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Autore: Helena Kanbara    13/09/2015    3 recensioni
[Sequel di parachute, che non è indispensabile aver letto]
[...] io ho scelto, Stiles. Ho scelto ancora. Ho scelto di seguirti quella sera di settembre alla Riserva di Beacon Hills, quando ci siamo fatti beccare da tuo padre a curiosare sulla scena di un crimine e Peter Hale ha trasformato Scott nel licantropo buono che è tutt’oggi. Ho scelto di entrare a far parte della tua vita, ho scelto di accettare la mano che mi porgevi pur senza conoscermi e ho scelto di restarti accanto fino all’ultimo. [...] Stiles, ti amo. [...] Sono innamorata di te [...]. Ho scelto fin dal primo momento – inconsapevolmente – di innamorarmi di te e questa è probabilmente l’unica cosa che non mi pentirò mai – mai – di aver fatto. [...] ti amo. Ti amo così tanto [...].
Genere: Angst, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Stiles Stilinski, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'People like us'
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Da parachute: Davo le spalle a Derek, quando gli risposi, e capii che non avrei potuto far di meglio di così.
«Lo trasformerai», spiegai, posando i gomiti sulle ginocchia scoperte e infreddolite mentre intrecciavo le dita delle mani. «Adesso ne hai il potere, no? Il tuo obbiettivo è sempre stato questo, fin dall’inizio». […]
«L’obbiettivo era vendicare mia sorella […]. Aiutare Scott [...]. E proteggere te […]. Io ti conosco, Harriet […]. La mia famiglia e la tua sono sempre state al comando di Beacon Hills. Certo, c’erano anche altri rappresentanti della società, come famiglie di cacciatori e di altri esseri soprannaturali, ma principalmente tutto il potere scorreva nelle nostre mani. Questo finché non abbiamo sfiorato il declino. Tuo padre ha lasciato la famiglia senza un erede che potesse prenderne il comando e gli Hale sono stati decimati nell’incendio di sei anni fa. Potrebbe sembrare strano, ma le nostre disgrazie ci hanno uniti ancor di più. Ecco perché quando Thomas mi ha chiesto di aiutarlo a portarti qui e riprendere potere su Beacon Hills, io ho acconsentito».
Credevo avrebbe continuato a parlare e raccontare, ma poi capii non ci fosse nient’altro da aggiungere e conclusi con l’aprirmi in un sorrisino beffardo. Cercavo inutilmente di nascondere la mia delusione.
«Alla fine è sempre quello il punto. Potere», osservai, con una nota ben evidente d’amarezza nella voce.
Ancora una volta, Derek ignorò la mia battuta […].
 
kaleidoscope
 
 
3.    Hero
 
Non avrei mai pensato di poter dire una cosa del genere, ma educazione fisica poteva essere una bella materia. Bastava semplicemente prenderla per il verso giusto, ritrovarsi un insegnante “fantasioso” tanto quanto Finstock ed evitare esercizi imbarazzanti e/o impossibili perché tutto filasse liscio come l’olio. L’avevo scoperto da quando mi ero trasferita a Beacon Hills, comprendendo con mia grande sorpresa che il problema alla base del mio odio viscerale e a momenti immotivato verso educazione fisica nascesse direttamente dai miei professori: gente che non aveva mai fatto sul serio il suo lavoro, limitandosi a costringere le classi a due o tre inutili giri di corsa prima di lunghissime partite di pallavolo alle quali dovevi partecipare obbligatoriamente se non volevi ritrovarti con un debito al secondo quadrimestre. E lo sanno tutti che io odio la pallavolo.
Finstock era diverso. Si occupava maggiormente di lacrosse, certo – perché quella era la sua grande passione – ma quando si trattava di dover fare lezione con l’intera classe, la faceva sempre nel migliore dei modi. E, non osavo dirlo ad alta voce, ma credevo di adorare le sue lezioni di educazione fisica. Erano stancanti, sì, ma anche divertenti e sempre innovative. Mai una volta avevamo fatto gli stessi esercizi, cosicché l’attenzione fosse sempre alta e di conseguenza anche la voglia di fare movimento. Mentre mi dirigevo in spogliatoio quel sabato mattina, mi chiesi proprio cosa ci avrebbe riservato quel giorno.
«Ehi, Als», mormorai all’improvviso, voltandomi alle mie spalle solo per inquadrare la figura di Allison, intenta a seguirmi in assoluto silenzio.
La sera prima non l’avevo più vista e fino a quel momento mi era sembrata piuttosto pallida e preoccupata, ma avevo scelto di non preoccuparmi anche per lei. Voltandomi a guardarla in quel momento, però, qualcosa mi disse che avevo profondamente sbagliato.
«Va tutto bene?», le domandai già all’erta, spingendo verso il basso la maniglia d’ottone dell’ingresso perché potessimo entrare anche noi nello spogliatoio femminile del liceo.
Al suono di quelle mie parole, Allison si riscosse, seguendomi all’interno mentre annuiva convulsamente.
«Sì, sì», mi rassicurò, per nulla convincente. «Sono solo un po’ pensierosa».
Prese posto di fianco ad un paio di borse color prugna ed io l’affiancai, posando le mie accanto a lei. Poi mi liberai della felpa pesante, lasciandola sull’attaccapanni. Alcune delle nostre compagne di classe erano lì in spogliatoio, ma nessuna ci prestava particolarmente attenzione: erano tutte intente a chiacchierare le une con le altre di cose come al solito frivole e non facevano niente per includere né me né Allison. Eravamo ancora “quelle nuove” e lo saremmo rimaste a lungo.
«A cosa pensi?», chiesi, prendendo posto di fianco ad Allison subito dopo aver sospirato sommessamente.
Recuperai il vecchio paio di Converse che utilizzavo per educazione fisica dalla borsa, poi mi liberai delle scarpe che indossavo e del jeans scuro. Allison nel frattempo aveva tirato fuori la tuta che avrebbe messo di lì a poco, sempre in assoluto silenzio. Quando cominciai ad infilare i miei leggins sportivi, però, decise di parlarmi.
«Ieri a casa di Isaac è successa una cosa strana», raccontò con voce strozzata, liberandosi della maglia e cambiandola velocemente col top bianco che le avevo di già visto indossare in occasioni come quella. «Ho visto una cosa strana».
Aggrottai le sopracciglia, liberandomi a mia volta della t-shirt che avevo indossato quel giorno. Quel cambiamento repentino mi fece rabbrividire per il freddo e la pelle nuda del mio ventre e delle mie braccia si riempì immediatamente di pelle d’oca, tanto che anch’io mi affrettai ad indossare il crop top fuxia che avevo scelto per quel giorno.
«Cosa hai visto?», domandai ad Allison, senza guardarla in viso perché troppo impegnata ad allacciarmi le Converse.
«Una… creatura».
Non chiedetemi perché, ma la cosa non mi stupì affatto. Oramai era una cosa “normale”, per me, che la gente vedesse creature.
«Un altro licantropo», mormorai dunque, tranquilla perché nessuno stesse ascoltando la nostra conversazione.
«No! No. Non si trattava di un licantropo», esclamò Allison mettendosi in piedi velocemente, mentre dentro di me un nuovo moto d’agitazione cominciava a crescere. «Aveva la coda».
«La...».
Provai a ripetere, ma la voce mi venne a mancare, proprio come il respiro.
«Già», assentì Allison, annuendo debolmente poco prima di stringersi le braccia al petto.
Una nuova creatura. Un essere dotato di coda. Assurdo. Sempre di più.
«Anche Scott l’ha vista?», domandai dopo qualche minuto, cercando disperatamente di recuperare la mia lucidità persa.
«Sì, era con me».
«E non ha idea di cosa possa essere?».
«No», sussurrò Allison, sciogliendo la morsa nella quale aveva tenuto strette le braccia fino a quel momento solo per raggiungermi nuovamente sulla panca. Si lasciò sedere di fianco a me mentre liberava una scomoda verità: «Siamo tutti così poco esperti…».
E la cosa, prima o poi, ci si rivolterà contro.
 
«Andiamo, voi due. Stilinski, Reyes. Alla parete».
Il “muro” – così decisi che l’avrei chiamato – era ciò che avremmo dovuto affrontare quel giorno durante l’ennesima lezione di educazione fisica in compagnia del professor Finstock. Non c’era stato bisogno che ce lo dicesse perché la cosa era a dir poco evidente: eccetto quel muro montato chissà quando, la palestra era completamente vuota e priva di attrezzi. Non c’erano step né coni né tappetini da esercizio: solo quella parete che, Finstock lo confermò solo in seguito, ci saremmo allenati a scalare.
Se non fosse stato per le funi di sicurezza alle quali avremmo potuto affidarci durante l’esercizio, avrei già dato di matto data la mia più che evidente paura dell’altezza, ma sapendo delle precauzioni che Finstock s’era assicurato di avere, non potevo far altro che aspettare con impazienza il mio turno alla parete. Allison e Scott c’erano già saliti – divertendosi un sacco come al solito – mentre allora toccava a Stiles ed Erica, una biondina che proprio non conoscevo.
Prima che Stiles potesse allontanarsi del tutto da me gli dedicai un sorriso, poi spostai gli occhi sulla piccola figura di Erica. Non credevo di aver avuto lezioni con lei prima di quel mattino, ma c’era anche da dire che una persona così silenziosa e timida sarebbe facilmente potuta passare inosservata, dunque non esclusi da principio l’idea di averla già vista. Piuttosto me ne rimasi a fissarla mentre incespicava sulle varie sporgenze della parete: sembrava così disperata che improvvisamente il cuore mi si strinse in una morsa. Perché non avanzava? Stiles aveva già compiuto il cammino due volte mentre lei aveva percorso a malapena un metro. Quando avvertii dei lamenti sommessi abbandonarle le labbra, cominciai seriamente a preoccuparmi. Ma mi bastò voltare velocemente lo sguardo attorno a me perché l’idea di attirare l’attenzione di qualcuno mi abbandonasse alla velocità della luce.
Erano tutti distratti, nessuno escluso. Intenti a chiacchierare tra di loro o a battibeccare scherzosamente come Allison e Scott. Preoccupati da inesistenti doppie punte come Lydia o lontani da tutto e tutti come lo era Jackson, che mi persi ad osservare più a lungo degli altri perché il suo stare completamente in disparte – anche se non avrei dovuto – mi preoccupò.
Quando però i lamenti di Erica si trasformarono in sonori gemiti, non potei far altro che ritornare con gli occhi su di lei, ancora ferma dove l’avevo lasciata e soprattutto scossa da tremiti incontrollabili. Per fortuna non ci fu bisogno che attirassi io l’attenzione di Finstock e degli altri perché essi stessi si mossero verso la parete quel tanto che bastava ad accerchiare Erica nel modo meno soffocante possibile. La sentivo ancora piangere sommessamente, ma non c’era nulla che potessi fare per aiutarla.
«Erica? Stai bene?», la richiamò il coach con un tono di voce parecchio titubante, muovendo un ulteriore passo nella sua direzione. «Soffri di vertigini?».
«Le vertigini sono una disfunzione all’interno dell’apparato vestibolare. Il suo è solo panico», commentò Lydia, facendosi avanti immediatamente di fronte all’intervento scorretto del nostro professore.
Certe volte i suoi modi di porsi mi facevano venir voglia di schiaffeggiarla – nonostante quanto le potessi voler bene o essere preoccupata per lei e per ciò che le stava capitando in quell’ultimo periodo – ma quello non era affatto il momento giusto perché discutessimo, perciò mi limitai a scoccarle un’occhiata infastidita alla quale lei rispose con una smorfia.
«Erica?», chiamò ancora il prof, senza perdersi d’animo.
Erica ancora tremava dall’“alto” della sua posizione, ma si sforzò comunque di balbettare uno: «S-Sto bene» per nulla convinto.
«Coach, è pericoloso. Lei soffre di epilessia», mormorò Allison allora, e quella nuova scoperta fece ritornare a galla uno dei tanti ricordi sfocati che avevo collezionato da quand’ero lì a Beacon Hills.
Conoscevo già Erica e tutte le mie sensazioni a riguardo furono confermate: avevo sentito parlare di lei e del video nel quale l’avevano inclusa senza che lei lo sapesse, riprendendola durante una delle sue crisi peggiori. I tre quarti della Beacon Hills High School aveva visto quel filmato divenuto virale e alla cosa era succeduta una vera e propria catastrofe con la quale io – per fortuna – non avevo nulla a che fare.
«Perché mai non lo sapevo? Epilessia!», sbottò il prof a denti stretti, cercando inutilmente di non farsi sentire dalla diretta interessata. «Erica, va tutto bene. Devi… devi saltare giù dalla parete. C’è un tappeto, qui per terra. Coraggio», la invogliò, riportando l’attenzione su di lei e aspettando con impazienza che Erica ubbidisse senza ulteriori problemi.
La guardai tremare qualche attimo ancora, poi socchiuse gli occhi e semplicemente si lasciò andare all’indietro, atterrando coi piedi traballanti sul materassino nero posizionato sul pavimento in parquet chiaro. Nel vederla giù dalla parete, Finstock tirò un sospiro di sollievo, aprendosi poi in un: «Non è successo niente, hai visto? Stai benissimo» al quale Erica nemmeno si sforzò di rispondere.
Semplicemente si liberò delle funi di sicurezza e poi sgusciò via dalla folla di persone strette intorno a lei ma totalmente disinteressate alla sua condizione. Non guardò nessuno in faccia anche se sentiva addosso gli occhi di tutti: semplicemente sparì, lasciandosi dietro una scia non indifferente di risatine sarcastiche per cui nessuno venne – vergognosamente – punito.
Finstock aveva mentito: Erica non stava bene, affatto. E anche se così fosse stato, sapevo che la cosa non sarebbe comunque durata a lungo.
 
«Stiles?».
Al terzo richiamo, il diretto interessato si premurò di distogliere lo sguardo dal punto indecifrabile che aveva fissato con parecchia insistenza fino a quel momento e mi rivolse un’occhiata frettolosa, ancora completamente distratto. Era perso nei suoi pensieri e si vedeva, ma ci tenevo a sapere cosa mai potesse preoccuparlo così tanto nella solita fila di bici parcheggiate davanti scuola. Ecco cosa gli chiesi mentre insieme ci dirigevamo verso l’ingresso della Beacon Hills High School, lui con la cartella grigia in spalla ed io con solo un paio di libri tra le mani.
«Isaac parcheggiava sempre lì la sua bici», mi spiegò Stiles all’improvviso, indicandomi con un dito il punto in cui aveva guardato finché non l’avevo distolto dalla sua “trance”.
Osservai più attentamente e difatti notai un posto vuoto tra i tanti occupati. Il pensiero di Isaac tornò ad angosciarmi più forte che mai ed immediatamente mi chiesi se stesse bene. Avrei tanto voluto saperlo, ma sentivo che Stiles non mi avrebbe molto facilmente dato le risposte che volevo, perciò decisi che avrei preso la cosa molto alla larga nell’attesa di vedere dove saremmo finiti.
«È assente, oggi?», domandai dunque, riportando i miei occhi scuri sul viso di Stiles.
Lui si limitò a fare spallucce, poi proseguì in direzione della porta. Camminava lentamente, rilassato: non eravamo affatto in ritardo e potevamo assolutamente prendercela comoda e chiacchierare ancora un po’.
«Sparito nel nulla, più che altro. Ieri Finstock lo cercava», raccontò con invidiabile nonchalance. «Non mi stupirei se fosse di nuovo nei guai».
Se io ero preoccupata, Stiles al contrario era del tutto spensierato. Inconsapevolmente mi ritrovai ad invidiarlo.
«Quindi non sai dov’è?», chiesi, desiderando di non aver mai parlato non appena quelle parole mi abbandonarono le labbra.
Ahia, pensai, cercando inutilmente di nascondere un’espressione eloquente. Non ero riuscita nel mio intento di nascondere la preoccupazione che provavo nei confronti di Isaac, difatti Stiles la notò e sollevò un sopracciglio con aria scettica e anche vagamente infastidita.
«Perché dovrei?», borbottò poi, distogliendo lo sguardo dal mio viso solo per cercare – con scarsi risultati – di nascondermi un broncio tenerissimo.
Quella era la mia occasione per salvarmi in calcio d’angolo e ovviamente non me la sarei lasciata scappare.
«Non so!», trillai, tradendo immensa agitazione mentre mi perdevo a gesticolare furiosamente ed arrancare dietro Stiles – che, vagamente offeso, aveva accelerato il passo e se ne fregava delle mie gambe corte. «Pensavo fosse nostro amico. In fondo l’abbiamo salvato dagli Argent».
Conclusi la mia filippica con un tono di voce lieve e – speravo – convincentemente dispiaciuto. Quando Stiles arrestò il passo, credetti sul serio di essere riuscita nell’intento, ma la sua espressione tesa mi liberò subito di quella speranza vana.
«Appunto, la nostra parte l’abbiamo fatta. Non è più un problema nostro», furono le uniche parole che mi rivolse, serissimo in volto.
Inutile dire che mi infastidirono e non poco. Non era più un problema nostro? Da quando in qua agivamo solo per fini personali?
«Quindi è un problema di Derek, adesso? Credi davvero che se ne occuperà?», non potei fare a meno di domandargli, muovendo passi nella sua direzione quanti ne bastavano a fronteggiarlo al meglio. «Per quel che ne sappiamo l’ha trasformato per puro divertimento!».
Stiles, ancora tranquillissimo, si limitò a scrollare le spalle. Poi infossò le mani nelle tasche dei pantaloni chiari e disse: «Non lo so e non mi interessa. È superfluo preoccuparsi di cose che non ci riguardano minimamente. Dobbiamo pensare di più a noi stessi. È giusto così».
Avrei voluto con tutta me stessa urlargli contro. Tuttavia qualcosa nelle sue parole mi spinse a considerare l’idea che non stesse dicendo delle complete assurdità come i fiumi della rabbia crescente volevano farmi credere a tutti i costi. Certo, non ero completamente d’accordo con lui e con l’idea di ignorare completamente i nostri compagni – be’, definire Isaac un amico sarebbe stato esagerato e fin qui c’arrivavo anche da sola – ma concordavo con lui sul fatto che avremmo dovuto un po’ di più pensare a noi stessi. Quanto tempo era che non lo facevo?
«Forse hai ragione», ammisi perciò a bassa voce, chinando il capo mentre mi lasciavo sfuggire delle scuse vagamente dispiaciute. «Volevo solo sapere come stava Isaac».
Ma adesso ho deposto l’ascia da guerra, pensai, nascondendo con scarsi risultati un sorrisino divertito. Non volevo discutere con Stiles per delle sciocchezze come quella, ma scoprii ahimè che lui non fosse dello stesso avviso. Difatti, qualsiasi mio tentativo di “tregua” andò bellamente a farsi benedire nel momento in cui lo vidi voltarmi le spalle proprio come se non ci fossi e riavviarsi verso scuola a passo spedito, tutto intento a sbuffare sonoramente e borbottare tra sé e sé. Ovviamente non ci vidi più dalla rabbia e mi affrettai a raggiungerlo, afferrandogli un braccio non appena mi fu possibile di modo che potessimo affrontarci faccia a faccia.
«Si può sapere cosa diavolo hai?», gli urlai in pieno viso, attirando sulla mia figura parecchie paia di sguardi.
Non diedi attenzione a nessuno, però, mentre Stiles si limitò a guardarsi intorno finché i soliti ficcanaso di turno non si furono quasi tutti dileguati. Alla fine si liberò della mia presa sul suo braccio con uno strattone e rispose alla mia domanda, parlando chissà perché a bassa voce. Mi sarei aspettata che mi rispondesse per le rime e invece quella volta mi sembrò lui quello tra i due alla ricerca di tregua.
«Nulla!», parlò tra i denti, facendosi così vicino a me che potei osservare bene ogni particolare del suo viso. «Solo che mi infastidisce vederti preoccupata per persone che non lo meritano affatto. Pensi sempre a tutti e ti metti all’ultimo posto, hai i nervi a fior di pelle e sembri nell’attesa costante di una catastrofe dalla quale non uscirai viva. Io vorrei solo che tu fossi tranquilla. Non dico felice, perché con tutto quello che dobbiamo affrontare ogni giorno la vedo un po’ dura, ma almeno spensierata. Perché te lo meriti, e mi dispiace non riuscire a fare nulla per aiutarti».
Di fronte a quella dichiarazione non potei far altro che restarmene in completo silenzio a fissare Stiles con le labbra dischiuse e un’espressione stralunata. C’erano un sacco di cose che avrei voluto e dovuto dire, ma come al solito in quei casi qualcosa mi bloccò e non mi permise di dare libero sfogo alle mie emozioni. Perciò mi limitai semplicemente a sussurrare il nome di Stiles, allungando velocemente una mano nella sua direzione quando lo vidi indietreggiare all’improvviso.
«Lascia perdere», m’interruppe, evitando che mi avvicinassi ulteriormente a lui. «Scusami, devo andare a lezione. Ci vediamo dopo».
Era sparito dalla mia vista prima ancora che me ne rendessi sul serio conto.
 
Entrai in caffetteria con lo sguardo basso, sperando invano che l’usuale folla di persone intente a riempirla durante l’ora di pranzo potesse coprire il mio ingresso e renderlo inosservato. Da ormai ore vivevo in quella condizione: glissavo i saluti di chiunque potesse volermi parlare, evitavo gli sguardi di tutti e preferivo non cercare la presenza di nessuno. La felice idea di comportarmi in quel modo non era venuta a me, ma a Stiles – che aveva finto che non esistessi fino a quel momento; io avevo semplicemente deciso di assecondarlo.
Ecco perché quando osservai la caffetteria praticamente deserta non potei far altro che imprecare, allungando inutilmente il passo verso la mensa. Magari correndo avrei potuto afferrare qualcosa da mangiare al volo e poi sgattaiolare via ancora, senza dovermi invece fermare a tavola con Stiles e Scott – come da abitudine – rendendo il tutto molto ma molto imbarazzante. Purtroppo però le mie speranze erano vane, com’era chiaro che fosse. In una stanza desolata la mia figura frettolosa attirò infatti tutta l’attenzione di Scott, che presto chiamò il mio nome a gran voce mentre si sbracciava affinché lo vedessi.
Scoprire che fosse solo al tavolo mi lasciò stupita: Stiles aveva avuto la mia stessa idea, per caso? Aveva saltato il pranzo solo per non dovermi vedere? E poi perché diavolo era così arrabbiato con me? Preoccupato okay, lo accettavo e capivo. Ma offeso a quella maniera?
Quando presi posto di fianco a Scott non avevo trovato risposta nemmeno alla metà di quelle domande, anzi: nella mia mente se ne creavano sempre di nuove, facendo sì che fossi silenziosa e distratta tanto da non aver toccato il mio cibo nemmeno un po’.
«Cos’hai?», sbottò Scott allora, riscuotendomi dalla fitta rete di pensieri capace di rendermi quasi apatica.
Quasi sobbalzai al suono della sua voce, ma nulla in confronto a cosa sentii nell’individuare Stiles seduto a pochi tavoli dal nostro. La tranquillità che avevo provato nel vedere Scott solo svanì nel giro di un attimo: mi bastò realizzare che Stiles fosse lì in caffetteria e capire poi che avesse cambiato tavolo per me. Sapevo di non averne motivo, ma mi sentii comunque in colpa.
«Non è nulla», cercai però di rassicurare Scott prima che mi trovasse intenta a bruciare con lo sguardo la schiena di Stiles, focalizzandomi al contrario sul pranzo ancora intatto.
Ma la mia bugia non convinse affatto Scott, che si risolse a sbuffare sonoramente.
«Sprizzi tensione da tutti i pori», spiegò poi, parlando con le sopracciglia sollevate. «E non offenderti, ma è fastidioso».
Sospirai sconfitta. A volte quasi dimenticavo dei suoi superpoteri.
«Ho… discusso con Stiles», ammisi a malincuore.
Sapevo benissimo che Scott non mi avrebbe mai permesso di evitare l’argomento.
«Riguardo a cosa?».
Scrollai le spalle.
«È semplicemente preoccupato per me».
Intenta a giocare distrattamente col mio cibo, sentii a malapena Scott mugugnare qualcosa d’indefinito. Mentre aspettavo che riprendesse a parlare non potei fare a meno di riportare gli occhi sulla schiena di Stiles, sperando che Scott non avrebbe notato la cosa. Potevo senza problemi ammettere a me stessa di odiare quella nostra situazione da “separati in casa” e anche dirmi tranquillamente quanto Stiles mi mancasse – nonostante tutto – ma lasciare che anche Scott capisse mi avrebbe semplicemente fatta morire dall’imbarazzo. Ecco perché non appena lo sentii riprendere a parlare, subito portai i miei occhi nei suoi.
«Quindi è per questo che vuole a tutti i costi distrarsi e divertirsi?», domandò, confuso proprio come lo diventai io immediatamente.
Aggrottai le sopracciglia, non riuscendo proprio a capire cosa stesse dicendo.
«Mi dispiace, Scott, non ti seguo», mormorai infatti, aspettando poi che mi desse spiegazioni.
«Stiles vuole che andiamo a pattinare, stasera. Dice che ha bisogno assoluto di divertirsi. Ecco perché è lì a contrattare con Boyd da interi minuti», Scott indicò il tavolo che occupava Stiles e in seguito, il ragazzo di colore che gli sedeva di fronte, «Non ti ha detto nulla?».
Deglutii. Non mi aveva rivolto la parola, come avrei potuto saperlo? Scott però non era a conoscenza di quel particolare ed io decisi di continuare a tenerlo all’oscuro della cosa.
«No, non ne ero… non ne ero al corrente», balbettai, cercando però subito di ritrovare un contegno. «E comunque non mi sembra una cattiva idea. Non ti va di andare?».
Scott si limitò a scuotere la testa, distogliendo lo sguardo dal mio viso poco prima di partire alla ricerca di parole adatte da dire. Io mi limitai ad aspettare, ascoltando il suo silenzio capace di mille parole.
«No, penso che mi piacerebbe… ma non so se riuscirei a divertirmi. Con tutto quello che succede ultimamente…», tentò di spiegare poi, rendendo più chiaro ciò che di già sospettavo.
Capivo benissimo come si sentisse, ecco perché decisi di non rigirare ulteriormente il coltello nella piaga e misi su un sorriso, convinta a sviare l’argomento “mille preoccupazioni del momento”.
«Puoi sempre provarci, no?», domandai, e allora Scott provò a ricambiare il mio sorriso sincero.
«Anche tu», aggiunse, lasciandomi senza parole.
Sapevo che avesse ragione, ma sapevo anche che non avrei avuto la possibilità di seguire i suoi consigli: non quella volta. Non sapevo come spiegargli una cosa del genere, ecco perché mi limitai a boccheggiare finché la figura di Stiles non fu a due passi da me e finii con l’immobilizzarmi del tutto. In un’altra occasione avrei visto il suo arrivo come una vera e propria salvezza, in quel momento invece me ne rimasi a fissarlo in viso come la perfetta stupida che ero mentre lui faceva altrettanto senza proferire parola.
Mi chiesi a lungo chi avrebbe posto fine a quel momento di stallo e trovai la mia risposta in Erica, o perlomeno in ciò che ne era rimasto di lei: della ragazzina timida e spaurita dell’ora di educazione fisica, quella che soffriva di epilessia e attacchi di panico, quella che andava in giro senza un filo di trucco e indossando abiti trasandati. La ragazza che fece il suo ingresso in caffetteria indossando un completo di pelle e vertiginosi tacchi a spillo, quella che si mosse ancheggiando e rifilando sorrisetti maliziosi a chiunque, non aveva niente della ragazza che avevo conosciuto appena il giorno prima.
Eppure la riconoscemmo tutti comunque, rimanendo fermi a fissarla finché lei non se ne ritornò da dov’era venuta portando con sé gli sguardi persi di tutti. Ero ancora imbambolata e confusa quando Stiles e Scott decisero di seguirla verso chissà dove, ma i loro movimenti repentini mi risvegliarono presto dalla trance in cui ero caduta e perciò mi alzai in piedi anch’io per seguirli.
Erica si mosse con estrema nonchalance fino all’entrata di scuola – sapeva di averci alle calcagna, ma quello non sembrava essere un problema per lei: sembrava al contrario che volesse essere seguita. Capii il perché quando si diresse verso una Camaro nera che ormai conoscevo fin troppo bene, prendendo posto di fianco a nientemeno che Derek Hale. Prima che andassero via, Derek ci sorrise, imitando Erica.
Era felice: al suo esercito si era infatti aggiunto l’ennesimo soldatino.
 
Avevo corso come non mai, tanto da sentirmi l’acido lattico nei polpacci e il cuore in gola. Ma non me ne curavo, anzi. Ero felice che quel dannato si agitasse tanto nella mia cassa toracica, facendo rimbombare dei battiti forsennati contro il silenzio spettrale della Riserva di Beacon Hills. C’ero tornata perché dovevo. Ormai tutto era collegato, ogni azione mi portava lì. Qualsiasi cosa andava ricongiunta a Derek.
Non sapevo cosa gli fosse preso esattamente – perché all’improvviso stesse cambiando così tanto – ma ero certa di avercela con lui a morte. Non poteva semplicemente andarsene in giro a trasformare degli adolescenti in licantropi, come se poi fosse nulla e anzi, come se stesse facendo loro nient’altro che un regalo. Certo, la super-velocità e tutte le altre cose belle della licantropia – dubitavo che poi fossero così tante – potevano avere una certa attrattiva, ma l’altro piatto della bilancia era così colmo di cose brutte e pericoli che continuavo a chiedermi senza sosta perché mai Erica ed Isaac avessero accettato il morso senza farselo ripetere due volte. E non trovavo risposta sensata.
Scott mi aveva detto che Derek non si sarebbe fermato tanto presto, che perché il suo branco fosse completo gli sarebbe servito almeno un altro beta, ma io avevo preferito non credergli. Mi ero finta sorda di fronte alle sue preoccupazioni, sentendomi una stupida ingenua nel momento in cui Stiles ci aveva fatto capire la verità: Boyd quel giorno era assente, Derek l’aveva trasformato. Finalmente il suo branco era degno di essere considerato tale. Ma io ancora stentavo ad accettarlo. Volevo che me lo dicesse lui, Derek, guardandomi negli occhi. Volevo che confessasse, che ammettesse la verità, che mi desse la conferma di quanto già da tempo sospettavo. Mi aveva detto solo un mucchio di cazzate per tenermi buona. E io gli avevo creduto. Ma era giunta l’ora di smontare quel teatrino, finalmente. Avrei affrontato Derek e risolto tutto. Ecco perché ero corsa a casa Hale, fingendo invece che me ne sarei rimasta al sicuro in casa dello sceriffo come mi aveva ordinato di fare Stiles. Ma non potevo starmene con le mani in mano – non più – non mentre sia lui che Scott si rendevano utili per Boyd, buttandosi alla ricerca di quest’ultimo. Dovevo contribuire anch’io, dovevo parlare col diretto responsabile. Derek.
Quel nome mi fece sussultare, ma non quanto ciò che mi ritrovai di fronte. O meglio, chi mi ritrovai di fronte. Jackson Whittemore se ne stava fermo immobile di fronte alla porta d’ingresso dell’ormai distrutta casa Hale, alla ricerca di risposte che già sapevo nessuno gli avrebbe dato. Dovetti strizzare gli occhi più di una volta per convincermi del fatto che lui fosse sul serio lì, a pochissimi passi da me, dove meno mi sarei aspettata di poterlo trovare. Poi la verità mi colpì con violenza ed io scappai letteralmente a nascondermi dietro un grosso albero nel momento stesso in cui la porta di legno bruciato si aprì di fronte a Jackson, rivelando nient’altro che le figure minacciose di due uomini armati.
Cacciatori, realizzai immediatamente, ancor prima di vedere anche Chris Argent in quella casa, col suo solito sorriso minaccioso in volto. Le mie paure divennero tutte immediatamente realtà e allora non potei far altro che scappare, come al solito, mentre tentavo di ricacciare indietro un urlo di terrore e non cadere nel bel mezzo di una foresta che nonostante tutto ancora conoscevo poco. Corsi ancora una volta, senza meta almeno finché non realizzai di dover raggiungere Scott alla pista di pattinaggio dove sapevamo tutti lavorasse Boyd. Avevo bisogno di qualcuno, di una presenza amica, e sapevo bene che in quel momento fosse McCall l’unico su cui potessi contare sul serio. Stiles era a casa di Boyd, solo, ed io non avevo idea di dove fosse. Ma sapevo dov’era la pista di pattinaggio di Beacon Hills e mi ci diressi come se all’improvviso ne dipendesse della mia stessa vita, sempre più convinta del fatto che fossi nient’altro che una ragazzina debole che aveva bisogno di continuo aiuto e compagnia. Ciò che mi ritrovai di fronte sulla pista di ghiaccio non fece altro che confermare tutte le mie supposizioni.
«Ma non capite? Non lo sta facendo per voi! Sta solo aumentando il suo potere: lo fa per lui. Vi fa credere di darvi un dono e invece vi ha trasformati in un branco di cani da guardia!».
Riconobbi la voce di Scott ancor prima di poterlo vedere coi miei stessi occhi. La sentii rimbombare tra le pesanti pareti della struttura vuota, come se fosse nient’altro che un ringhio feroce, distorta com’era dalla licantropia. Scott era trasformato e stava combattendo, tentando di far capire ad Erica e Isaac una verità che loro non erano ancora in grado di accettare. Sussultai nel vederli che si rimettevano in piedi a fatica mentre Derek – che mi dava le spalle – osservava il tutto come se nulla fosse, le gambe lievemente divaricate sul ghiaccio della pista e le mani comodamente sistemate nella tasche della giacca in pelle nera. Avrei voluto urlargli contro in quel momento. Dirgli che aveva rovinato la vita di tre ragazzini per sempre, che era un codardo e un egoista, che mi aveva mentito e ferita, ma non lo feci. Me ne rimasi in silenzio, con gli occhi pieni di lacrime, ad aspettare una replica da parte di Derek che sapevo sarebbe arrivata.
«È vero», lo sentii dire infatti, e quelle due parole mi colpirono subito dritte al cuore, mozzandomi il respiro.
Era vero. L’aveva ammesso.
Ma la stoccata finale doveva ancora arrivare.
«Si tratta sempre di potere».
Il freddo della pista da ghiaccio all’improvviso era niente in confronto a quello che mi agguantò il cuore in una morsa.
 
 
 
 
So let me go,
I don’t wanna be your hero.
 
 
 
 
Ringraziamenti
A chiunque mi abbia fatto conoscere Hero perché (almeno questo me lo ricordo bene *sob*) è successo proprio quando ne avevo più bisogno, ovvero durante la stesura di questo capitolo pieno di angst per i miei amatissimi Derriet. Cioè, è perfetta.
 
Note                                                   
Siccome mi sono dimenticata di dirvelo nei capitoli precedenti (e quando mai?) ne approfitto per lasciarvi qui il link all’ultima shot che ho scritto, sempre collegata a questa serie ma un po’ più avanti col timeline. Precisamente, è ambientata alla 4x02 e vi consiglio di leggerla se volete avere una minima idea di come saranno diventati Harriet&co. a quel punto (in maniera molto ipotetica, vi avviso, perché non è detto che le cose andranno sul serio così). Ma comunque c’è baby!Derek, come potete resistere? Il titolo è
Back. But different. Spero vi piaccia.
Penso si sarà capito bene, da questo capitolo soprattutto, quanto io tenga al rapporto tra Harriet e Derek. Il loro è un legame un po’ strano: Derek c’è stato fin dall’inizio per lei, seppur sempre a modo suo, e alla fine si sono affezionati l’uno all’altra. Harriet soprattutto, per quanto odi ammetterlo, si è legata a Derek e ha imparato dopo tanti sforzi a fidarsi di lui, soprattutto dopo la chiacchierata da mare di feelings che potete trovare nel
capitolo 19 di parachute. Tuttavia questo Derek è completamente diverso da quello che Harriet credeva di aver conosciuto: è un alpha assetato di potere - l’unica cosa alla quale le aveva detto di non essere assolutamente interessato - e per lei questa delusione sarà davvero difficile da accettare, dato che (da come avrete potuto facilmente capire) si sente tradita da quello che, parafrasando la canzone meravigliosa, aveva cominciato a considerare un po’ come il suo eroe.

PS
kaleidoscope avrà in tutto, compreso l'epilogo, dodici capitoli. Ed io ne ho già scritti dieci, yay me! Ciò significa che gli aggiornamenti avverranno regolarmente ogni domenica e che se tutto continua ad andare così meravigliosamente bene, comincerò ben presto a lavorare al sequel. Sono fin troppo eccitata.
   
 
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