Capitolo
2 - L’articolo
Ndr
14/09/15 Si
conferma la tradizione che vuole il secondo
capitolo come molto più difficile da elaborare rispetto al
primo; la stesura ha
richiesto infatti il doppio del tempo. Potrete notare la presenza di
note a piè
di pagina; mi sono chiesto se chiunque leggesse fosse a conoscenza
degli
equivalenti giapponesi dei nomi dei personaggi principali. Dal momento
che mi
ispiro al manga, ho usato gli originali. Se qualcuno dovesse avere
delle
difficoltà, non esiti a scrivermi. Buona lettura.
***
Se Ohki[1] san non fosse
stato un uomo solitario, egoista ed assolutamente anaffettivo,
probabilmente
avrebbe trovato sul suo cammino almeno un amico pronto a metterlo in
guardia dalla
inevitabile bancarotta che lo avrebbe atteso, qualora avesse investito
tutti i
suoi risparmi nella costruzione di una ennesima palestra di karate
proprio a
Tokyo.
Nessuno però
si era
dato pena di preoccuparsi per lui, così l’incubo
del dissesto finanziario si
era rapidamente trasformato in realtà e le ingiunzioni di
pagamento bancarie erano
divenute la costante di ogni fine mese. Nonostante fosse avvilito,
ricordava di
aver desiderato ardentemente la realizzazione di quel sogno che
inseguiva dagli
anni della gioventù e a cui aveva dovuto rinunciare quando
era nato Tsuyoshi.
Ma il destino gli si era opposto, e lungo il tunnel della disperazione
nel
quale era precipitato, era giunto al punto di non distinguere
più la luce, sebbene
tentasse di ingannarsi mentendo a sé stesso e ricorrendo a
dosi sempre maggiori
di alcol.
Nonostante i suoi
difetti lo avessero reso inavvicinabile come persona e inaffidabile
quasi sotto
ogni punto di vista, per una sorta di strano paradosso, non dimenticava
mai di
versare puntualmente ogni mese la quota di alimenti che spettava alla
sua
ex-moglie e ai figli.
Tuttavia, se la
fortuna avesse continuato a voltargli le spalle, presto avrebbe dovuto
venir
meno anche a quell’ultimo, sacro dovere.
Era questa grave
preoccupazione che più di ogni altra lo affliggeva mentre si
apprestava a
chiudere il locale vuoto e dall’aspetto tetro.
Come unico lusso
della giornata, si concesse l’acquisto di un quotidiano
serale dall’unico edicolante
aperto a quell’ora; poi andò alla stazione giusto
in tempo per il treno delle
21.
Seduto
all’interno
del vagone, ripensò ai propri fallimenti, al rapporto
difficile con il figlio
maggiore e a quello perduto con la moglie; realizzò subito
quanto inutile fosse
sperare di contare sul loro aiuto. D’altronde, aveva ben poco
di cui
meravigliarsi, considerata la sua inspiegabile fuga di qualche anno
prima, seguita
da un divorzio complicato e dall’abbandono ingiustificato dei
propri bambini.
Con il senno di
poi, il pentimento per quelle scelte irrazionali era diventato
insopportabile.
La voce robotica,
che annunciava la fermata ovest di Shinjuku, lo destò dai propri
pensieri. Scese dal
mezzo pubblico, attraversò a piedi il quartiere e finalmente
fu a casa. Nell’avvicinarsi
all’ingresso, notò subito, inchiodato al centro
della porta, un fascicolo
bianco la cui dicitura principale “Final Notice”[2],
lasciava poco spazio a fraintendimenti. Con mano tremante,
strappò i fogli e si
precipitò in casa chiudendo violentemente il portone alle
spalle. La vergogna e
l’umiliazione al pensiero che chiunque fosse passato di
lì sapesse delle sue
disgrazie, lo fecero star male. Prese la bottiglia che gli aveva tenuto
compagnia la sera precedente, dal frigorifero; sedette sfinito sul
divano e
cominciò a bere voluttuosamente.
L’annebbiamento
che
gli diede l’alcol fu immediato e questo lo calmò,
ma non poté risparmiarsi di
piangere quando posò lo sguardo stanco sul ritratto della
famiglia che da
qualche mese teneva esposto sul comodino.
Il sonno si
impadronì improvvisamente di lui; scivolò
lentamente dal sofà e cadde a terra
con un tonfo sordo. Si rese conto di non avere altre speranze e di
essere un uomo
finito; l’ultimo suo gesto cosciente fu scrutare uno degli
articoli presenti sul
giornale che aveva acquistato poco prima. Il suo cervello
registrò una
informazione importante, ma il corpo non ebbe la forza di reagire;
chiuse gli
occhi e si abbandonò.
Sebbene due anni di
permanenza a Los Angeles lo avessero reso più british
nel modo di vestire, Akito Hayama non aveva smarrito quella
sua aria da ragazzo di strada che lo rendeva poco caro ai vicini. Per
giunta,
la fama di essere stato un adolescente problematico ed incline alla
violenza,
continuava a inseguirlo e a precederlo in qualunque cosa facesse.
La natura irruente
e risoluta del suo carattere però, rappresentava una
barriera impermeabile a
qualsiasi pregiudizio, così non si curava
dell’opinione altrui. E tutto
sommato, tolte quelle inezie, le cose procedevano nel migliore dei modi
sin dal
giorno del suo rientro, avvenuto 6 mesi prima.
La vita aveva
ripreso a scorrere inaspettatamente come se nulla fosse cambiato, una
cosa che
aveva meravigliato persino lui stesso.
Sollevato
dall’aver
ritrovato Sana, Hayama aveva dimostrato a tutti di essere molto
cambiato in
fatto di scelte, a partire da quella del liceo, che era stata felice, e
assolutamente non dettata dal caso.
Il suo interesse
per la fisioterapia e l’agopuntura andava di pari passo con
la passione per lo
sport della sua vita; di conseguenza, seguire le lezioni non
rappresentava più,
come in passato, una tortura alla quale adattarsi malvolentieri,
bensì un
piacere da approfondire anche dopo l’orario.
Con l’arrivo
delle
vacanze estive e la fine degli esami però, aveva deciso di
riprendere anche gli
allenamenti che Gonshiro aveva stabilito per lui quando era in America.
Della sua
permanenza a L.A. aveva parlato molto poco, e fortunatamente tutti
avevano
associato la cosa esclusivamente ai tratti schivi e ben noti del suo
carattere
introverso. Ben presto, avevano smesso di fare domande.
Nel complesso,
Akito era convinto di aver avuto un’ottima idea a tacere,
soprattutto con Sana;
parlare le avrebbe soltanto procurato inutili ansie e messo in testa
strane
idee, il che avrebbe provocato un fiume di fastidiose domande, le quali
sarebbero a loro volta degenerate in litigi.
Messa così,
la
faccenda lo rendeva insolitamente fiero di sé stesso e lo
convinceva di essere diventato
un uomo maturo e coscienzioso.
Ma i sensi di colpa
per aver abbandonato Reiko non avrebbero ceduto facilmente il passo a
un autocompiacimento
personale che di maturo aveva ben poco, e di tanto in tanto lo
tormentavano.
Quel giorno in
particolare, decise di metterli a tacere proprio andando ad allenarsi;
così
cominciò l’usuale maratona della città.
Mentre correva, gli
venne in mente l’invito a cena che Sana aveva diramato a
tutti gli amici più
intimi per quella sera stessa; per festeggiare l’inizio delle
vacanze in modo
gioioso, gli aveva confessato con aria sognante la settimana prima.
Le labbra gli si
incurvarono in quello che aveva la pretesa di essere un sorriso, ma che
agli
occhi altrui era sempre risultata come una smorfia appena accennata :
“Che
tipa, non cambierà mai”.
Seguitando a
correre però, altri pensieri presero ad affollargli la
testa; l’istinto lo
spinse a guardare il proprio braccio destro.
Convivere per due
anni con quell’arto paralizzato sarebbe stata una tortura
severa per qualsiasi
stoico, figurarsi per un tipo come lui.
Ricordava i primi,
terribili mesi della sua esperienza nella città degli angeli
come il periodo
più buio della propria esistenza : Ferito, isolato, distante
dagli amici e soprattutto
da Sana, cui lo mantenevano legato solo il debole filo della speranza
di un ritorno
a casa e un numero a cui telefonare ad orari improbabili; sulle prime,
aveva
pensato di essere spacciato. Poi Gonshiro e Reiko erano entrati a far
parte
della sua vita, e grazie a loro aveva scoperto un mondo nuovo da cui
attingere
motivazioni fino ad allora sconosciute.
L’incontro con
padre
e figlia era avvenuto circa 7 mesi dopo il suo arrivo in terra
straniera,
mentre era ancora impegnato nella fisioterapia di recupero a seguito
dell’intervento
alla mano.
Aveva sentito
parlare della famiglia Matsuda da un compagno appassionato come lui di
karate,
durante le lezioni di inglese alla scuola serale. Incuriosito, si era recato alla loro
palestra dopo aver
ottenuto il benestare del medico curante. Certo, avrebbe potuto evitare
di
lasciarsi convincere a disputare un incontro regolamentare seduta
stante, ma
quella proposta così diretta e risolutiva gli era piaciuta e
aveva accettato
prima ancora di rendersene davvero conto.
Credeva che il
padre di Reiko non lo avrebbe allenato dopo la sconfitta, invece questa
previsione venne smentita dai fatti, e il percorso che avevano
intrapreso
insieme da quel giorno era stato avvincente. Akito aveva imparato di
più sul
karate in un anno che non in tutta la sua esperienza precedente,
sperimentando
tecniche tanto innovative quanto ardue. Insieme lui, Gonshiro e
Reiko avevano
elaborato un rivoluzionario stile di combattimento che avrebbe potuto
cambiare per sempre
l’interpretazione ufficiale della disciplina. Nei loro
progetti per l’immediato
futuro, avrebbero dovuto esportare all’estero i loro metodi
inediti in una
serie di competizioni ufficiali per cui la famiglia Matsuda si era
già
aggiudicata la partecipazione. L’ambizione che aveva provato
durante quei
giorni meravigliosi fatti di allenamenti estenuanti e scontri
avvincenti, lo
aveva quasi portato a dimenticare tutto quanto lo legasse al Giappone,
a
dimostrazione di quanto la distanza e il tempo possano logorare anche
il più
inossidabile dei legami. Tuttavia, non aveva potuto dimenticare Sana.
Quando era tornato,
ritrovarla era stata la cosa più naturale del mondo, per
lui, ma non avrebbe
mai dimenticato l’espressione ferita di Reiko e quella
tristemente comprensiva
del padre, nel momento in cui aveva comunicato loro la sua partenza.
Gonshiro,
dall’alto
della sua età ed esperienza, pur se triste per la perdita
dell’allievo, aveva
annuito e compreso. Reiko, no.
Testarda, ribelle,
forte, determinata, aveva tentato di dissuaderlo
dall’abbandonarli e di portare
avanti il progetto che stavano costruendo, ma Akito era stato
irremovibile.
Quello che era accaduto, in seguito, era un segreto che avrebbe
custodito
gelosamente.
Pensava ancora a Reiko,
quella stessa ragazzina che lo aveva disprezzato una volta deciso di
lasciarli
e che insieme era stata la persona a dargli più filo da
torcere all’inizio
della sua esperienza alla palestra Wilmington.
Nei primi tempi,
sembrava proprio che lo odiasse; ma in seguito il legame che aveva
sviluppato
con lei si era rivelato forte al punto di sorprenderlo.
Senza rendersene
conto, aveva corso più a lungo di quanto fosse abituato a
fare da un pezzo, per
cui si ritrovò senza fiato all’altezza del
quartiere ovest di Shinjuku. Si appoggiò
ad una panchina e prese ad asciugarsi la fronte dal sudore.
Dall’altra parte
della strada non poté fare a meno di notare la facciata
lugubre della palestra
che lui sapeva essere gestita dal padre di Tsuyoshi, in quel momento
chiusa al
pubblico.
Da qualche tempo si
era ritrovato a paragonare i luoghi ginnici in cui si imbatteva con la
struttura
moderna ed efficiente dei Matsuda a Los Angeles, e anche questa volta
non poté
evitare il confronto.
Nel constatare le
ovvie differenze di qualità e stile, uno sguardo sprezzante
gli si dipinse sul
volto. Si girò sui tacchi, e prese nuovamente a correre
diretto verso casa;
doveva sbrigarsi, o avrebbe perso la cena, con la prevedibile
conseguenza che
Sana gli avrebbe dato il tormento.
***
[1]
Cognome giapponese del padre di Tsuyoshi, ovvero Terence
nell’edizione italiana
[2]
Ingiunzione di pagamento finale, sfratto