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Autore: Overlook    17/09/2015    5 recensioni
Dragon Ball Z
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Il Principe dei Saiyan ha fatto ritorno alla Capsule Corp., a seguito della sconfitta di Cell da parte di Son Gohan.
Tre momenti, del tutto casuali, incerti, vacillanti. Sospesi sul filo del rasoio dall'inizio alla fine.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Bulma, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Stubborn'
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"Shades" ed i suoi 3 (tre) capitoli di Overlook è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.

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Il primo capitolo di "Shades", di Overlook è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.


shades Un mio personale e umilissimo tributo a Lilly81, pensando alla sua sempre emozionante trilogia dedicata al principio, alla passione ed all'orgoglio.







Shades
di Overlook, 2015©

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Capitolo I- Mikado




Aveva imparato a non avvicinarvisi, a non carezzarne le forme se non con tutti i vestiti addosso. L'urticante sensazione gli faceva affiorare in superficie i pori della pelle di tutto il corpo, la rada peluria si drizzava elettrizzata, in particolar modo sulle braccia possenti. Più volte, tempo prima, aveva ceduto alle sue lusinghe, immersi entrambi nell'ombra della notte più profonda, lui la puntava con l'intenzione sin dal brusco risveglio tra le mura della sua stanza. Lei lo attendeva ben salda, piantata come una quercia sempre nel medesimo punto, con lo sguardo rivolto all'ampia vetrata del soggiorno e la flessuosa schiena in un tutt'uno con il buio. Trascorrevano le ore, così, sino a che i primi timidissimi raggi dell'astro nascente spuntavano coraggiosi oltre la linea dell'orizzonte, macchiando disordinatamente la coltre nera di ombreggiature aranciate. Era capitato, saggiata l'arsura estiva, che il principe dei Saiyan le andasse incontro a torso nudo, spesso madido, speranzoso di trarre comunque lo stesso giovamento da quell'unione. Invece aveva dovuto immediatamente prendere coscienza che quei bracci, quella schiena morbida e ben diritta, non erano affatto confortevoli, tantomeno in perfetto accordo con le sue membra. Non era solo per il caldo, ma per l'orribile reazione cutanea di rimando, a cui lui non aveva mai assistito e che nemmeno aveva mai pensato potesse esistere.
Vegeta detestava, detestava davvero, il contatto a pelle nuda con quella poltrona in velluto che tempo addietro gli aveva fatto da trono solitario in quella casa, nelle notti più fonde, in completa solitudine.
Vi giaceva ora pesante, scomposto, svuotato d'ogni segno di vitalità. Assorto, dilaniato, asciutto e sfinito, come avesse appena concluso uno di quegli inumani allenamenti in vista dell'arrivo dei cyborgs, oramai solo brutto ricordo.
Su quella poltrona era stato installato un marchingegno che poco e niente aveva a che vedere col genio tecnologico caratteristico di quella dimora. Un piccolo vassoio rettangolare in compensato grigio, con due pratiche maniglie. Era aggangiato saldamente al bracciolo destro tramite un semplicissimo, eppure sorprendente gioco di molle, ascose sul retro tramite due leve di stesso materiale. Il vassoio assurgeva quindi, al bisogno, ad una doppia funzione: la più tradizionale e quella più arguta, ovvero quella di tavolino prêt-à-porter. Indolente e per nulla curioso, Vegeta vi pose lo sguardo vitreo per un istante; sulla superficie era sparso in apparente disordine un numero indefinibile di bastoncini in legno, dalle estremità variamente colorate.
In passato aveva già scorto quella bizzarra accozzaglia, un po' ovunque, in quella casa: nel bel mezzo di una delle grandi scrivanie dei laboratori, sul tavolo della cucina, in un angolo del pavimento del salone. Un giorno, senza che lui avesse dato il minimo cenno d'interesse, il dottor Brief gli disse semplicemente "Si chiama Shangai, o Mikado, se preferisci. Il gioco consiste nel riuscire a sfilare il maggior numero di bastoncini dalla propria posizione senza smuovere gli altri, ne sono un grande appassionato, mi aiuta a rilassarmi!". Un grugnito indignato, era stata la sua unica reazione, prima di allontanarsi definitivamente da lì e continuare i propri spossanti allenamenti.

Lo aveva lì davanti, adesso, quel disordinato insieme di bastoncini appuntiti e le sue dita come automi si diressero verso l'unico, per il momento, bastoncino papabile. Lo sfilò così delicatamente, talmente lento, da aver alla fine l'impressione che tra la decisione di iniziare a sfilarlo e il definitivo esserci riuscito, fossero trascorse ore. Il Sole, oscurato parzialmente da densi nembi biancastri, lambiva appena i suoi zigomi pallidi, svelando alla luce della realtà due iridi sempre d'ebano, ma spente di qualunque fuoco vi avesse mai arso.
Pose in controluce la punta di quel legnetto variopinto, ne osservò prima con un occhio chiuso, poi con l'altro, i contorni ingigantiti dalla prospettiva, giocando a coprire con quel profilo prima una parte della vetrata, poi il mandorlo che da dietro essa faceva capolino.
Non aveva espressione. La bocca, abitualmente contrita o comunque scocciata e sprezzante, pareva ora una anonima linea sul volto, disegnata svogliatamente da un pigro illustratore. Lo sguardo, da sempre ardente e magnetico, era ora un buco nero immobile, incapace di inghiottire o restituire alla vita tutto ciò che gli stava attorno. La postura intera, usualmente ben diritta e fiera, s'era trasformata in un informe stravaccamento; le spalle appena ricurve, le braccia lasciate cadere oltre i braccioli della poltrona con noncuranza.
L'indice della mano con cui reggeva il bastoncino, andò a torturarne la puntuta estremità, cercandone il veritce più acuminato, per premerglisi contro, permettendogli infine di conficcarsi superficialmente nell'epidermide, lasciando che una goccia di sangue alieno si impregnasse nella porosità del legno, aggiungendo un'ombra di colore a quello già presente della china consunta e violacea.



***


 
Praticamente non gli aveva ancora rivolto la parola. Era trascorso un paio di giorni dal termine di quell'orrenda esperienza e la proiezione futuristica del figlio, Trunks, li aveva salutati proprio la mattina prima. Lei non s'era trattenuta dal fargli tutte le più materne raccomandazioni, mentre Vegeta, poggiato con la schiena sotto alle fronde di un albero del giardino, gli aveva rivolto un solo cenno, un solo gesto, ma era stato come se i due si fossero compresi meglio che con chiunque altro. Quando Hope era ormai scomparsa dal campo visivo di tutti, Bulma s'era voltata a cercare con lo sguardo il principe dei saiyan, un tempo suo amante, per sempre padre di suo figlio, ma di lui non era rimasta neppure l'ombra.
Lo aveva visto nuovamente ore ed ore dopo, in piedi, per nulla impavido e tronfio, davanti alla ringhiera della terrazza più alta. Sembrava stesse scrutando l'orizzonte, ma ad una più attenta osservazione, quelle pupille erano invece rivolte verso il basso ed il cipiglio sempre austero era adesso un pensieroso e assai triste vessillo d'impotenza e di apatica resa.
Pensando di essersi solo sbagliata e che con la giusta provocazione le cose sarebbero andate nuovamente nel verso a cui s'era abituata vederle andare, s'era avvicinata, prodigandogli un gioviale sorriso insieme allo sguardo ben desto e limpido del figlio tra le sue braccia.
"Sai, quando te ne sei andato ho smantellato la camera gravitazionale, ma se mi dai un paio di giorni io..."
. La interruppe, alzando lo sguardo poco sopra la linea tracciata dalla ringhiera "Non serve. Io... Io non mi allenerò più, non combatterò mai più". Era stato l'unico episodio in tutta la sua vita in cui autonomamente ed al volo Bulma aveva compreso di dover tacere, di non proferire altro. Alla sensazione di asciutto in gola si erano mescolati subito mille interrogativi. Che cosa significava quell'affermazione? Poteva davvero essere, quello, il genuino dispiacere per la dipartita di Son Goku? Il più martellante, tuttavia, era stato quello che metteva sul piatto la possibilità che Vegeta avrebbe anche potuto definitivamente abbandonare quel pianeta. Aveva così deciso di allontanarsi, di lasciarlo in pace, di non cercare ancora, da lui, alcuna risposta, pronta a tenersi dentro la torturante sensazione di chi dovrebbe ottenerne, di responsi, ma alla fine non ne ha mai e brancola nel buio dell'incertezza.

Aveva terminato da poco il collaudo di una motocicletta volante e la doccia calda era stata una manna. Benchè ancora non facesse freddo, aveva provato un gran piacere a puntare l'asciugacapelli in direzione del proprio collo e delle spalle, oltre che della chioma ormai ben asciutta ed ordinata. Vestitasi di abiti più confortevoli dello scafandro da laboratorio, s'era diretta verso il salone, per potersi rilassare qualche ora in compagnia di biscotti e riviste di moda. Alcuni vezzi, nonostante la maternità e le note vicissitudini, non li aveva persi e quel giorno addirittura aveva preferito fosse sua madre, ad occuparsi del bimbo ormai svezzato da tempo. Avrebbe così avuto modo, Bulma, di dedicare a sè stessa l'intero primo pomeriggio, prima di tornare a lavorare. Varcò sorridente la porta della sala. Fu in quel momento che se ne avvide.
Scorse la deformata figura del principe dei saiyan, pareva quasi non respirasse, appiattito sulla stessa poltrona che tante volte, in passato, gli aveva visto utilizzare come unico mezzo di relax. Il sorriso accennato lasciò il posto ad un'espressione indefinibile, un misto di sorpresa e pena. Dispiacere, rammarico, nell'osservare ben tangibili di fronte a sè lo smacco e la frustrazione imperanti sulle membra sfibrate di quell'alieno che troppo a lungo aveva boriosamente giocato con il proprio indiscutibile carisma magnetico, che troppo spesso aveva sprezzantemente ignorato il consiglio di rabbonirsi almeno un po'.
Ora se ne stava lì, accasciato e svuotato come la carcassa di una preda in un'invisibile landa desolata, incapace di sbattere le palpebre come se al posto delle orbite vi fossero solo polvere e terriccio.
Lo guardava, anche se da dietro quello schienale ed avvertiva l'imponente macigno che gli era piombato su ogni organo vitale, nel momento in cui s'era decretata la sconfitta del nemico. Poi mise a fuoco i bastoncini di legno, infine il dito trafitto.
La voglia di rilassarsi sparì in un soffio raggelante.



***



Le dava le spalle, ma la sua presenza l'aveva avvertita da un pezzo. Non l'aveva neppure fatto apposta, la debolissima aura era comparsa nel suo mirino alieno nel momento stesso in cui s'era avvicinata alla soglia della stanza. La punta dell'indice iniziava a formicolare ed impallidirsi, in questo stava trovando un assurdo e sterile piacere da cui non avrebbe voluto separarsi mai. Non avrebbe però mosso un muscolo, per mantenere quella volontà. Di volontà lui non riusciva più a sentirne. Non gli riusciva più di scorgere niente, fuori e dentro sè, tutto s'era spento. L'intera sua identità, tutto ciò che lui in parte era stato ed in parte si era faticosamente costruito attorno, era crollato rovinosamente nel nulla più profondo, lasciando campo libero solo alla vita fisiologicamente intesa. Non fosse stato per la consapevolezza di star respirando, si sarebbe creduto morto anch'egli.
"Oh cielo, Vegeta, ma che fai? Stai sanguinando, da' qui", udì avvicinarsi la donna alla poltrona sul quale gli pareva d'essere assiso, già, perchè non aveva più coscienza neppure della materialità delle proprie membra.
"Guarda qui, lascia che ti disinfetti... Questo Shangai è sempre a mezzo, quante volte ho detto a mio padre che il piccolo potrebbe farsi seriamente male...!". Trasse del cotone imbevuto ed un cerotto emostatico dal kit di pronto soccorso che aveva lì accanto: da quando il saiyan aveva messo per la prima volta piede in quella casa, nel giro di breve lei aveva installato in ogni stanza una valigetta o un armadietto colmi di garze, bende e simili, giacché aveva immediatamente notato la reticenza di quell'alieno a trascinarsi sino al proprio bagno, per medicarsi coscienziosamente. Avendo la disponibilità in ogni stanza, aveva potuto più volte pensarci lei, ma solo quando Vegeta si trovava in condizioni tali per cui nemmeno il più piccolo e fastidioso dei mosconi, sarebbe riuscito a scacciare.
Questa volta, pur non essendo affatto sfiancato da alcun allenamento, non aveva ritratto la mano, né aveva mosso un solo muscolo del corpo. Davvero pareva inanimato. Lentamente e con estrema delicatezza, Bulma terminò la semplice medicazione e issandosi nuovamente dalle ginocchia ai piedi, richiuse l'astuccio ed appuntò i gomiti ai fianchi, fissando Vegeta. Gli occhi azzurri ne accarezzarono tutto il profilo, dalla folta capigliatura corvina alla cesellatura dei polpacci ricadenti sul poggiapiedi di fronte. Benchè lo sguardo potesse apparire di disappunto, le sottili sopracciglia erano increspate di una preoccupazione che solo una donna innamorata, riserva all'oggetto dei suoi più intimi sentimenti. Non aveva idea dell'entità del micidiale peso che si ergeva sull'animo del saiyan ed al contempo era perfettamente conscia di quale genere di travaglio interiore si stesse trovando ad affrontare, illudendosi d'essere solo con sè stesso. Lei non lo avrebbe mai abbandonato; non sapeva se Vegeta aveva deciso di rimanere accanto a lei, di rimanere come padre per Trunks, di rimanere come solo coinquilino, oppure di partire, partire alla volta di un'altra terra, di un altro mondo, di un altro universo, dimentico di qualunque cosa accaduta in quell'ultimo arco di anni. Lei, però, non lo avrebbe abbandonato, anche se questo avesse significato patirne l'assenza fisica. Vegeta avrebbe potuto decidere di non rivolgerle mai più un solo sguardo, d'ignorare per sempre il loro figlio, di non proferire verso di lei più alcuna parola.
Per questo, nel momento in cui lui fece schioccare la lingua sul palato riarso, Bulma ebbe gran sussulto.
"Sinceramente" -le si rivolse con una voce atona, dura, ma inespressiva, senza distogliere lo sguardo dal vuoto del proprio silente sconvolgimento- "credo che non manchi a nessuno, una buona ragione per uccidersi, non trovi?".









-Fine-
  
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