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Autore: TimeKeeper    09/09/2015    0 recensioni
[La Leggenda degli Uomini Straordinari]
Era un pomeriggio più caldo della gelida, media estiva inglese. Il sole era sorto ormai da qualche ora, e restava ad osservarci sfacciato, mentre scendevamo dal calesse che ci aveva accompagnato fino alla casa indicata dal Signor M. Era una magnifica palazzina bianca in Fenchurch Street, che spiccava violentemente tra gli alti e degradati edifici dell’East End, avvolta da un’aura di silenzio e mistero.
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Strophe the Second

E come sei venuto fin qui?
Suvvia, dimmi come e perché.
[…] il luogo, se consideri chi tu sei,
può valer per te la morte.

 
Il piccolo aereo che avevamo noleggiato sorvolava tutt’altro che silenziosamente la capitale della Mongolia offrendoci un panorama spettacolare; il fiume Angara, quasi completamente ghiacciato a causa del clima troppo rigido di quella parte del mondo, sembrava una venatura chiara all’interno del paesaggio di marmo della pianura. Angel non aveva mai viaggiato su un mezzo di trasporto simile, ed osservava incuriosita ogni cambio di quota, ogni lieve modifica della rotta prevista; in effetti non potevo darle torto. Era quasi impossibile scorgere queste nuove macchine ad eliche e motore a propulsione solcare il cielo, nell’era in cui i cavalli trainavano ancora lussuose carrozze e le biciclette avevano una ruota sola: ci si limitava ad alianti o ai palloni aerostatici, comunque ancora considerati inaffidabili; ma per chi sapeva dove cercare – e aveva il portafoglio gonfio – la tecnologia era già pronta e sorridente, a disposizione. Nascosti negli hangar prefabbricati, di legno e lamiera, nelle aperte e sconfinate campagne inglesi, i contrabbandieri di alcolici e tabacco avevano costruito da anni il loro esercito di macchine volanti, guardandosi bene dal rendere pubblica la scoperta. Come avevo annunciato alla mia amica nel momento in cui prendemmo la decisione di partire, bastava solo avere le amicizie giuste.
«Iris!» chiamò il pilota, un uomo di colore di circa trent’anni, che non aveva il minimo rispetto sia per le leggi giuridiche sia per quelle dettate dall’etichetta dell’epoca, oltre che un inglese pessimo. Forse era per questo che mi piaceva tanto.
Il rumore delle eliche era assordante, così che dovetti urlare per farmi sentire: «Dimmi tutto, Boujii» risposi avvicinandomi alla minuscola cabina di pilotaggio, di poco più grande della stiva, dove eravamo state sistemate io e Angel con l’equipaggiamento.
«Stiamo sorvolare laghi ghiacciati, non potere andare oltre»
Alzai la mano destra, mostrando il pollice in segno affermativo, per non sprecare fiato e andai da Angy: «Boujii dice che stiamo sorvolando i Laghi Ghiacciati e che non può andare oltre»
«Guarda laggiù» mi rispose semplicemente lei, indicando il finestrino. Oltre un’enorme distesa di ghiaccio, giaceva un villaggio di capanne di legno; a giudicare della quantità di neve che le ricopriva, erano state abbandonate da mesi. Frugai con gli occhi tutta la distesa intorno, in cerca di ciò cha la mia amica mi aveva indicato. Una piccola esplosione alzò una nuvola di fumo nero, tra le montagne retrostanti al villaggio; i miei occhi si allargarono per lo stupore quando vidi ciò che si nascondeva tra le distese innevate di quel posto: un enorme castello, dalle cui torri spuntavano intere nuvole di fumo denso e nerastro.
«Ha fatto le cose in grande» sussurrai senza riuscire a distogliere lo sguardo dal finestrino.
La fortezza si estendeva per gran parte del fianco della montagna, arrampicandosi come un parassita alla sua roccia chiara; ricordava nella forma gli edifici e le chiese che avevo visto a Mosca da bambina. Era disposta su più piani e da alcune delle innumerevoli torrette fuoriuscivano lingue di fuoco.
Ordinai a Boujii di atterrare in un luogo nascosto tra le montagne ghiacciate, abbastanza vicino alla fortezza da poterla raggiunger a piedi; mi accontentò immediatamente, con un atterraggio non proprio da manuale. C’informammo sui tempi della partenza per il ritorno a casa; naturalmente non saremmo potute rimanere a terra più di un paio d’ore, altrimenti l’aereo, a causa della neve accumulata sulle ali e del raffreddamento delle eliche, non sarebbe più potuto partire. Fissammo l’ora del ritrovo e c’incamminammo verso la dimora di M.
Il freddo era pungente, nonostante ci fossimo attrezzate con i migliori cappotti di visone in circolazione. Il sacco che tenevo sulle spalle era talmente pesante da tagliarmi i muscoli della schiena e spesso stringevo con entrambe le mani i bordi orlati di pelliccia del tabarro, nella speranza di trovare un sollievo a quel vento insopportabile; l’unica mia consolazione erano i guanti di montone che tenevano le mani al caldo e all’asciutto.
«Sai cosa mi ci vorrebbe?» chiesi ad Angel che camminava davanti a me, con il cappuccio rialzato in un vano tentativo di salvare le orecchie dal congelamento.
«Cosa?» mi sentii rispondere, come da molto lontano.
«Un bicchiere di Whiskey… sai come mi scalderebbe?»
Angel si fermò e si voltò verso di me con un’espressione inappagabile. Aveva raccolto i lunghi capelli scuri in una treccia, ma alcune ciocche erano sfuggite dalla pettinatura ed ora erano coperte di finissimi fiocchi di neve, come il resto del cappotto; gli occhi castani, profondi ed espressivi, erano socchiusi a causa del vento freddo e il collo latteo era coperto da una sciarpa pesante.
«Vedremo cosa si può fare – mi rispose, soffocando una risata – Ora andiamo… polverizzatrice di vampiri»
 
Raggiungemmo la fortezza dopo circa mezzora di cammino. La sua imponenza aumentava man mano che ci avvicinavamo e l’aria si faceva densa ed irrespirabile: un androne dell’inferno allestito tra le nuvole ghiacciate del paradiso. Il perimetro era completamente sgombro di guardie: o M. era così convinto di essere invulnerabile da risparmiare sulla difesa o qualcuno aveva fatto piazza pulita.
«Oh mio Dio» disse Angel fermandosi di colpo a pochi metri da una piccola porta di ferro rinforzato.
La raggiunsi affettando il passo e mi sporsi oltre la sua spalla per vedere cosa l’aveva turbata; un uomo giaceva a terra supino, coperto di sangue, con evidenti segni di percosse. L’elmetto era stato scaraventato lontano, probabilmente di conseguenza ad un forte colpo, e accanto a lui c’era uno strano fucile, anch’esso sprofondato nella neve in seguito all’urto.
«Qualsiasi cosa l’abbia colpito, era enorme - continuò Angel, azzardando un passo verso il cadavere – ha la schiena spezzata… e guarda la porta»
Alzai la testa, allontanandola da quello spettacolo orripilante; l’acciaio della porta era stato piegato verso l’interno, probabilmente da un colpo infertole nel tentativo di aprirla. Ma quale uomo avrebbe potuto possedere una forza tale da sfondare una porta di quel tipo? Conoscevo già la risposta prima di formulare la domanda.
«Hyde» sussurrai raggiungendo l’entrata sfondata e invitando la mia amica a seguirmi.
La neve scricchiolò sotto i suoi piedi, mentre mi raggiungeva: «La Lega è qui? Come è possibile?»
«Credo che la vendetta sia più forte della morte» sussurrai, mentre insieme spingevamo la porta fracassata ed entravamo nel castello.
Appena fummo all’interno, una ventata d’aria calda ci raggiunse a tradimento, obbligandoci ad aprire i lunghi cappotti di visone. La brezza era densa e diaccia, carica di un odore insopportabile; polvere da sparo frammista a sostanze chimiche indubbiamente letali. Percorremmo velocemente il lungo corridoio mal illuminato che si addentrava nell’interno della fortezza, scansando i corpi delle guardie che trovavamo sul nostro cammino. Il corridoio divenne una scala a chiocciola; salimmo i gradini con un innaturale silenzio come compagno e ben presto ci ritrovammo in quello che una volta sicuramente era il salone dei balli.
«Se la Lega è qui, sicuramente sta cercando di fermare il piano di M. – sussurrò Angel, osservandomi mentre sfilavo dalle spalle il mio sacco e lo poggiavo a terra in tutta fretta – Se lo prenderanno, non lo lasceranno vivo e noi non possiamo permetterlo. Dobbiamo avere le informazioni di cui ci ha parlato, quindi… Iris, mi stai ascoltando?»
«Prendere M. vivo» riassunsi mentre poggiavo la schiena alla colonna dietro la quale eravamo nascosti e mi lasciavo scivolare a terra, fino alla posizione più comoda per poter trafficare nel mio zaino.
«Si può sapere cosa stai facendo?»
Non risposi. Tirai fuori dal sacco un revolver nove millimetri semiautomatico e glielo misi nelle mani, ritornando poi a cercare le altre armi e le munizioni.
«E questa?» chiese Angy, piegandosi accanto a me e allargando esageratamente gli occhi per lo stupore.
«E’ una pistola»
«Grazie, l’avevo capito che era una pistola; ma tu che ci fai con tutte queste armi?»
«Cosa credi che contrabbandi Boujii? Diciamo che ho solo chiesto un incentivo – le dissi, facendo scattare il cilindro, per controllare i colpi di uno degli altri due revolver che avevo tirato fuori – Li hai visti quelli là? – continuai poi, indicando con la testa le scale da cui eravamo salite - Avevano fucili automatici. Quelli sparano centoventi colpi al minuto. Non so dove li abbiano presi o chi glieli abbia costruiti…»
Una scarica di spari si accese in lontananza, e poi un’altra e un’altra ancora. Entrambe drizzammo la schiena istintivamente; dopo un ascolto attento, capimmo che venivano del piano inferiore.
Infilai le due pistole nelle fondine che avevo preparato, montate su delle cintole di cuoio e incrociate sulla schiena. Sfilai il cappotto, sotto lo sguardo stupito di Angel e m’infilai quelle specie di cinghie; erano state costruite in modo che le pistole rimanessero all’altezza delle costole, ma sul fianco della persona che doveva indossarle. Fissai il cinturino sotto il seno e presi una terza pistola carica, facendo scattare il cane ed entrare in canna il primo colpo. Un’altra scarica di proiettili si accese, più vicina.
Guardai il viso incredulo della mia amica e soffocai una risata: «Questi sono i miei poteri, miss Mayfair. Non avrà creduto che sarei venuta qui mettendomi semplicemente nelle mani di Dio?»
Angel mi sorrise, facendo scattare il suo revolver e mettendo il colpo in canna; sfilò anche lei il lungo cappotto ingombrante e si preparò per partire alla ricerca di M.: «Chi ti ha insegnato a sparare?» mi chiese poi, prima di abbandonare la colonna che avevamo usato come nascondiglio.
«…Dorian» sussurrai, stringendo più forte il calcio della mia pistola.
Angel sembrò non sentirmi, si alzò e attraversò correndo il salone nella direzione opposta da dove eravamo venute; laggiù ci aspettava un’altra scala. Sicuramente M. sarebbe stato nelle zone più alte del castello, dove erano state allestite le camere per la permanenza del padrone e dei suoi ospiti.
O per soci nei suoi loschi scopi.
Dorian…
 
“Allora, vediamo se hai imparato” disse lui, mentre mi metteva tra le mani un fucile a canna corta.
“Calcio contro la spalla destra” sussurrai eseguendo i miei stessi ordini “mano sinistra sotto la canna per sostenere il peso, mano destra sul grilletto, testa che segue la linea del mirino”
“E gli occhi?” mi chiese lui, sostando a meno di un metro da me.
“Tutti e due aperti”
“Bravissima… ora colpisci il bersaglio”
Rilassai i muscoli della schiena per poter entrare in sintonia con il colpo, irrigidii il bicipite sinistro con cui reggevo il fucile e fissai il fantoccio che era stato allestito a bersaglio. Ero pronta. Respirai profondamente, stringendo lentamente l’indice sul grilletto, ma proprio in quel momento lui mi abbracciò da dietro aderendo con tutto il suo corpo alla mia schiena e soffiando lievemente nel mio orecchio.
Premetti il grilletto e mancai il bersaglio.
“Sei terribile, è colpa tua se ho sbagliato!”
Lui rise sommessamente senza accennare a liberarmi dalla sua stretta: “Allora dovrò farmi perdonare”
Un bacio lungo, silenzioso…
Dorian…
 
«Muoviti Iris» l’imperativo comando della mia amica, mi giunse smorzato, liberandomi da quel limbo in cui mi avevano trascinato i ricordi.
Mi alzai e la seguii, abbandonando lo zaino e i due cappotti. Mentre correvo, osservai di sfuggita me stessa, riflessa nell’enorme specchio incorniciato d’oro che giaceva al centro della parete alla mia sinistra; ma io non ero l’unica figura che era riflessa su quella superficie. Un’altra forma, pressoché un’ombra stava scomparendo all’interno di una porta secondaria che portava verso il piano inferiore; mi bloccai voltandomi in quella direzione e impugnando la pistola con entrambe le mani, ma l’uomo che avevo visto – se di un uomo si era trattato – era già sparito oltre la soglia.
«Irye!» chiamò ancora, Angel.
L’ignorai, lanciando ancora uno sguardo in direzione di ciò che avevo visto; poi pensai ad M., alle informazioni che dovevamo ottenere. Un colpo violento, il rumore dello sgretolarsi della roccia sotto l’effetto di una scossa sotterranea; il castello prese a tremare. Non c’era tempo da perdere.
Corsi verso la mia amica che mi attendeva sul primo gradino; corremmo a perdifiato su per le scale fino al piano superiore. Dopo una specie di androne, le scale si dividevano portando nelle due ali del castello; con uno sguardo d’intesa ci dividemmo: io presi la sinistra, Angel la destra.
La sua voce mi risuonò nella testa.
Fai attenzione…
«Ci troviamo all’aereo – le urlai in risposta, affrontando il nuovo, ampio scalone, in cui il marmo aveva preso il posto della nuda roccia – O almeno spero…» sussurrai poi tra me e me.
La poca luce che riusciva a filtrare dalle folte nubi, si riversava sui gradini attraversando le inferriate delle minuscole finestre e creava delle pozze quadrate, dalle quali entravo ed uscivo ad una velocità impressionante. I muri bianchi dello scalone, privi di qualsiasi ornamento, un po’ m’intimorivano; e mi obbligavano ad accelerare ancora di più la scalata.
Giunsi al piano superiore, con il fiato rotto dalla corsa, e mi accostai subito alla parete, pronta a ricevere chiunque si fosse messo sulla mia strada. Attesi in silenzio per qualche istante: non c’era nessun rumore, oltre a quello lontanissimo e continuo dei fucili automatici.
Mi trovavo in un ampio corridoio dalle pareti rovinate del tempo e segnate in alcuni punti dall’umidità; il soffitto a volta, dal quale l’età aveva staccato lo splendido intonaco dorato, si estendeva per un lungo tratto, per terminare in una specie di anticamera e poi riprendere il suo corso. Percorsi il corridoio fino all’anticamera, con la pistola puntata nel vuoto. Dal soffitto a cupola, scendeva un vecchio lampadario a dodici bracci e sotto di esso giaceva un tavolino rotondo di legno scuro; alla mia sinistra, la stanza si allargava a dismisura fino a perdersi in un salone trascurato, spezzato da miriadi di colonne di pietra; alla mia destra, invece, all’interno di una piccola nicchia della parete e separata dall’anticamera da tre gradini, stava una porta di legno rinforzato con chiavistelli di ferro, dipinto di blu. La raggiunsi, appoggiando la schiena all’interno della nicchia finemente lavorata e l’aprii con un calcio.
Entrai come una furia, scendendo con un salto i tre gradini che mi dividevano dalla stanza; la pistola restava all’altezza delle spalle e le braccia erano rigide e pronte a qualsiasi attacco. Ma l’attacco non venne: la stanza era vuota. Diedi un’occhiata fugace alla splendida tappezzeria e ai quadri nelle loro lussuose cornici, poi tornai sui miei passi riprendendo il lungo corridoio nella direzione opposta a quella da cui ero arrivata. Dovevo trovare M. e dovevo farlo in fretta.
Percorrevo il corridoio quasi correndo, mentre gli spari dei fucili automatici si spegnevano in lontananza lasciando spazio al silenzio muto ed inesorabile; potevo udire solo i miei passi e il rumore flebile del mio respiro ansante. Mi fermai accanto ad una delle finestre che si aprivano sul paesaggio innevato. Avevo raggiunto le torri più alte e, a farmi compagnia, non c’era altro che il vento gelido che soffiava con forza contro i vetri. Mi feci coraggio e continuai la mia ricerca, presto il corridoio sarebbe terminato, o si sarebbe immesso in un’altra ala del castello.
Ecco, ne scorgevo già la fine.
Sulla sinistra, proprio alla fine di quel lungo passaggio, vidi una piccola porta, in tutto simile a quella che avevo sfondato pochi minuti prima. Mi avvicinai cautamente, presi un respiro profondo e ci andai contro con la spalla; stranamente, quella scivolò sui cardini come se fosse stata aperta e mi ritrovai nella stanza senza alcuno sforzo. Era una stanza bellissima, con le pareti tendenti al lilla, adornate da splendidi segni beige. Alzai di nuovo la pistola, controllando a sinistra, accanto ad uno splendido letto a baldacchino, anch’esso tendente ai toni di viola, e poi a destra.
Soffocai a stento un urlo.
Letteralmente inchiodato al muro da uno stiletto conficcato nel ventre, stava un cadavere in avanzato stato di decomposizione. Dove la pelle non si era ritirata, mostrando le ossa ingiallite del cranio, aveva assunto un colorito verdastro, decisamente innaturale; gran parte della mascella era staccata dalla scatola cranica e alcune ossa s’erano completamente sbriciolate. Ma la cosa più insolita era che i suoi vestiti erano completamente intatti. L’uomo indossava un completo gessato grigio, con minuscole righe verticali color ghiaccio; gli sbuffi della camicia di seta bianca, uscivano dal panciotto grigio-azzurro finemente ricamato. Le scarpe di vernice erano ancora lucide.
Abbassai la pistola, indietreggiando, disgustata da quella visione. Come era possibile che il cadavere fosse così martoriato e i vestiti non avessero subito alcun danno? Osservai a lungo ciò che era rimasto di quell’uomo – il completo, lo stiletto – continuando a pensare che mi ricordava qualcosa, una cosa che avevo già visto. Intenta nella mia osservazione, non mi ero accorta della cornice che giaceva ai suoi piedi, abbandonata con la tela verso il basso, come lapide di quell’uomo morto in chissà quale circostanza. La raccolsi e la voltai per poter veder il dipinto che conteneva.
Il gelo mi percorse la spina dorsale conquistando ogni muscolo; uno stimolo violento di odio, rabbia, dolore, nacque nel mio stomaco come un uragano. Mi sentii mancare mentre un urlo nasceva nella gola, un urlo che non ero più in grado di trattenere.
 
«NO!»
Angel s’immobilizzò all’istante in un corridoio che mostrava le tracce di un inseguimento accanito: cartucce di proiettili sparse sul pavimento di pietra, tappeti discostati dai loro posti e sangue, sulle pareti e sugli oggetti. Non sapeva se quell’urlo che aveva sentito aveva echeggiato davvero nelle enormi sale del castello o se la sua mente le aveva fatto un brutto scherzo, tuttavia rimase allerta, in attesa di qualche altro segno. Chiuse gli occhi e cercò di estendere il suo potere, ogni stilla del suo essere, alla ricerca di un eventuale richiamo.
Un pianto violento, una sofferenza atroce…
Qualcuno stava piangendo, aveva bisogno d’aiuto. Strinse i pugni fino a conficcarsi le unghie nella carne. Dove? Chi?
Una donna inginocchiata che piange, urla… una lacrima scende sul pavimento chiaro; è nata da degli occhi che conosce, degli occhi… azzurri.
Iris.
Angel si voltò senza esitazione e cominciò a correre verso l’androne nel quale, prima, io e lei ci eravamo divise; al diavolo M. e tutto il resto, la sua Iris era in pericolo e niente poteva essere più importante. Maledisse il momento in cui ci eravamo divise, addossandosi ogni responsabilità: se mi fosse successo qualcosa di male, non se lo sarebbe mai perdonato. Teneva la pistola vicino al petto, con le braccia piegate e pronte a distendersi. Non che quell’arma le servisse, ma gliel’avevo data io, e lei avrebbe fatto di tutto per non farmi preoccupare.
Raggiunse la sala in cui ci eravamo separate, mentre scorrevano accanto a lei i ritratti di uomini sconosciuti, indignati della sua corsa folle; imboccò la scalinata che io avevo percorso e pregò di non incontrare bivi. Si avviò per il lungo corridoio a volta, oltrepassò l’anticamera con il lampadario e il tavolino e continuò verso la stanza in cui ero.
Sapeva perfettamente dove mi trovavo, riusciva a percepire la mia presenza.
Entrò come un uragano dalla porta che avevo lasciato aperta e si fermò a contemplarmi dall’alto; le gambe mi avevano ceduto ed ero rimasta immobile a terra, con la tela nella sinistra e nell’altra la pistola.
«Stai bene, sei ferita?» mi chiese subito Angel, precipitandosi in ginocchio accanto a me.
Alzai lentamente la testa, la bocca semiaperta in un urlo silenzioso, gli occhi rossi e le guance segnate dalle lacrime: «E’… Dorian» le dissi reprimendo a forza un gemito, mentre un’altra lacrima scorreva senza controllo sul mio viso.
Angel inizialmente non capì, poi guardò la tela e lo scheletro alla parete, che entrando non aveva visto.
«Il ritratto… si è spezzato» sussurrai poi, incapace di parlare.
Il mio Dorian, il mio principe era…
«Irye, adesso calmati, ti prego» disse la mia amica, togliendomi il dipinto dalla mano in cui ancora lo stringevo. Non riuscivo più a ragionare, a pensare, anche a muovermi, e allo stesso tempo continuavo a ripetermi che non era possibile, che lui era immortale, che non poteva… morire.
Alzai la pistola senza rendermene conto e la osservai, attirata dalla sua lucentezza: «E’… morto - dissi, dimenticandomi completamente della mia amica e cercando più che altro di convincere me stessa – è morto».
Angel mi prese la pistola dalle mani, sapendo che, appena mi sarei realmente resa conto di ciò che era successo, probabilmente l’avrei usata contro me stessa. Io la guardai come un automa: non c’erano sentimenti in me, niente, tutto era sparito, affondato in un abisso sconosciuto. Probabilmente Angel era contenta che quel cadavere putrefatto fosse Dorian, era felice che la causa delle mie sofferenze fosse stata definitivamente eliminata…
«Non dire scempiaggini» mi rispose. Evidentemente mi aveva letto nel pensiero.
Allargò le braccia e mi accolse sul suo petto; il silenzio era totale, sentivo il mio cuore battere accanto al suo cuore, sentivo i nostri respiri, un orologio ticchettare nella stanza accanto, e allora, tra le braccia della persona che più mi amava al mondo, mi lasciai andare ad un pianto disperato, stringendo forte gli orli della sua camicia.
Il mio Dorian, il mio principe era morto e avrei dato tutto ciò che avevo per riportarlo indietro, anche se il male che mi aveva fatto poteva essere equivalso solo dall’amore che provavo per lui.
Un’esplosione catastrofica ruppe il silenzio che ci circondava. Il pavimento prese a tremare paurosamente, mentre l’onda d’urto di quello scoppio si propagava per tutta la fortezza frantumando vetri e soprammobili. Un’altra detonazione scosse la stanza, poi un’altra ancora.
«Forza Iris, dobbiamo andarcene» mi urlò Angel al di sopra del fracasso delle bombe.
Mi sembrava di non sentirla, nel limbo infuocato in cui ero caduta. Continuavo a guardare quel cadavere e a ripetermi che Dorian era morto; immagini sfocate di noi due ai giardini di Kensigton, al poligono di tiro, nel grande parco di caccia…
La mia amica mi alzò di pesò: «Iris… ci sta crollando tutto addosso!»
Io volevo solo che fosse ancora vivo…
«Hanno messo delle bombe nelle fornaci. Sta esplodendo tutto dall’interno!»
Avrei fatto qualsiasi cosa, per tornare indietro nel tempo…
Qualsiasi cosa…
   
 
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