II
Storia
di come il fato mi rubò anche il cappotto
Da
quell’alba in avanti le cose diventano
un po’ più chiare nella memoria.
Restai a vegliare sulle mie macerie fino a
che la fame, il freddo e i miasmi dei cadaveri non mi convinsero ad
andar via.
Restai lì un’ora o una settimana. Sotto un cielo alto e impietoso, che
scaricò
pioggia a non finire, mi lasciai consumare dall’inverno per un po’.
Quella che ho vissuto è l’eternità, ed è
mostruosa.
L’eternità è una sofferenza in cui si perde
anche la forza di contare il tempo che scorre. È l’attesa fra le
macerie e
l’alba che non arriva mai a illuminarle. Il limbo fra un dolore non
ancora
confermato a causa del buio e la certezza che ancora si ostina ad
aggrapparsi
alla speranza di un errore.
È per quello che sorge il Sole: per pietà degli uomini.
Da affrontare e scavalcare.
Da sfiorare e da fuggire sempre un po’.
***
Quello
che successe nei mesi seguenti non è
importante.
Bazzicai per campi, valli e città, rubacchiando
negli orti e prendendomi delle gran legnate. A volte destavo pietà in
qualche
vecchia e mi offriva un tetto sopra alla testa e un piatto caldo per
una sera.
Io cenavo, rubavo qualcosa dalla casa e me
ne andavo.
Ancora oggi trovo abbastanza fastidioso
passare la notte in un posto senza finestre ampie. All’epoca preferivo
dormire
al freddo piuttosto che sentirmi oppresso fra quattro mura.
Avevo paura, non respiravo. Ogni rumore era
per me fuoco che divampa e uomini che uccidono altri uomini.
Sono cose normali, quando ti è capitata una
cosa così – dicono.
Io non so quanto ci sia di normale, ma lo
prendo come un dato di fatto.
Tuttavia, mi accorsi ben presto che in
città era sempre più difficile trovare qualcosa da mettere sotto ai
denti.
Faceva sempre un freddo terribile, la gente era incattivita, e capitava
spesso
che mi lanciassero qualche oggetto addosso se durante la notte mi
trovavano a
dormire vicino a certi palazzi, dove mi rincantucciavo perché erano i
posti più
riparati.
Qui comincia davvero la mia storia – la
storia di Manigoldo.
Era quasi inverno e cominciava a diventare
insostenibile andare in giro solo con una camicia e un maglioncino
logoro e
perennemente umido addosso.
C’era il mercato e una sbadata e grassa
commerciante che aveva esposto un cappotto nero bellissimo.
“Gli abiti più caldi di Messina!”, urlava
cantilenando, “Gli abiti più belli di Sicilia!”
Dio, quanto doveva riparare quell’affare.
Era anche elegante, con quello addosso avrei smesso di andare in giro
con
addosso l’insegna “pendaglio da forca in erba”.
Non ho mai avuto una faccia rassicurante,
nemmeno da bambino.
Non avevo mai rubato in mezzo a tanta gente
e in pieno sole, non conoscevo nemmeno il posto e sarei potuto finire
in un
vicolo cieco. Mi avrebbero accalappiato in un attimo.
Magari mi avrebbero portato in gatta buia e
lì avrei avuto vitto e alloggio gratis, o magari direttamente sulla
forca.
Allora avrei fatto la parte del martire: una recitazione così
commovente
sull’ingiustizia della vita che li avrebbe commossi tutti e mi
avrebbero
lasciato andare e mi avrebbero dato pure un sacco di soldi per
scusarsi.
Oppure mi avrebbero ucciso lo stesso, e
sarei diventato famoso. Sarei stato un martire del sistema. Oh, che
bellezza.
Avevo tanta fantasia. Quando uno non mangia
tutto il giorno, l’unica cosa che può fare è guardare per aria e
sperare in un
miraggio. Ma faceva troppo freddo anche per quelli.
Un delinquente sì, ma uno di quelli mai.
Non ho mai fatto elemosina, quelli che mi
avevano accettato in casa loro lo avevano fatto senza che io gli
chiedessi
niente. Non sarei morto così.
Allora decisi di andare a prendere il mio
cappotto.
Non sapevo che un’altra mente, un po’ più
fine della mia, mi aveva già intercettato e aspettava che io facessi il
lavoro
sporco per poi farmela sotto al naso.
Mi avvicinai alla mia preda, la
proprietaria della bancarella era distratta a ciarlare.
Il cappotto era lì, steso in bella vista.
Appena vidi quel bel nero e l’imbottitura interna a quadri (anche a
distanza di
anni mi sembra l’abito più bello che abbia mai visto), qualora qualche
reticenza fosse rimasta, sparì.
La donna mi vide correre, vide il cappotto
fuggire con me e si mise a urlare.
“Al ladro! Al ladro!”
Non so se corsi per pochi metri o per
chilometri. Sbattei contro non so quante persone e le gambe mi facevano
un male
terribile.
Mi
inseguirono all’inizio in quattro o cinque, poi il corteo dietro di me
si infoltì
enormemente. Fortunatamente ero veloce, leggero e la città era piena di
vicoli.
A forza di zigzagare tra le vie dispersi i miei inseguitori.
Non si erano affannati particolarmente,
alla fin fine. Io sì, però, avevo dato fondo a tutte le riserve di
energia che
possedevo.
Respiravo malissimo, probabilmente avevo
una forma di asma che stava andando via via peggiorando a causa del
freddo che
pativo sempre: quindi non solo respiravo a malapena, ma ad ogni respiro
i miei
polmoni generavano un terribile fischio di richiamo. Mi sembravano
spugne
strizzate.
La crisi non passava, cominciava a girarmi
la testa. In più ero angosciato dal fatto che qualcuno potesse sentirmi
e
trovarmi. Stringevo il cappotto spasmodicamente.
Non ho mai più vissuto una sensazione del
genere: se c’era qualcosa di importante in quel momento era
quell’abito. Avrei
venduto l’anima pur di tenerlo.
Come il Dottor Faust di Marlowe, pensai.
Lo scopo non era meno nobile, dopotutto.
Con il cappotto anche l’asma sarebbe andato
meglio. Era lì, il mio cappotto.
Stavo così male ed ero così felice che mi
venne da piangere.
***
Adesso anche il mio respiro si stava
calmando. Mi ero messo seduto con la schiena contro il muro sudicio e
la testa
appoggiata alla stoffa della giacca sulle ginocchia.
Mi camminò davanti e afferrò la stoffa da
un angolo un po’ più esposto. La tirò nel tentativo di sottrarmela con
un
candore da risultare imbarazzante.
Ne
approfittò per tirare più forte e farmi scappare dalle mani il
cappotto. Non
avevo avuto la forza di stringerlo più forte.
“Grazie!”, disse, “Mi hai risparmiato una
gran fatica.”, sorrise.
E con un balzo si buttò nella strada
principale e affollata.
Il mio.
Non lo era più.
Scherzi?
Bravo
scemo,
mi dicevo, non ho mai maledetto il mio stupido corpo
tanto come quel giorno, nemmeno quella volta in cui, durante una
missione, per
colpa del mio altrettanto stupido ginocchio che cede in continuazione,
ho visto
la morte in faccia.
Anche lì la storia non era diversa: Blanca
mi aveva fatto lo sgambetto, una volta, e in quell’occasione
probabilmente
immolai i miei legamenti crociati.
In entrambi i casi – storia dell’asma e del
ginocchio-, maledissi anche lei. È sempre stata colpa sua.
Forse restai lì anche ad aspettare un po’
la ragazzina, inconsapevolmente.
È un po’ troppo romantica come idea per i
miei gusti, ma se si andasse a vedere quello che è successo non è poi
così
sbagliata.
Era notte ed ero ancora lì, perché,
dopotutto, il vicolo era riparato e c’era un bel tepore. Mi disse il
suo nome non
so quando, fatto sta che seppi che si chiamava Blanca.
Non
era tornata per scusarsi e restituire
ciò che era mio – non era nel suo stile -, ma perché aveva visto che
sapevo
correre bene.
“Con un piatto caldo al giorno e un tetto
sopra la testa quella roba ai polmoni ti passerà in un lampo.”
“Asma…”
“Quella. Me lo ha detto il Rosso.”
“Chi?”
“Vieni, dai!”
“Il mio cappotto dove ce l’hai?”
“Il Rosso ce l’ha. Io non comando mica
niente, lì.”
Blanca
tese una mano magra e pallida per
aiutare ad alzarmi. Anche nel buio aveva iridi così chiare che sembrava
avesse
solo le pupille. Era un po’ inquietante, ma c’era anche una ferocia
così
marcata da cane randagio e un’astuzia, quella più felina, da renderla
incredibilmente maestosa.
I lineamenti affilati, per natura e per
fame, il passo deciso e i capelli corti sotto un berretto di flanella
che gli
copriva un orecchio più dell’altro. Questa era Blanca.
Blanca non era che una bambina esile e
scaltra che assomigliava ad un maschio, eppure con lei vissi la cosa
che più
assomigliò all’amore in tutta la mia vita.
È per colpa sua che mi piacciono sia gli
uomini sia le donne. È sempre colpa di Blanca.
***
Blanca aveva fatto tutta la strada con le
mani in tasca e senza dire una parola. Io ero ancora offeso nei suoi
confronti,
l’avevo seguita solo nella speranza di poter recuperare l’ancora mio cappotto. Il quale, dopo che vidi il
Rosso e tutta la sua banda, smise di essere considerato tale.
Era piacevolmente caldo ma sovraffollato,
con quella manica di discolacci che vi entravano e uscivano in
continuazione.
Proprio davanti all’entrata, presso la
parete direttamente opposta, c’era un enorme sedia, scalcinata ma
addobbata
come un trono. Tappeti tutti intorno di scarso valore, ma color porpora
facevano la loro figura, in quell’angolo di lusso da presa in giro, di
maestà
dei poveri.
A qualcuno sarebbe sembrato un bordello – a
me no, perché le case di piacere le
conoscevo solo per nome e non sapevo nemmeno che cosa ci si facesse.
Nel complesso c’era un gran casino, un
vociare così confuso che mi sentii girare la testa.
Erano molto belle e molto ridicole al tempo
stesso, a me non piacevano.
Quelle se ne stavano in un angolo a parlare
tra di loro, e furono le uniche a osservarmi incuriosite.
“Vieni con me.”
Poi saltò dentro la stanza con entusiasmo.
“Te l’ho portato!”
Era assai esile e i capelli le correvano
come sangue lungo la schiena. Pareva una femmina, e anche quando si
voltò per
un po’ lo pensai davvero. Guardò a lungo Blanca senza dire nulla.
Aveva un viso dai lineamenti finissimi, ma
anche ambigui, quasi quanto quelli della bambina.
Quando si decise a parlare, rivolgendosi al
mio indirizzo, rivelò una voce profonda e maschile.
Trasalii per la sorpresa e per il modo che
aveva di osservarmi.
È
un maschio.
“È
quello del cappotto?”
“Sì.”
Il parlare di Blanca era un pigolio.
“Corre bene?”
“Ha corso bene.”
“È furbo?”
“Non lo sembrava tanto.”
“Ehi!”
Tirai una gomitata a Blanca, sinceramente
adirato e dimentico anche dello sguardo inquisitore del Rosso – era lui.
Si alzò in piedi e si avvicinò al mio
indirizzo. Era così magro che sembrava impossibile potesse alzarsi e
compiere
dei movimenti senza rompersi. Pareva uno strano burattino.
Quell’orrenda macilenza aveva però lasciato
intatto il viso, e solo le guance si rivelarono eccessivamente scavate.
“Come
ti chiami tu?”
Dovetti pensarci un momento. Era tanto che
nessuno me lo chiedeva, da quando mi ero lasciato indietro le campagne,
perché
in città nessuno mi aveva più offerto ospitalità.
Che cosa rispondevo di solito?
“Non ho un nome.”
“Te l’ho detto che era stupido!”
“Blanca.” La mise a tacere e continuò:
“Cosa vuol dire che non ce l’hai?”
“Dei banditi hanno bruciato casa mia e
tutto il mio paese, credo di aver battuto la testa e non mi ricordo
come mi
chiamo.”
“Nessuno ti ha più chiamato con qualche
nome?”
“Nessuno mi ha più chiamato per nome, a
parte le vecchie, ma loro mi dicono ragazzino
e a me non piace. Mi chiamavano Manigoldo una volta, perché ammazzavo
le
farfalle. Ma non mi va di farmi chiamare così a tempo pieno.”
“A nessuno andrebbe.”
“…”
“Quindi
un nome non ce l’ha?” Blanca entrò
di nuovo nel discorso. Non era interessata tanto a me quanto ad
attirare
l’attenzione del giovane. Pendeva dalle sue labbra.
“No.” Risposi.
“E come ti chiamo?” continuò quella.
“Non mi chiamare. Fammi solo un fischio quando vi deciderete a
restituirmi ciò che è mio.”
“Posso riavere il mio cappotto?”
“E se non volessi?”
Il Rosso sorrise sibillino e le labbra si
tesero fin quasi agli occhi: era tutto bocca, tanto era magro.
“Quanto pensi di poter andare avanti
durante l’inverno?”
Tacqui e abbassai la testa. Mi guardai i
polsi, e non mi sembrarono molto meno esili di quelli del Rosso. L’aria
mi
sembrò improvvisamente fredda e rabbrividii.
“Portalo di sopra.”
Blanca mi tirò per il braccio e mi portò
via.
Pensai alle mie farfalle dalle ali stracciate
in mezzo ai campi d’oro, in cui pareva essere caduto il sole, e, per la
prima
volta in vita mia, sentii una tristezza che mi pareva senza motivo.
Ora lo so: era solo morire di nostalgia - prima
o poi capita a tutti. È fisiologico.