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Autore: AriaAuditore    07/09/2015    3 recensioni
"Torneremo insieme Louis. Non so quando né come, ma so di non avere alcun dubbio. Non potrebbe essere altrimenti. Ho bisogno che anche tu ci creda. Perché credo in te." E Louis crede in Harry, gli crede come non ha mai creduto in nessun altro prima d'ora. Perché Louis non è mai stato innamorato come lo è di lui. Perché il primo amore, quello che ti strappa il cuore e ti lascia senza fiato, è sempre vero. E non importa essere un vampiro, non importa se tutto e tutti sono contrari a questo sentimento. Louis e Harry non vogliono scegliere da che parte stare. Louis e Harry, a sedici anni, tra i corridoi di Evernight, un esclusivo e misterioso collegio, hanno incontrato l'amore. E nessuno potrà portarglielo via.
***
Voglio precisare che la storia in questione non l'ho scritta io ma è un adattamento dal libro 'Evernight' di Claudia Gray.
Genere: Azione, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson, Nuovo personaggio
Note: Cross-over | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Ancora scosso dall'adrenalina, risalii l'interminabile scala a chiocciola fino all'appartamento in cima alla torre. Stavolta non mi curai di essere silenzioso. Sfilai lo zainetto dalla spalla e mi lasciai cadere sul divano. Fra i capelli avevo ancora qualche foglia, che levai subito.
 
— Louis? — Mia madre emerse dalla camera da letto, le mani ad annodare la cintura della vestaglia. Mi sorrise, ancora mezza addormentata.  —  Ti sei alzato presto per fare una passeggiata, tesoro?
 
—  Sì.  —  Feci un sospiro. Non aveva più molto senso cercare di buttarla sul drammatico.

Poi arrivò papà alle spalle di mamma, e la abbracciò.  —  Non riesco a credere che il nostro ragazzo sia già all'Accademia di Evernight.

—  È successo così in fretta —  sospirò lei.  —  E più si invecchia, più il tempo scorre veloce.

Lui scosse la testa. — Lo so.

Brontolai. Ripetevano di continuo discorsi del genere, ormai lo facevano apposta per stuzzicarmi. Il sorriso di mamma e papà si 
allargò.
“Sembrano troppo giovani per essere i tuoi genitori" dicevano tutti nella mia cittadina. In realtà intendevano "troppo belli". 

Entrambe le cose erano vere.

I capelli di mia madre erano color caramello; quelli di mio padre di un rosso così scuro da sembrare quasi nero. Lui era di altezza media, ma muscoloso e torte; lei minuta in tutti i sensi. Il viso di mamma era regolare e ovale come un cammeo antico, papà aveva la mascella prominente e un naso che sembrava reduce da qualche scazzottata giovanile, ma che sul suo volto stava bene.

Io? Io avevo capelli castani che sembravano soltanto castani e una pelle così candida da farmi sembrare, più che diafano, smunto. Nel dubbio, il mio DNA aveva sempre fatto le scelte sbagliate. Secondo i miei genitori, crescendo sarei diventato più carino, ma è quello che dicono sempre tutti i genitori.

—  Provvediamo alla tua colazione  —  esclamò mamma, diretta in cucina. — O hai già mangiato qualcosa?

—  No, non ancora.  — Non sarebbe stata una cattiva idea mangiare prima della grande fuga, in effetti: il mio stomaco già ruggiva. Se Harry non mi avesse fermato, in quel momento mi sarei ritrovato a vagare per i boschi  con una fame da lupo e una lunga camminata verso Riverton davanti a me. I miei grandi piani di fuga.

II ricordo di Harry che mi placcava, di noi due che rotolavamo fra l'erba e le foglie, irruppe nella mia mente. In quell'istante mi aveva terrorizzato, e ripensarci mi metteva i brividi, ma ormai era una sensazione completamente diversa.

—  Louis  —  la voce di mio padre sembrava severa, perciò alzai uno sguardo  colpevole. Era riuscito, chissà come, a indovinare i miei pensieri? Mi resi subito conto di essere paranoico, ma la sua serietà, quando mi si sedette accanto, era incontestabile.  —  So che non morivi dalla voglia di venirci, ma Evernight è importante per te.

Ecco, lo stesso genere di discorso che mi faceva quando da piccolo doveva convincermi a prendere lo sciroppo per la tosse.  —  Non voglio dover ripetere questa conversazione, davvero.

— Daniel, lasciala stare. — Mamma mi porse un bicchiere e tornò in cucina, da dove giunse il rumore di qualcosa che sfrigolava in padella.  —  Se non ci sbrighiamo, saremo in ritardo per la riunione preorientamento del corpo insegnante.

Guardò l'orologio e brontolò qualcosa.

— Perché le programmano così presto? Non siamo mica tutti mattinieri, a questo mondo.

—  Lo  so  — mormorò lei. Per loro qualsiasi orario prima di mezzogiorno era troppo presto. E da quando ero nata io, lavoravano come insegnanti, sempre in guerra contro le otto del mattino. 

Mentre facevo colazione si prepararono, azzardarono qualche battuta che avrebbe dovuto tirarmi su il morale, e mi lasciarono solo a tavola. Mi andava più che bene Parecchio tempo dopo che furono scesi, e con le lancette sempre più vicine all'ora d'inizio dell'assemblea di orientamento, ero ancora seduto lì. Forse nel mio immaginario bastava prolungare la colazione per evitare di affrontare tutti quegli sconosciuti.

Il fatto che ci fosse anche Harry, un volto amico, bé, aiutava un pò. Ma non molto.

Infine, quando rimandare oltre fu impossibile, tornai nella mia stanza e indossai la divisa di Evernight. La odiavo - non ero mai stato obbligato a indossarne una - ma la cosa peggiore fu che ritrovarmi in quella stanza rievocò lo strano incubo della notte precedente.

Camicia bianca inamidata.

Spine  che mi graffiano la pelle, mi frustano, mi dicono di tornare indietro.

Pantaloni lunghi e neri.

Petali che avvizziscono e diventano neri come bruciassero nel cuore di un incendio.

Maglione grigio con lo stemma di Evernight.

Bene, qual è il momento migliore per smetterla con i pensieri inutili e morbosi? Più o meno ora.

Deciso a comportarmi da adolescente normale perlomeno il primo giorno dell'anno scolastico, mi guardai riflesso allo specchio. 
La divisa non mi stava poi malissimo, ma neanche così bene. Sistemai i capelli in un ciuffo disordinato, catturai un minuscolo rametto che mi era sfuggito e decisi che avrei dovuto accontentarmi di quell'aspetto.

Il gargoyle mi guardava ancora, pareva chiedersi com'era possibile che qualcuno sembrasse così sfigato. O forse si prendeva gioco del fallimento totale del mio piano di fuga. Se non altro, non ero più obbligato a guardare la sua brutta faccia di pietra. Drizzai le spalle e uscii dalla stanza per l'ultima volta, davvero. Da quel momento non mi apparteneva più. 

Per tutto il mese precedente avevo vissuto nel campus con i miei genitori, e ciò era stata un'opportunità per esplorare praticamente tutta la scuola: l'aula magna, le sale di lettura al primo piano e le due torri enormi che da lì si innalzavano. Le ragazze vivevano nella torre settentrionale, insieme a una parte del corpo insegnante e a un paio di archivi polverosi, probabilmente il posto in cui andavano a morire i registri. I ragazzi stavano invece nella torre meridionale con il resto degli appartamenti dei professori, inclusa la mia famiglia. I piani superiori dell'edificio centrale, sopra l'atrio, ospitavano le aule e la biblioteca. Evernight aveva subito espansioni e aggiunte nel tempo, perciò certe sezioni erano decisamente diverse, nello stile e nelle dimensioni, dal resto dell'edificio.
C'erano corridoi tortuosi e serpeggianti che talvolta non portavano da nessuna parte. Dalla mia stanza sulla torre vedevo il tetto, un mosaico di archi, tegole e architetture diverse. Così avevo imparato a orientarmi, era l'unico modo per sentirmi pronto a ciò che mi aspettava.

Affrontai di nuovo la scala. Ero già sceso chissà quante volte, eppure temevo sempre di poter inciampare e rotolare giù da quei gradini grezzi e irregolari. Stupido, dissi a me stesso, che ti preoccupi di fiori che muoiono o dì cadere dalle scale. Qualcosa di molto più spaventoso mi stava aspettando.

Dall'androne delle scale sbucai nell'aula magna. Di prima mattina l'avevo trovata silenziosa, simile a una cattedrale. Adesso era strapiena di gente e di voci squillanti.
Malgrado il frastuono, sembrava che i miei passi echeggiassero nel salone: dozzine di volti si girarono di scatto a guardarmi. Tutti i presenti sembravano impegnati a osservare l'intruso. Tanto valeva appendermi al collo un'insegna al neon con la scritta NUOVO ARRIVATO.

Gli altri studenti erano raggruppati in capannelli troppo fitti per ammettere uno sconosciuto e lanciavano occhiate svelte e torve verso di me. Sembrava quasi che riuscissero a percepire i battiti del mio cuore accelerati dal panico. Loro mi apparivano tutti uguali, non nel senso più banale, ma perché condividevano la stessa perfezione. Le ragazze avevano capelli lucenti, che fossero sciolti a cascata sulle spalle o raccolti in una crocchia ordinata ed elegante. I ragazzi sembravano sicuri di sé e forti, con sorrisi simili a maschere. Erano in divisa, con i maglioni, le gonne, le giacche e i pantaloni in ogni variante possibile: grigio, rosso, a scacchi, nero. Lo stemma dei corvi li marcava e tutti lo sfoggiavano come se ne fossero i proprietari. Irradiavano sicurezza, superiorità e sdegno. Mi sentivo accaldato mentre me ne stavo ai margini della sala, spostando il peso da un piede all'altro.

Nessuno mi salutò.

In un istante il mormorio tornò a invadere l'aula. A quanto pareva, i goffi nuovi arrivati meritavano qualche momento di interesse e niente più. Sentivo le guance rosse per l'imbarazzo, perché ero certo di aver già fatto qualcosa di sbagliato, anche se non potevo intuire cosa.Oppure avevano già capito che quella, in fin dei conti, non sarebbe mai stata casa mia?

Dov'è Harry? Allungai il collo per cercarlo nella ressa. Sentivo che forse con lui al mio fianco sarei riuscito a sopportare quella situazione. Era una follia, lo conoscevo appena, ma non mi interessava. Harry doveva esserci e invece non lo trovavo. In mezzo a quella folla, mi sentivo completamente solo.

Mentre mi dirigevo verso l'angolo più lontano dell'aula, mi accorsi di qualche altro studente nella mia stessa situazione, un nuovo arrivato come me.

Un ragazzo con i capelli rossicci e un'abbronzatura da spiaggia, così stropicciata che sembrava avesse dormito con la divisa addosso, anche se da quelle parti un look del genere non gli faceva guadagnare neanche un punto.Indossava una camicia hawaiana aperta, sopra il maglione ma sotto la giacca, la cui allegria sgargiante cozzava quasi disperata contro l'atmosfera lugubre di Evernight. Una ragazza dai capelli così corti da sembrare un maschio, ma con un taglio per nulla sbarazzino; sembrava piuttosto che avesse armeggiato con un rasoio. La divisa le andava larghissima, di almeno due taglie. La gente sembrava evitarla, come trattenuta da una forza misteriosa. Tanto valeva essere invisibile: ancora prima dell'inizio dei corsi, era stata marchiata come "insignificante".

Come facevo a esserne così sicuro? Perché era appena successo a me. Ero intrappolato ai margini della folla, intimidito dal fracasso, minuscola nel salone di pietra e completamente perso.

— Signori, per favore!

La voce squillò, sbriciolando immediatamente il rumore in silenzio. Ci voltammo tutti verso il capo dell'aula dove la signora Bethany, la preside, era salita sul podio.

Era una donna alta dai capelli neri e folti, che portava raccolti sulla testa in una sorta di acconciatura vittoriana. Non riuscivo a darle un'età precisa. Il collo della camicetta orlata di pizzo era chiuso da una spilla dorata. Ammesso che qualcuno di così austero si possa considerare bello, era bella. L'avevo conosciuta  quando i miei genitori e io avevamo traslocato negli appartamenti dei professori. All'inizio mi aveva spaventato, ma mi ero detta che in fondo l'avevo appena conosciuta.

Ora però mi sembrava ancora più imponente. Nel momento in cui la vidi dominare, all'istante e senza sforzo, il salone pieno di gente - la stessa gente che mi aveva emarginato con un comune e silenzioso accordo prima ancora che potessi pensare a cosa dire - capii per la prima volta che la signora Bethany  possedeva il potere. 
Non soltanto quello della sua posizione di preside, ma potere vero, che nasce da dentro

— Benvenuti a Evernight. — Alzò le mani. Le unghie erano lunghe e laccate di smalto trasparente. — Alcuni tra voi sono già stati nostri ospiti. Altri avranno certamente sentito parlare da anni, forse dai propri familiari, dell'Accademia di Evernight, e magari si chiedevano se mai sarebbero riusciti a iscriversi. Quest'anno abbiamo altri nuovi studenti, conseguenza di un cambiamento nel la politica delle iscrizioni. Reputiamo che sia giunta l'ora che i nostri allievi incontrino una varietà più ampia di persone, di diverse provenienze sociali, affinché possano prepararsi meglio ad affrontare il mondo fuori dalla scuola. Ognuno di voi avrà molto da imparare dai compagni, e sono certa che tutti vi tratterete con mutuo rispetto.

Tanto valeva scrivere con lo spray, a lettere rosse giganti: ALCUNI DI VOI SONO PROPRIO FUORI POSTO. La politica delle "nuove  iscrizioni" quindi spiegava la presenza del surfista e della ragazza con i capelli corti: in realtà non erano veri studenti di Evernight. Servivano solo a rappresentare un'occasione di apprendimento per chi contava davvero.

Io non ero contemplato dalla nuova politica. Non fosse stato per i miei genitori, non mi sarei trovatolà. In altre parole, non contavo neanche come emarginato

— A Evernight non trattiamo gli studenti come bambini. — La signora Bethany non fissava nessuno di noi in particolare, piuttosto, sembrava guardare oltre la folla, uno sguardo distante eppure capace di includere ogni cosa nel suo campo visivo.  —  Siete giunti fin qui per imparare a vivere da  adulti del Ventunesimo secolo, e come tali ci aspettiamo che vi comporterete. Ciò non significa che Evernight non abbia delle regole. L'isolamento della zona in cui ci troviamo ci obbliga a mantenere la disciplina più severa. Ci aspettiamo molto da voi.

Non disse quali sarebbero state le misure contro i trasgressori, ma immaginavo che essere messi in punizione fosse il minimo.

Avevo  le  mani  sudate.  Le  mie  guance  iniziarono a bruciare, probabilmente ero visibile come un fuoco di segnalazione. Promisi a me stessodi essere forte e di non lasciarmi opprimere dalla folla, ma erano semplici promesse. Il soffitto alto e le pareti dell'aula magna sembravano chiudersi attorno a me. Mi sentivo ancora mozzare il fiato.

Non so come, ma mia madre attirò la mia attenzione senza gesticolare né chiamarmi, come sanno fare solo le  mamme. Vidi lei e papà a un capo della fila di professori, in attesa di essere presentati, ed entrambi mi rivolsero piccoli sorrisi speranzosi. Volevano che mi godessi il momento. 

Fu la loro speranza a darmi alla testa. Dover affrontare le mie paure era già abbastanza difficile, ci mancava soltanto il timore di deluderli.

La  signora  Bethany  concluse:  —  Le  lezioni  cominciano  domani. Per oggi, ambientatevi nelle vostre stanze. Fate conoscenza con i nuovi compagni. Imparate a orientarvi. Ci aspettiamo di trovarvi pronti. Siamo lieti di avervi qui e speriamo che sfruttiate al meglio la vostra permanenza a Evernight.

Gli applausi riempirono la sala e la signora Bethany li ricevette abbozzando un sorriso e chiudendo gli occhi con un movimento pigro e compiaciuto, come una gatta ben pasciuta.
Poi ripresero le conversazioni, ancora più chiassose di prima.
C'era una sola persona con cui volevo parlare e, d'altra parte, forse c'era una sola persona alla quale interessava parlare con me.

Attraversai l'aula badando di restare ai margini, con le spalle al muro. Lanciavo sguardi ansiosi, cercando tra la  folla i capelli color ebano di Harry, le sue spalle larghe, quegli occhi verde scuro. Se stavo cercando lui e lui cercava me, presto ci saremmo trovati. Malgrado la mia paura dei gruppi numerosi e la tendenza a sovrastimarli, sapevo che gli studenti erano soltanto duecento circa.

Lo  noterò, dicevo a me stesso. Non è come questi altri, freddi, snob e arroganti. Ma capii subito che non era vero.
Harry non era snob, ma aveva gli stessi bei tratti cesellati, lo stesso corpo tonico e la stessa, come dire, perfezione degli altri. Non poteva spiccare in quella folla di bei ragazzi, perché ne faceva naturalmente parte.

Al contrario di me.

Lentamente la calca diminuì, mentre gli insegnanti se ne andavano e gli studenti si disperdevano. Io restai nei paraggi finché non fui l'ultimo a rimanere nel grande salone. Di sicuro Harry sarebbe venuto a cercarmi. Sapeva quanto fossi impaurito e si sentiva responsabile di avermi spaventato ancora di più. Proprio non gli andava di dirmi ciao? 

Evidentemente no. Alla fine fui costretto a rassegnarmi al fatto che non lo avrei visto. Perciò non mi restava che conoscere il mio compagno di stanza.

Salii i gradini di pietra lentamente, con le scarpe nuove dalla suola dura che facevano un clic ciac eccessivo. Avrei voluto salire fino in cima e tornare dritta all'appartamento dei miei. Sapevo che mi avrebbero rispedito  giù  all'istante. Dopo cena avrei  avuto tempo di raccogliere le mie cose e traslocare una volta per tutte. Per il momento, la priorità era "ambientarmi".

Cercai di vedere il lato positivo della situazione. Forse il mio compagno di stanza era terrorizzato dalla scuola quanto me. Ripensai al ragazzo con la camicia hawaiana e sperai che potesse essere lui. Se avessi convissuto con un altro emarginato, le cose probabilmente sarebbero state più facili. Vivere con un estraneo - la presenza continua, anche di notte, di qualcuno che non conoscevo  -  rischiava di essere una tortura, ma speravo che prima o poi quella brutta sensazione svanisse. Non osavo invece sperare in un amico.

Patrick Deveraux, c'era scritto sul modulo. Cercai di sovrapporre il nome al ragazzo che ricordavo, ma non gli si addiceva affatto. Eppure, tutto era possibile.

Aprii la porta e mi resi conto, con un tuffo al cuore, che iI nome del mio compagno di stanza gli si addiceva invece alla perfezione. 
Non era affatto un altro emarginato. Anzi, era la personificazione del tipo Evernight.

La pelle di Patrick era del colore di un fiume all'alba, una tonalità scura ma delicata, e i suoi capelli ricci erano ora tirati indietro da un cerchietto che metteva in risalto i suoi tratti quasi femminili e il collo slanciato. Era seduto allo specchio, intento a comporre file ordinate di flaconi di creme per il viso, quando mi notò.

— Ah, tu sei Louis  —  esclamò. Nessuna stretta di mano, nessun abbraccio, soltanto il ticchettio delle boccette crema sul tavolino. — Non sei come mi aspettavo. 

Grazie mille. — Neanche tu. 

Patrick inclinò la testa per osservarmi e mi chiesi se già ci odiassimo. Alzò la mano curata e perfetta e iniziò a dettare le regole: 
—  Puoi prendere in prestito il mio profumo ma non le scarpe né i vestiti. — Non menzionò ciò che lui poteva chiedere a me, ma era fin troppo evidente che non gli servisse nulla. — Ho in programma di studiare più che altro in biblioteca, ma se vuoi lavorare qui dimmelo e andrò altrove a parlare con i miei amici. Aiutami nelle materie in cui sei bravo e io farò lo stesso con te. Sono certo che impareremo molto l'uno dall'altro. Mi pare corretto, no?

— Assolutamente.

— Bene. Andremo d'accordo.

Se si fosse comportato subito da falso amico, forse sarei rimasto ancora  più  sconvolto. Tutto sommato, quasi mi rassicurava che Patrick fosse così pratico. — Mi fa piacere che lo pensi — aggiunsi. — So che siamo... diversi.

Lui non obiettò.

— I tuoi genitori insegnano qui, vero?

— Sì. Immagino che le voci girino in fretta.

— Te la caverai. Si prenderanno cura di te.

Cercai di sorriderle e sperai che fosse vero. — Sei già stato a Evernight?

— No. Prima volta  — Patrick lo disse come se per lui cambiare del tutto le abitudini di vita fosse facile come infilarsi un nuovo paio di scarpe firmate. — È bellissimo, non credi?

Lasciai da parte il mio parere sull'architettura.  — Però hai detto di avere degli amici, qui.

— Be', certo. —  Il suo sorriso era delicato come ogni altro dettaglio, dal profumo ai flaconi di prodotti per la pulizia del viso, ben ordinati davanti allo specchio. —  Courtney e io ci siamo conosciuti in Svizzera lo scorso inverno. Vidette era mia amica quando abitavo a Parigi. E con Genevieve ho passato un'estate sul Mar dei Caraibi...  a St Thomas? No, forse era in Giamaica. Faccio sempre confusione. 

La mia minuscola cittadina d'origine mi sembrò più insulsa che mai. — In pratica, frequentate gli stessi giri.

— Più o meno.  —  In leggero ritardo, sembrava che Patrick si stesse accorgendo del mio imbarazzo.  —  Prima o poi diventeranno anche i tuoi.

— Mi piacerebbe esserne altrettanto sicuro.

— Ah, vedrai. —  Viveva in un mondo dove le estati senza fine ai tropici erano appannaggio di chiunque. Io non riuscivo nemmeno a immaginare di farne parte. — Conosci qualcun altro qui? A parte i tuoi genitori, dico.

— Solo persone che ho incontrato stamattina  —  cioè lui e Harry, per un totale netto di due.

— Tempo per fare amicizia ce ne sarà.  —  Patrick parlava spedito mentre iniziava a mettere in ordine il resto delle sue cose: sciarpe di seta color avorio, calze e camicie color grigio-bruno o tortora. Dove pensava di indossare accessori così eleganti? Forse per lui era inimmaginabile viaggiare senza.  —  Ho sentito dire che Evernight è un posto meraviglioso per conoscere uomini.

— Uomini? — Avevo capito bene? Ora mi spiegavo la sua passione per le creme per il viso.

— Hai già qualcuno?

Avrei voluto dirgli di Harry, ma non ci riuscii. Qualunque cosa fosse successo fra me e lui nella foresta, intuivo che era importante, ma le mie sensazioni erano troppo fresche per condividerle. Mi limitai a rispondere:

— Non ho lasciato il mio fidanzato ad aspettarmi a casa.

— Conoscevo tutti i ragazzi della mia vecchia scuola da quand'ero piccolo e ricordavo di quando giocavano con le costruzioni o mi impiastricciavano i capelli di plastilina. Ciò rendeva più o meno impossibile sentirmi attratto da qualcuno di loro.

— Fidanzato.  — Abbozzò un sorriso, come sorpreso da una parola infantile. Patrick non rideva di me, però. Ero semplicemente troppo giovane e inesperto perché mi prendesse sul serio.

— Patrick? Sono Courtney.  —  La ragazza entrò bussando alla porta mentre la apriva, ovviamente sicura di meritare il benvenuto. 
Era persino più bella di Patrice, aveva capelli biondi che le arrivavano quasi alla vita e il genere di labbra carnose che avevo visto sfoggiare soltanto alle divette della TV, che potevano permettersi silicone e trattamenti del genere. Lo stesso kilt, che pendeva goffo sulle ginocchia di alcune ragazze che avevo osservato poco prima, faceva sembrare le sue  gambe lunghe mille miglia.  —  Ehi, la tua stanza è molto più bella della mia. La adoro!

Le stanze, in realtà, erano più o meno tutte uguali: camere doppie con due letti bianchi in ferro battuto e una cassettiera ciascuno con tavolino e specchio. La finestra dava su uno degli alberi che crescevano più vicini all'edificio, ma non riuscivo a trovarci niente di così speciale.

Poi mi resi conto che una cosa c'era. — Noi siamo vicini ai bagni.

Courtney e Patrick mi guardarono come se avessi detto un'oscenità. Erano troppo raffinati per ammettere che avessimo bisogno del bagno?

Imbarazzato,  aggiunsi:  —  Non mi è mai, ehm, capitato di condividere un bagno. Cioè, con i miei genitori sì, ma non con... quanti sono, uno ogni dodici ragazzi? La mattina ci sarà da impazzire.

A quel segnale avrebbero dovuto dichiararsi d'accordo e iniziare a lamentarsi. Invece, Courtney continuava a studiarmi, incuriosita. Immaginavo che la sua curiosità fosse giustificata, ma desideravo che dicesse  qualcosa. Quasi mai, nemmeno davanti a uno sconosciuto, mi ero sentito minacciato da uno sguardo come il suo, prolungato e torvo.

— Stanotte si esce in cortile  —  annunciò a Patrick ma non a me. — A mangiare. Un picnic, diciamo.

La cena, a Evernight, andava consumata in stanza. All'apparenza era la "tradizione", un'usanza che risaliva a prima che qualcuno inventasse la mensa. I genitori spedivano beni di sostentamento per integrare i rifornimenti spartani che venivano consegnati ogni settimana. Ciò significava che avrei dovuto imparare a cucinare con il piccolo microonde che mi avevano comprato i miei. Patrick, ovviamente, non era preoccupato da questi problemi terreni. 

— Mi pare divertente. Non trovi, Louis?

Courtney lo inchiodò con uno sguardo: a quanto pare gli inviti non erano aperti.

— Mi dispiace. — replicai. — Stasera dovrei cenare con i miei. Grazie per la proposta, comunque.

Le labbra prosperose di Courtney assunsero un aspetto quasi demoniaco quando si piegarono in un ghigno. — Hai ancora bisogno di mamma e papà? Cos'è, ti danno da mangiare con il biberon?

—  Courtney — la rimproverò Patrick, ma non c'era dubbio che sembrasse divertito.

— Devi vedere la stanza di Gwen — Courtney iniziò a tirare Patrick per portarlo fuori.  —  Buia e inquietante. Lei è convinta che fosse una prigione, addirittura.

Uscirono insieme e la sorta di fragilissimo legame che si era creato fra me e Patrick svanì in un istante. Le loro risate riempirono il pianerottolo. Con le guance in fiamme, fuggii dalla mia nuova stanza e dal piano del dormitorio per correre a rifugiarmi di sopra, nell'appartamento dei miei.

Con mia grande sorpresa, mi lasciarono entrare senza battere ciglio. Non domandarono nemmeno perché fossi arrivato così presto. Mamma mi abbracciò e papà disse:

 —  Ricordati di prendere tutto, okay? Ti resta qualcosa da fare, ma al bagaglio abbiamo iniziato a pensare noi.

Gli ero così grato che sarei scoppiato a piangere. Invece tornai nella mia stanza, impaziente di trovare pace e silenzio in un posto sicuro.

Soltanto pochi indumenti invernali restavano appesi nell'armadio. Gli altri erano ammassati dentro il vecchio baule in pelle di papà. Un controllo veloce della borsa da viaggio confermò che bagnoschiuma, lacca, shampoo e il resto erano in ordine. La maggior parte dei libri sarebbe rimasta lì, ne avevo troppi per le poche mensole della stanza in dormitorio. Però i miei preferiti erano pronti per il trasloco: Jane Eyre, Cime tempestose e i volumi di astronomia. Il letto era fatto e su un cuscino c'erano alcune cose da appendere alle pareti, cartoline di amici che con servavo da anni e una mappa dello spazio che tenevo attaccata al muro quando abitavamo nella vecchia casa. Ma i miei genitori qui avevano appeso qualcosa di nuovo, per dimostrarmi che anche quella era casa mia: una piccola riproduzione incorniciata del Bacio di Klimt. L'avevo ammirato in un negozio, mesi prima, e a quanto pareva era il loro regalo a sorpresa per il primo giorno di scuola.

Sulle prime provai semplice gratitudine. Poi non riuscii più a smettere di osservare il quadro, né a togliermi dalla testa l'idea che in realtà non lo avessi mai guardato sul serio.

Il bacio era una delle mie passioni. Da quando mia madre aveva iniziato a mostrarmi i suoi libri d'arte, adoravo Klimt. Ero impressionato dal modo in cui decorava d'oro ogni linea e riquadro, e mi piaceva l'avvenenza dei volti che sbucavano dalle immagini caleidoscopiche che creava. In quel momento, tuttavia, l'immagine mi appariva diversa. Non avevo mai prestato troppa attenzione alla posa dei due soggetti, l'uomo che si china dall'alto come attratto verso la donna da una forza misteriosa e inesorabile. La testa della donna cade all'indietro come in estasi, preda della forza di gravità. 
Le labbra scure di lei risaltano accanto al pallore della pelle e al rossore delle gote. E la cosa più bella di tutte era che lo sfondo luccicante del quadro non sembrava più separato dall'uomo e dalla donna. Mi appariva come una nebbia densa e calda, il loro amore reso visibile, che trasformava in oro il mondo circostante.

I capelli dell'uomo erano più scuri di quelli di Harry, eppure cercavo di immaginare lui al suo posto. Avevo le guance in fiamme: ero arrossito di nuovo, di un rossore diverso.

Ripiombai nel presente e fu quasi come se mi fossi addormentato e avessi iniziato a sognare. Mi sistemai in fretta i capelli e mi concessi un paio di sospiri profondi. Dallo stereo arrivavano le note di String of Pearis di Glenn Miller. Quando ascoltava quella musica, papà era di buonumore. Non riuscii a non sorridere. Almeno uno fra noi apprezzava l'Accademia di Evernight.

Quando finalmente terminai di fare le valigie, era quasi ora di cena. Mi spostai in salotto e trovai mamma e papa che ballavano insieme e facevano gli sciocchi: papà gonfiava le labbra fingendo di essere sexy e mamma teneva in mano un orlo della gonna nera.

Mamma fece una giravolta fra le braccia di papà, che la piegò all'indietro in un casqué. Lei, sorridente, chinò la testa fino quasi a sfiorare il pavimento e mi vide.  —  Amore, eccoti.  —  Parlò mentre era ancora capovolta, ma in quel momento papà la raddrizzò.  — Hai fatto le valigie?

—  Sì. Grazie per avermi dato una mano. E grazie per il quadro, è bellissimo. — Si scambiarono un sorriso, contenti di avermi reso, almeno un poco, felice.

— Stasera si banchetta — con un cenno papà indicò il tavolo.  — Tua madre ha superato se stessa. —  Di solito mamma non esagerava in cucina, la serata era senza dubbio un'occasione speciale. Aveva preparato tutti i miei piatti preferiti, più di quanti potessi mangiarne. Stavo morendo di fame perché avevo saltato il pranzo e per la prima parte della cena lasciai che fossero i miei a conversare. Io mi concentrai sul cibo.

— La signora Bethany ci ha informati che finalmente la ristrutturazione dei laboratori è terminata  —  raccontò papà mentre sorseggiava dal bicchiere. — Spero di poterli visitare prima degli studenti. Potrebbero esserci macchinari talmente moderni che nemmeno io saprei usarli.

— Ecco perché insegno storia — replicò mamma. — Il passato non cambia. Diventa solo più lungo.

— Sarete i miei insegnanti? — domandai a bocca piena.

— Lo scoprirai domani, come tutti gli altri.

— Okay. — Non era da lui tagliar corto, mi colse quasi alla sprovvista.

— Non possiamo prendere l'abitudine di darti troppe informazioni riservate — aggiunse mamma in tono più gentile.  — Devi integrarti il più possibile con gli altri studenti, capisci?

Lo disse con leggerezza, ma per me fu un colpo basso. — E con chi di loro potrei avere qualcosa in comune? Con gli studenti le cui famiglie frequentano la scuola da secoli? O con gli emarginati che fanno ancora più fatica di me ad ambientarsi? A quale gruppo dovrei somigliare?

Papà  sospirò. — Louis, sii ragionevole. È inutile che ne discutiamo un'altra volta.

Era davvero il caso di lasciar perdere, ma non ci riuscii.  — D'accordo, lo so. Siamo venuti qui "per il mio bene". Quanto bene può farmi abbandonare la mia casa e tutti i miei amici? Rispiegamelo, perché forse non ho ancora capito.

Mamma posò una mano sulla mia. — È per il tuo bene perché non hai quasi mai lasciato Arrowwood. Perché ti allontanavi raramente persino dal nostro quartiere, se non ti costringevamo noi. E perché non potevi fare affidamento eterno sulla manciata di amici che avevi.

Il discorso era sensato e lo sapevo.

Papà posò il bicchiere. — Devi essere capace di adattarti alle circostanze che cambiano e diventare più indipendente. Questo è ciò che io e tua madre possiamo insegnarti. Per forte che sia il desiderio di vederti come il nostro bambino, sappiamo che non potrai esserlo per sempre. Per noi questo è il modo migliore di prepararti a ciò che diventerai.

— Smettila di fingere che sia una questione di maturità — obiettai. — Non lo è, e lo sai. Il  problema è che voi volete scegliere per me e siete decisi a fare a modo vostro, che mi piaccia o no.

Mi alzai e abbandonai la tavola. Anziché sgattaiolare in camera a cercare la felpa, afferrai il maglione di papà dall'attaccapanni e lo indossai sopra i vestiti. Era solo l'inizio dell'autunno, ma dopo il calar del sole nei dintorni della scuola si gelava.

Mamma e papà non mi richiamarono. Era una vecchia regola di casa: chiunque fosse sull'orlo di una crisi di nervi doveva uscire a fare una passeggiata, prendersi una pausa dalla discussione e poi tornare a spiegarsi. Non importava quanto infuriati fossimo, la passeggiata serviva sempre. 

A dirla tutta, ero stata io a creare la regola.  L'avevo inventata a nove anni perciò non pensavo che il problema vero fosse la mia maturità.

La mia insicurezza nel mondo, la certezza totale e inattaccabile di non potermici incasellare, non era un problema dell'adolescenza. Faceva parte di me, da sempre. Per sempre, forse.

Passeggiavo in cortile guardandomi intorno, con la tenue speranza di rivedere Harry nella foresta. Era un'idea stupida  - perché mai avrebbe dovuto passare tutto il suo tempo all'aperto? - ma mi sentivo solo, perciò andai a controllare. Non c'era. Dietro di me si stagliava l'Accademia di Evernight, più simile a un castello che a un collegio. Si potevano immaginare principesse chiuse nelle torri, principi che combattevano contro draghi negli angoli più bui e streghe cattive che proteggevano le porte con i loro incantesimi. Non sapevo che farmene delle favole, tantomeno in quel momento.

Il vento cambiò direzione e portò con sé un rumore fugace: risate provenienti dal chiosco del cortile occidentale. Erano senza dubbio le ragazze alle prese con il loro picnic. Mi strinsi più che potevo nel maglione e mi addentrai nel bosco. Non verso est dove correva la strada, la direzione che avevo preso quel mattino, ma verso il laghetto situato più a nord.

Era troppo tardi e troppo buio per vedere granché, ma mi piaceva sentire il vento frusciare fra i rami, il profumo fresco dei pini e il bubolare del gufo non troppo lontano.
Concentrato sul mio respiro, smisi di pensare al picnic, a Evernight e a qualsiasi altra cosa. Cercai soltanto di immergermi nel presente.

Poi il rumore di passi mi fece trasalire - Harry, pensai invece era papà che passeggiava con le mani in tasca lungo lo stesso sentiero battuto da me. Ovvio che sapesse come trovarmi.  — Quel gufo è vicino. Strano che non si sia spaventato.

—  Probabilmente sente odore di cibo. Non se ne andrà, se pensa che ci sia un pasto in arrivo. 

Come per darmi ragione, un veloce sbattere d'ali scosse i rami sopra la mia testa e la sagoma scura del gufo sfrecciò a terra. Un tremendo squittio rivelò che un topolino o uno scoiattolo era appena diventato la sua cena. Il gufo era sceso in picchiata, troppo veloce perché riuscissimo a vederlo. Io e papà restammo a guardare. 
In teoria avrei dovuto ammirare la perizia di cacciato re del gufo, ma non potevo fare a meno di essere dispiaciuto per il topo.

Papà disse:  —  Scusa se sono stato troppo brusco. Sei un ragazzo maturo e non avrei mai voluto insinuare il contrario.

— Va tutto bene. Ho perso le staffe. So che ormai è inutile litigare sul perché siamo venuti qui.

Papà mi sorrise. — Louis, sai bene che tua madre e io non pensavamo neanche di poterti avere.

— Sì. — Ti prego, pensai, non tirare fuori il solito discorso della nascita miracolosa.

—  Quando sei entrato nelle nostre vite, ci siamo dedicati a te con tutti noi stessi. Forse troppo. E questa è colpa nostra, non tua.

— Papà, no. — Mi andava benissimo quando al mondo c'eravamo soltanto noi tre, la nostra famiglia unita. — Non parlarne come fosse qualcosa di sbagliato.

— Certo che no. — Sembrava triste e per la prima volta mi domandai se davvero fosse entusiasta della situazione. — Ma tutto cambia, tesoro. Prima te ne farai una ragione, meglio sarà.

— Lo so. Mi dispiace di non riuscire sempre a controllarmi. — Il mio stomaco ruggì, arricciai il naso e chiesi, speranzoso: — Posso riscaldare la cena?

— Ho il vago sospetto che ci abbia già pensato tua madre.

Aveva indovinato. Il resto della serata trascorse nel buonumore. Fintanto che potevo, valeva la pena di divertirmi. Tommy Dorsey rimpiazzò Glenn Miller e fu a sua volta sostituito da Ella Fitzgerald. Parlammo e scherzammo di argomenti stupidi, soprattutto cinema e televisione, cose di cui i miei genitori non si sarebbero mai occupati, non fosse stato per me. Un paio di frasi sulla scuola, però, le azzardarono. 

— Conoscerai persone incredibili — mi garantì mia madre.

Scossi la testa ripensando a Courtney. Era una delle persone meno incredibili che avessi mai conosciuto. — Non puoi saperlo.

— Posso e lo so.

— Ah, adesso prevedi anche il futuro? — la stuzzicai.

—  Amore, non me l'hai mai detto. Cos'altro prevede l'indovina? — domandò papà mentre si alzava per cambiare lato al disco. Si ostinava a collezionare dischi in vinile. — Voglio proprio saperlo.

Mamma stette al gioco, premendosi i polpastrelli sulle tempie come una chiromante zingara. — Penso che Louis conoscerà molti... ragazzi.

Il viso di Harry spuntò fra i miei pensieri e il ritmo cardiaco accelerò all'istante. Mamma e papà si scambiarono uno sguardo. Sentivano i battiti del mio cuore riecheggiare nella stanza? Forse sì.

Cercai di buttarla sul ridere. — Spero che siano carini.

— Non troppo — commentò papà, e ridemmo tutti. Loro la trovarono una battuta davvero divertente; io volevo solo nascondere la sensazione di farfalle nello stomaco.

Che stranezza, non parlare di Harry con loro. Ai miei avevo sempre raccontato quasi tutto della mia vita. Ma Harrry era diverso. Parlare di lui avrebbe infranto l'incantesimo. Volevo che restasse un segreto ancora per qualche tempo. Così lo avrei custodito gelosamente.

Già desideravo che Harry appartenesse soltanto a me.

*****
Spazio autrice
Buonasera a tutti, ecco a voi il secondo capitolo di questa storia, spero che vi stia piacendo :)
Ho deciso che fino all'inizio della scuola pubblicerò quasi ogni giorno un capitolo, però mi piacerebbe ricevere qualche vostro commento per sapere se la storia vi sta piacendo e se volete che continui a postare i capitoli.
Detto questo vi auguro buona lettura e arrivederci al prossimo capitolo lol
-A. 


 
  
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