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Autore: Jailer    25/09/2015    3 recensioni
Il passato di Manigoldo, dalla prima volta in cui vide un'anima al suo incontro con Sage, da Messina ad Atene, passando per la solitudine, i sogni, il fato, la morte, l'amore.
La giovinezza del discolo destinato a diventare l'uomo che incatenò Thanatos è un valzer tra piccoli e grandi drammi, vissuti sempre con la leggerezza e l'ironia che lo contraddistinguono.
E anche l'incredulità per ciò che il fato scelse di riservargli.
"Ancora non ho capito quale concatenazione di fatti mi abbia portato alle soglie della Quarta Casa, né che cosa ci faccia io qui.
Come per ogni cosa, però, ne prendo atto.
A volte prendo in giro la mia armatura: mi ci siedo davanti a gambe incrociate, e le chiedo: “Ma a te, chi ti ha voluta?”
Penso che lei mi sorrida in qualche modo, ma non so che espressione sia, se di benevolenza o di beffa.
Le sorrido anche io, di gratitudine o imbarazzo. Ma non posso fare a meno di pensare quanto cara mi sia costata."
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cancer Manigoldo, Cancer Sage, Nuovo Personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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II

Storia di come il fato mi rubò anche il cappotto

 

Da quell’alba in avanti le cose diventano un po’ più chiare nella memoria.
Restai a vegliare sulle mie macerie fino a che la fame, il freddo e i miasmi dei cadaveri non mi convinsero ad andar via. Restai lì un’ora o una settimana. Sotto un cielo alto e impietoso, che scaricò pioggia a non finire, mi lasciai consumare dall’inverno per un po’.

 Se vi dicono di desiderare qualcosa di eterno, portateli in posti così, fategli vivere questo.
Quella che ho vissuto è l’eternità, ed è mostruosa.
L’eternità è una sofferenza in cui si perde anche la forza di contare il tempo che scorre. È l’attesa fra le macerie e l’alba che non arriva mai a illuminarle. Il limbo fra un dolore non ancora confermato a causa del buio e la certezza che ancora si ostina ad aggrapparsi alla speranza di un errore.

Forse è per questo che gli uomini hanno inventato gli orologi e i giorni: per fuggire il senso di eternità. Per porsi dei limiti numerici al soffrire e non cadere in braccio all’indefinito.
È per quello che sorge il Sole: per pietà degli uomini.

 È perché ho provato qualche istante di eternità che non me ne importa nulla di morire. Io voglio il confine.
Da affrontare e scavalcare.
Da sfiorare e da fuggire sempre un po’.

 
***

 

Quello che successe nei mesi seguenti non è importante.
Bazzicai per campi, valli e città, rubacchiando negli orti e prendendomi delle gran legnate. A volte destavo pietà in qualche vecchia e mi offriva un tetto sopra alla testa e un piatto caldo per una sera.
Io cenavo, rubavo qualcosa dalla casa e me ne andavo.
Ancora oggi trovo abbastanza fastidioso passare la notte in un posto senza finestre ampie. All’epoca preferivo dormire al freddo piuttosto che sentirmi oppresso fra quattro mura.
Avevo paura, non respiravo. Ogni rumore era per me fuoco che divampa e uomini che uccidono altri uomini.
Sono cose normali, quando ti è capitata una cosa così – dicono.
Io non so quanto ci sia di normale, ma lo prendo come un dato di fatto.

 Camminai a lungo, incappando in aggregazioni urbane sempre piuttosto piccole.
Tuttavia, mi accorsi ben presto che in città era sempre più difficile trovare qualcosa da mettere sotto ai denti. Faceva sempre un freddo terribile, la gente era incattivita, e capitava spesso che mi lanciassero qualche oggetto addosso se durante la notte mi trovavano a dormire vicino a certi palazzi, dove mi rincantucciavo perché erano i posti più riparati.


 Poi giunsi in una città sul mare più grande delle altre, e lì incontrai una ragazzina.
Qui comincia davvero la mia storia – la storia di Manigoldo.

 Andavo vestito con le pezze che qualcuno mi aveva regalato e con quello che ero riuscito a sottrarre a guardaroba, se possibile, ancora più poveri del mio.
Era quasi inverno e cominciava a diventare insostenibile andare in giro solo con una camicia e un maglioncino logoro e perennemente umido addosso.
C’era il mercato e una sbadata e grassa commerciante che aveva esposto un cappotto nero bellissimo.
“Gli abiti più caldi di Messina!”, urlava cantilenando, “Gli abiti più belli di Sicilia!”
Dio, quanto doveva riparare quell’affare. Era anche elegante, con quello addosso avrei smesso di andare in giro con addosso l’insegna “pendaglio da forca in erba”.
Non ho mai avuto una faccia rassicurante, nemmeno da bambino.
Non avevo mai rubato in mezzo a tanta gente e in pieno sole, non conoscevo nemmeno il posto e sarei potuto finire in un vicolo cieco. Mi avrebbero accalappiato in un attimo.

 Poi guardai la camicia, guardai i miei polsi ormai secchi. E allora?
Magari mi avrebbero portato in gatta buia e lì avrei avuto vitto e alloggio gratis, o magari direttamente sulla forca. Allora avrei fatto la parte del martire: una recitazione così commovente sull’ingiustizia della vita che li avrebbe commossi tutti e mi avrebbero lasciato andare e mi avrebbero dato pure un sacco di soldi per scusarsi.
Oppure mi avrebbero ucciso lo stesso, e sarei diventato famoso. Sarei stato un martire del sistema. Oh, che bellezza.
Avevo tanta fantasia. Quando uno non mangia tutto il giorno, l’unica cosa che può fare è guardare per aria e sperare in un miraggio. Ma faceva troppo freddo anche per quelli.

 In alternativa al carcere o alla forca, avrei passato l’inverno sicuramente al gelo e sarei morto in un vicolo puzzolente - come un banale pezzente. E io non ero un accattone.
Un delinquente sì, ma uno di quelli mai.
Non ho mai fatto elemosina, quelli che mi avevano accettato in casa loro lo avevano fatto senza che io gli chiedessi niente. Non sarei morto così.
Allora decisi di andare a prendere il mio cappotto.

 Non ero una mente fine, e non avevo nemmeno tanta pazienza e energia per pianificare qualcosa – diciamo che in quegli anni non ho mai avuto troppa energia per fare qualsiasi qualcosa, mangiando a stento un paio di tozzi di pane al giorno-, quindi aspettai solamente che le strade si svuotassero un poco.
Non sapevo che un’altra mente, un po’ più fine della mia, mi aveva già intercettato e aspettava che io facessi il lavoro sporco per poi farmela sotto al naso.
Mi avvicinai alla mia preda, la proprietaria della bancarella era distratta a ciarlare.
Il cappotto era lì, steso in bella vista. Appena vidi quel bel nero e l’imbottitura interna a quadri (anche a distanza di anni mi sembra l’abito più bello che abbia mai visto), qualora qualche reticenza fosse rimasta, sparì.

 E niente: allungai il braccio e mi misi a correre. Pessima mossa, perché se avessi continuato a camminare facendo finta di nulla, avrei intascato il cappotto e me ne sarei andato tranquillo e tanti saluti.
La donna mi vide correre, vide il cappotto fuggire con me e si mise a urlare.
“Al ladro! Al ladro!”
Non so se corsi per pochi metri o per chilometri. Sbattei contro non so quante persone e le gambe mi facevano un male terribile.
Mi inseguirono all’inizio in quattro o cinque, poi il corteo dietro di me si infoltì enormemente. Fortunatamente ero veloce, leggero e la città era piena di vicoli. A forza di zigzagare tra le vie dispersi i miei inseguitori.
Non si erano affannati particolarmente, alla fin fine. Io sì, però, avevo dato fondo a tutte le riserve di energia che possedevo.
Respiravo malissimo, probabilmente avevo una forma di asma che stava andando via via peggiorando a causa del freddo che pativo sempre: quindi non solo respiravo a malapena, ma ad ogni respiro i miei polmoni generavano un terribile fischio di richiamo. Mi sembravano spugne strizzate.
La crisi non passava, cominciava a girarmi la testa. In più ero angosciato dal fatto che qualcuno potesse sentirmi e trovarmi. Stringevo il cappotto spasmodicamente.
Non ho mai più vissuto una sensazione del genere: se c’era qualcosa di importante in quel momento era quell’abito. Avrei venduto l’anima pur di tenerlo.
Come il Dottor Faust di Marlowe, pensai.
Lo scopo non era meno nobile, dopotutto.
Con il cappotto anche l’asma sarebbe andato meglio. Era lì, il mio cappotto.
Stavo così male ed ero così felice che mi venne da piangere.

 

***

 Blanca arrivò in silenzio.
Adesso anche il mio respiro si stava calmando. Mi ero messo seduto con la schiena contro il muro sudicio e la testa appoggiata alla stoffa della giacca sulle ginocchia.
Mi camminò davanti e afferrò la stoffa da un angolo un po’ più esposto. La tirò nel tentativo di sottrarmela con un candore da risultare imbarazzante.

 Alzai lo sguardo e la guardai sorpreso, senza capire. Era una ragazzetta pallida e magra che doveva avere più o meno la mia età.
 Ne approfittò per tirare più forte e farmi scappare dalle mani il cappotto. Non avevo avuto la forza di stringerlo più forte.
“Grazie!”, disse, “Mi hai risparmiato una gran fatica.”, sorrise.
E con un balzo si buttò nella strada principale e affollata.

 Con il mio cappotto.
Il mio.
Non lo era più.

Scherzi?

 L’asma si calmò dopo poco, ma rimasi anche dopo in quel vicoletto senza muovermi: era una forma di protesta nei miei stessi confronti.
Bravo scemo, mi dicevo, non ho mai maledetto il mio stupido corpo tanto come quel giorno, nemmeno quella volta in cui, durante una missione, per colpa del mio altrettanto stupido ginocchio che cede in continuazione, ho visto la morte in faccia.
Anche lì la storia non era diversa: Blanca mi aveva fatto lo sgambetto, una volta, e in quell’occasione probabilmente immolai i miei legamenti crociati.
In entrambi i casi – storia dell’asma e del ginocchio-, maledissi anche lei. È sempre stata colpa sua.

 Ora dovevo patire il freddo, e me lo meritavo pure.
Forse restai lì anche ad aspettare un po’ la ragazzina, inconsapevolmente.
È un po’ troppo romantica come idea per i miei gusti, ma se si andasse a vedere quello che è successo non è poi così sbagliata.

 Ella, infatti, tornò. Speravo per vergognarsi.
Era notte ed ero ancora lì, perché, dopotutto, il vicolo era riparato e c’era un bel tepore. Mi disse il suo nome non so quando, fatto sta che seppi che si chiamava Blanca.

Non era tornata per scusarsi e restituire ciò che era mio – non era nel suo stile -, ma perché aveva visto che sapevo correre bene.
“Con un piatto caldo al giorno e un tetto sopra la testa quella roba ai polmoni ti passerà in un lampo.”
“Asma…”
“Quella. Me lo ha detto il Rosso.”
“Chi?”
“Vieni, dai!”
“Il mio cappotto dove ce l’hai?”
“Il Rosso ce l’ha. Io non comando mica niente, lì.”

Blanca tese una mano magra e pallida per aiutare ad alzarmi. Anche nel buio aveva iridi così chiare che sembrava avesse solo le pupille. Era un po’ inquietante, ma c’era anche una ferocia così marcata da cane randagio e un’astuzia, quella più felina, da renderla incredibilmente maestosa.
I lineamenti affilati, per natura e per fame, il passo deciso e i capelli corti sotto un berretto di flanella che gli copriva un orecchio più dell’altro. Questa era Blanca.
Blanca non era che una bambina esile e scaltra che assomigliava ad un maschio, eppure con lei vissi la cosa che più assomigliò all’amore in tutta la mia vita.
È per colpa sua che mi piacciono sia gli uomini sia le donne. È sempre colpa di Blanca.

 
***

 

 Dovemmo infilarci in alcuni viottoli luridi e trovare un cimitero, scavalcarne il muricciolo, uscirne, ed entrare in uno scantinato. Lì c’era il Rosso.
Blanca aveva fatto tutta la strada con le mani in tasca e senza dire una parola. Io ero ancora offeso nei suoi confronti, l’avevo seguita solo nella speranza di poter recuperare l’ancora mio cappotto. Il quale, dopo che vidi il Rosso e tutta la sua banda, smise di essere considerato tale.

 Lo scantinato era colonizzato dalle ragnatele e dal buio, smorzato solo dal baluginare da luci di poche lanterne. Pareva una miniera.
Era piacevolmente caldo ma sovraffollato, con quella manica di discolacci che vi entravano e uscivano in continuazione.
Proprio davanti all’entrata, presso la parete direttamente opposta, c’era un enorme sedia, scalcinata ma addobbata come un trono. Tappeti tutti intorno di scarso valore, ma color porpora facevano la loro figura, in quell’angolo di lusso da presa in giro, di maestà dei poveri.
A qualcuno sarebbe sembrato un bordello – a me no, perché le case di piacere le conoscevo solo per nome e non sapevo nemmeno che cosa ci si facesse.

  Quando entrammo nessuno badò a me o a Blanca. Era tutti ragazzetti tra gli undici e i quindici anni intenti a mille attività diverse: erano strani, alcuni impegnati nel gioco delle carte come piccoli adulti logorati dalla vita e dal vizio, altri litigavano per qualche assurdo motivo.
Nel complesso c’era un gran casino, un vociare così confuso che mi sentii girare la testa.

Notai che le altre femmine che erano presenti erano vestite con certi abiti da donne adulte che scoprivano il seno, e avevano la faccia incipriata.
Erano molto belle e molto ridicole al tempo stesso, a me non piacevano.
Quelle se ne stavano in un angolo a parlare tra di loro, e furono le uniche a osservarmi incuriosite.
“Vieni con me.”

 Blanca mi scosse, e mi trascinò verso una porta in un angolo più tranquillo dello stanzone. Entrammo in un corridoio adiacente. Lei mi precedette camminando lentamente e quatta quatta come a cercare di non far rumore.
Poi saltò dentro la stanza con entusiasmo.
“Te l’ho portato!”

 C’era una figura voltata di spalle che contemplava non so che cosa sul lato opposto della stanza.
Era assai esile e i capelli le correvano come sangue lungo la schiena. Pareva una femmina, e anche quando si voltò per un po’ lo pensai davvero. Guardò a lungo Blanca senza dire nulla.
Aveva un viso dai lineamenti finissimi, ma anche ambigui, quasi quanto quelli della bambina.
Quando si decise a parlare, rivolgendosi al mio indirizzo, rivelò una voce profonda e maschile.
Trasalii per la sorpresa e per il modo che aveva di osservarmi.

È un maschio.

“È quello del cappotto?”
“Sì.”
Il parlare di Blanca era un pigolio.
“Corre bene?”
“Ha corso bene.”
“È furbo?”
“Non lo sembrava tanto.”
“Ehi!”
Tirai una gomitata a Blanca, sinceramente adirato e dimentico anche dello sguardo inquisitore del Rosso – era lui.

 “Calmi.”
Si alzò in piedi e si avvicinò al mio indirizzo. Era così magro che sembrava impossibile potesse alzarsi e compiere dei movimenti senza rompersi. Pareva uno strano burattino.
Quell’orrenda macilenza aveva però lasciato intatto il viso, e solo le guance si rivelarono eccessivamente scavate.

“Come ti chiami tu?”
Dovetti pensarci un momento. Era tanto che nessuno me lo chiedeva, da quando mi ero lasciato indietro le campagne, perché in città nessuno mi aveva più offerto ospitalità.
Che cosa rispondevo di solito?
“Non ho un nome.”
“Te l’ho detto che era stupido!”
“Blanca.” La mise a tacere e continuò: “Cosa vuol dire che non ce l’hai?”
“Dei banditi hanno bruciato casa mia e tutto il mio paese, credo di aver battuto la testa e non mi ricordo come mi chiamo.”
“Nessuno ti ha più chiamato con qualche nome?”
“Nessuno mi ha più chiamato per nome, a parte le vecchie, ma loro mi dicono ragazzino e a me non piace. Mi chiamavano Manigoldo una volta, perché ammazzavo le farfalle. Ma non mi va di farmi chiamare così a tempo pieno.”
“A nessuno andrebbe.”
“…”

“Quindi un nome non ce l’ha?” Blanca entrò di nuovo nel discorso. Non era interessata tanto a me quanto ad attirare l’attenzione del giovane. Pendeva dalle sue labbra.
“No.” Risposi.
“E come ti chiamo?” continuò quella.
“Non mi chiamare. Fammi solo un fischio quando vi deciderete a restituirmi ciò che è mio.”

 “Quanto a me, mi chiamano Rosso”, si avvicinò tendendomi la mano secca. La ignorai.
“Posso riavere il mio cappotto?”

“Blanca ti spiegherà cosa fare per guadagnarsi il pane da queste parti. Se guadagnerai abbastanza ti restituirò il cappotto.”
“E se non volessi?”
Il Rosso sorrise sibillino e le labbra si tesero fin quasi agli occhi: era tutto bocca, tanto era magro.
“Quanto pensi di poter andare avanti durante l’inverno?”
Tacqui e abbassai la testa. Mi guardai i polsi, e non mi sembrarono molto meno esili di quelli del Rosso. L’aria mi sembrò improvvisamente fredda e rabbrividii.

 Nelle campagne non ci avevo fatto caso, ma in città la miseria aveva tutto un altro sapore: non era solo avere un po’ più freddo alla notte. Sapeva di sconfitta ed emarginazione.
“Portalo di sopra.”
Blanca mi tirò per il braccio e mi portò via.
Pensai alle mie farfalle dalle ali stracciate in mezzo ai campi d’oro, in cui pareva essere caduto il sole, e, per la prima volta in vita mia, sentii una tristezza che mi pareva senza motivo.
Ora lo so: era solo morire di nostalgia - prima o poi capita a tutti. È fisiologico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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