fraintendermi, delizioso, bellissimo… ma, ha qualche particolare significato? E’ una domanda personale ed invadente, lo so… ma è da quando Linn mi ha parlato di te che sono curioso.
    Sorrisi, inclinando il capo, senza smettere di guardare i suoi occhi celesti, persi sul mio viso. «L’Iris era il fiore preferito di mio padre. Quando mia madre era in attesa lui le regalava un fiore ogni mese. E’ morto prima che io nascessi. Così mia madre mi ha chiamato come i fiori che lui amava.             Inoltre, ho scoperto da bambina che significa arcobaleno. Nella mitologia greca Iris era la personificazione dell’arcobaleno, appunto.»
    «Mi dispiace molto. So cosa significa perdere qualcuno di così importante…»
    «Non preoccuparti. Non l’ho conosciuto. Il che non so se sia peggio…»
    «Non c’è una perdita migliore o peggiore.»
    Sorrisi. «Hai ragione.»
    Ci fu un attimo di silenzio. «Arcobaleno, hai detto? Cosa significa?» continuò corrugando la fronte.
    «E’ per via dei miei occhi.»
    Corrugò la fronte. «Cos’hanno i tuoi occhi?»
    «Eterocromia. Il mio occhi destro è grigio-blu, quello sinistro grigio-verde. E’ una differenza appena percettibile, al sole è più evidente.»
    Alexander, non parlò subito, ma quando lo fece, la sua voce era carica di rimpianto, di tristezza, desiderio e dolcezza. «Vorrei poterti guardare negli occhi» soffiò, mentre la sua mano cercava il mio viso. «Posso?» chiese con la mano a mezz’aria.
    Non dissi nulla, mi limitai ad afferrare la sua mano destra e portarmela sul viso. La sua pelle era calda e la mia parve prendere fuoco sotto il suo tocco leggero e delicato, mentre premeva il palmo sulla mia guancia. Le sua mano era tanto grande che avrebbe potuto ricoprire la lunghezza del mio viso.
    Dischiuse appena le labbra, mentre le sue mani mi sfioravano la fronte. Chiusi le palpebre quando i suoi polpastrelli si posarono sui miei occhi.
    «Hai gli occhi grandi.»
    Avrei voluto dire qualcosa, ma l’unica cosa che mi uscii dalle labbra fu un sospiro, leggerlo, seguito da un fremito, mentre le sue dita scendevano sulle mie labbra. D’un tratto, però, il contatto terminò.
    «Scusa» mormorò.
    «Non farlo» soffiai mentre riafferravo le sue mani e le portavo sul mio viso.
    Le sue dita vagarono ancora sulla mia pelle, sulle mie labbra piene, appena dischiuse.
    «La tua pelle è così…»
    Deglutii. «Così?»
    «Morbida.»
    Le sue mani scesero sul mio collo, sulle spalle, facendomi venire la pelle d’oca sulla nuca. Poi, ancora, scesero nell’ incavo del mio collo, sulle orecchie e infine tra i capelli. L’unico rumore percettibile era lo scoppiettio del fuoco, accompagnato dal il mio respiro corto.
    Uno strano calore s’irradiò dal centro del mio petto in tutte le parti del mio corpo, facendo vibrare ogni mia terminazione nervosa. Affondò il viso fra i miei capelli ed inspirò.
    «Il profumo di lavanda è anche il mio preferito.» mormorò allontanandosi.
    «Chi sei Alexander?» mormorai aprendo gli occhi e sfiorandogli con estrema delicatezza le sopracciglia e la palpebre appena lui le chiuse.
    «Un uomo di trent’anni che, in questo momento, vorrebbe solo poterti guardare negli occhi. Niente più, niente meno.» mormorò. Sorrise amaramente, poi chinò il capo, chiudendo gli occhi.
    «Buona notte, Iris» aggiunse, alzandosi e dirigendosi a passo lento verso le scale.
    «Buona notte, Alexander» soffiai osservando la sua figura statuaria salire scale.
    «Chi sei…» sussurrai a me stessa quando oramai la sua figura era scomparsa.

 

   
 
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