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Autore: Hermione Weasley    29/09/2015    2 recensioni
“Non siete il primo che è venuto a vedere la strega,” alluse, il sospetto vivissimo.
“Io non credo alle streghe,” non poté fare a meno di sottolineare, vagamente risentito dall'essere stato accomunato ai superstiziosi babbei del villaggio.
“Però siete venuto a vederla comunque,” la ragazza non voleva proprio mollare il colpo. Si sentì messo alle strette, innaturalmente indispettito.
“Ero curioso.”
“Quindi ci credete.”
“No, che non ci credo. Questo posto è piccolo e gli estranei sono sempre fonte di curiosità, non vi pare abbastanza?”
---
XVIII secolo. La vita di Clint Barton, figlio adottivo dell'eccentrico lord Phillip Coulson, cambia radicalmente quando una presunta strega viene ad abitare nel bosco vicino alla villa della famiglia. Clint dovrà fare i conti con la superstizione, gli obblighi, le responsabilità e forze in gioco molto più grandi di lui.
[1700 AU] [Clint/Natasha] [apparizioni di tutti gli Avengers + alcuni personaggi di Agents of Shield] [COMPLETA]
Genere: Avventura, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agente Phil Coulson, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 7

~

 

L'aria si era trasformata in un sudario bollente, soffocante. Clint sbatté le palpebre, gli occhi che lacrimavano a causa del fumo spesso e denso che lo circondava.

Si rimise seduto, la testa che pulsava dolorosamente in prossimità della tempia destra. Si toccò in quel punto, trovando i capelli impiastricciati di una sostanza calda e vischiosa.

Sangue.

I pensieri si susseguivano sconnessi davanti ai suoi occhi, come se non gli appartenessero. Le fiamme divampavano tutt'attorno, affamate, intente a fagocitare le pareti incrostate del rimorchio di Conrad. Il cadavere del vecchio, addetto ai guadagni della compagnia, parve prendere forma a qualche metro di distanza. Era ripiegato su se stesso, rattrappito come una fisarmonica pronta ad essere riposta nella sua custodia. Le braccia magre abbandonate lungo i fianchi, una gamba piegata e l'altra distesa.

Il fuoco gli stava lambendo l'orlo dei mutandoni scuri. Jacques doveva averlo sorpreso mentre si stava preparando per coricarsi. Lì accanto, vuota e rovesciata mestamente a terra, la cassetta di metallo in cui era solito riporre i guadagni della serata.

Clint si agitò, mentre l'irrazionale bisogno di impedire che le fiamme si prendessero, del vecchio, anche i vestiti, si impossessava di lui. La vocina razionale che continuava a blaterargli in testa parole disarticolate e prive di senso, gli suggerì che non ce n'era bisogno. Che era morto, dopotutto. Il dolore non era più una preoccupazione per lui. Niente lo era.

Boccheggiò ancora, l'aria che pareva appesantirsi sempre di più, concedendogli solo sporadiche boccate d'ossigeno. Sembrava di ingoiare le fiamme.

Tentò di rimettersi in piedi, la testa che gli girava imperterrita e un dolore atroce al fianco. Il filo dei suoi pensieri cominciò a tendersi ed intricarsi, considerazioni scollegate iniziarono a sfrecciargli nel cervello in modo sconclusionato.

Jacques. Jacques... era stato lui a colpirlo alla testa.

Ricordava il volto deformato dalla rabbia che gli aveva offerto prima di abbattergli un fiasco vuoto sul capo. Era caduto e poi...

Gli occhi appesantiti si abbassarono di colpo, come attirati da una forza invisibile. C'era una lampada ad olio riversa a terra, i vetri rotti e una macchia scura e oleosa a disegnare una pozza informe proprio lì, praticamente ai suoi piedi.

E poi una consapevolezza, insistente e gelida mentre il fuoco avvampava tutt'intorno.

Era colpa sua. Era stato lui.

L'incendio.

Aveva sorpreso Jacques a rubare, ad uccidere e tutto quello che era riuscito a fare era stato guardarlo imbambolato, permettergli di sbarazzarsi di lui e gettare il campo nel panico perché era stato tanto stupido da lasciar cadere la lampada.

Perché non aveva reagito?

La vista gli si oscurò per un istante. I polmoni si affannavano alla disperata ricerca d'aria, ma ad ogni respiro non faceva che inalare altro fumo, altra aria infuocata.

Provò a muovere un passo, due, ma si sentiva pesante, come se un peso insopportabile lo stesse schiacciando a terra. Sarebbe morto lì dentro senza poter dare l'allarme.

Sarebbe morto e suo fratello non avrebbe mai saputo quant'era stato stupido e ingenuo.

Sarebbe morto e l'avrebbe lasciato da solo ad occuparsi di se stesso. Forse, in fin dei conti, sarebbe stato un bene. Si era sempre sentito un peso per Barney, solo un ragazzino sciocco che si sforzava di essere all'altezza, ma che era incapace di tenere il passo del fratello maggiore. Troppo più scaltro, maturo, furbo di lui. Tutto ciò che avrebbe voluto essere. Ma per quanto si sforzasse di somigliargli, non sapeva come smettere di sentirsi terribilmente inadeguato in sua presenza.

La porta si aprì con un fracasso impossibile. La ventata d'ossigeno intensificò l'incendio e il fuoco stava ormai per attaccarglisi alla pelle sudata, consumarlo come un ciocco di legno abbandonato nel camino.

La faccia di Barney, avvolta da bagliori arancioni e rossi gli si piazzò davanti. Gli parve innaturalmente alto; non si era accorto che le gambe gli avevano ceduto e che era caduto di nuovo a terra. Era venuto a salvarlo. Ancora una volta.

“Clinton! Lo so che è marzo e che fa freddo, ma non ti pare di aver esagerato un pochino?”

La voce era allegra anche se forzata. Aveva in mano una grossa ascia; con l'altra gli afferrò un braccio per aiutarlo ad alzarsi, ma era troppo pesante. Fu costretto ad abbandonare l'arnese per tirarlo su e a Clint venne da ridere. Non era mai stato tanto letteralmente un peso per suo fratello, eppure adesso eccolo lì a farsi trasportare come una bambola di pezza.

“Che cazzo hai da ridere?” Lo sentì chiedere mentre lo trascinava fuori dal rimorchio. Doveva aver notato il sorriso storto che gli si era aperto sul viso, incredulo. “Sei proprio un tipo bizzarro, fratellino.”

Come ci riusciva? Come poteva scherzare anche in una situazione tanto drammatica? Il suo fratellino era un fallimento totale, un ragazzino pieno di sé che credeva di poter conquistare il mondo solo perché sapeva fare dieci, venti, trenta centri consecutivi con arco e frecce. Perché non sembrava cogliere la gravità della situazione?

Il campo brillava di una luce sinistra. Ci mise un secondo di troppo a registrare le urla che rimbalzavano da un capo all'altro dell'accampamento, ad identificare le ombre informi che si spostavano in ogni direzione: i membri della compagnia stavano scappando o mettendo in salvo le poche cose di valore che possedevano.

Aveva distrutto tutto. Aveva lasciato cadere la lampada e aveva cancellato la vita di tutta quella gente. James, Melissa, Trick Shot, Karl, Adele...

Il fuoco si era attaccato avidamente agli alberi che avrebbero dovuto offrire loro rifugio da sguardi indiscreti: si stava propagando sul terreno, serpeggiando tra le foglie secche dell'inverno che arrancava a fatica verso una primavera ancora rigida e inospitale.

Un urlo orribile squarciò l'aria e Barney si bloccò.

“Dev'essere Melissa,” mormorò. Nonostante la scarsa lucidità, Clint riuscì a cogliere l'indecisione nella sua voce. Era combattuto tra mettere in salvo il fratello o soccorrere le persone con cui avevano vissuto in quegli ultimi mesi. Sapeva di essere la sua priorità numero uno, ma era una questione di vita o di morte.

“Vai,” biascicò allora. “Ti aspetto qui.” Avrebbe voluto poter dare una mano, avrebbe voluto non sentirsi completamente inutile mentre suo fratello rischiava la vita per porre rimedio ad un guaio che lui aveva creato.

Barney gli rivolse un'occhiata incerta, i capelli spettinati che sembravano ancora più rossi del solito. Il riverbero delle fiamme che si ingrossavano tutt'attorno come un mare in tempesta lanciavano ombre scure sul suo viso, facendoglielo apparire quasi estraneo.

“Va', ho d-detto,” ribadì e si sforzò di apparire sicuro di sé, più lucido di quanto non fosse.

L'urlo si ripeté una, due, tre volte finché non parve alzarsi in un grido alto, acuto e continuato che si mischiava all'infuriare dell'incendio. Barney esitò ancora per un paio di secondi prima di decidersi ad agire.

Aiutò Clint a sedersi ai piedi di un albero che non era ancora stato toccato e si raccomandò con lui di non muoversi, di aspettarlo ché sarebbe tornato di lì a poco per condurlo definitivamente al sicuro.

Lo guardò allontanarsi di corsa, una macchia scura e sicura nel suo campo visivo; perdeva consistenza ad ogni passo. Finché non tornò a confondersi con le fiamme, le luci e le urla. Il caldo era insopportabile, gli toglieva quel poco di chiarezza a cui si stava disperatamente aggrappando.

Si costrinse ad inspirare ed espirare ripetutamente; gli venne in mente di coprirsi naso e bocca con la camicia che aveva addosso e lo fece. Il caos infuriava, pareva gonfiarsi e ingrossarsi ad ogni attimo. Il tempo scivolava via, ma Clint non ne aveva la cognizione: poteva essere passata un'ora come pochi minuti.

L'ansia gli crebbe in petto con la foga dell'incendio. Le fiamme avvolgevano tutto ciò su cui riusciva a posare lo sguardo. Una vocina gli suggerì che doveva andarsene, ma non l'avrebbe mai fatto senza Barney. Il cielo, di un marrone torbido e cupo, assomigliava al volto ricoperto di cicatrici di un padre distante e indifferente.

“Clint.”

Una voce femminile, calda e roca lo costrinse a voltarsi.

Il fuoco le ricopriva le braccia e le gambe, ma la donna non sembrava soffrirne. Riconobbe gli occhi verdi e accesi, i capelli rossi come le fiamme che si stavano mangiando l'accampamento. Natasha era fatta della stessa sostanza di cui era fatto l'incendio.

“Alzati,” gli intimò con voce decisa, lo sguardo penetrante di chi non ammette repliche. “Te ne devi andare.”

“N-Non posso,” si ritrovò a biascicare sconnesso. “B-Barney...”

“Tuo fratello non tornerà.”

“Ti sbagli.”

La vide scuotere il capo, le vampe rosse che si agitavano nell'aria come a segnalare la sua irritazione. Era arrabbiata con lui perché non voleva capire. Ma come avrebbe potuto lasciare indietro suo fratello?

“Se non ti alzi adesso morirai,” insisté.

Gli si avvicinò e si accorse che era calda, ma di un calore piacevole in cui avrebbe voluto sparire. Era stupido che fosse lì, lei non c'era quella notte. Doveva essere solo una bambina ai tempi e invece eccola, uscita dall'inferno ad intimargli di andarsene, di mettersi in salvo.

“Devo aspettare Barney. Barney verrà a prendermi,” scosse il capo, ostinandosi sulle proprie posizioni come un bambino capriccioso. Eppure dentro di sé sapeva che era passato troppo tempo, che la situazione cominciava a farsi insostenibile.

“Alzati, Clint.” Si chinò su di lui e in quel momento Clint capì che, da lei, si sarebbe lasciato volentieri consumare. Il sudore gli colava copioso sul viso, facendogli bruciare gli occhi, salandogli le labbra su cui percepì il sapore del sangue.

“Alzati,” Natasha ripeté, il viso sempre più confuso nelle fiamme che la ricoprivano. “Alzati.”

Col cuore che gli batteva forte, Clint si alzò.

 

“Alzati.”

Riaprì di scatto gli occhi e, per un attimo, pensò che il cielo dell'incubo fosse ancora sopra di lui. Boccheggiò senza fiato e scattò a sedere prima di rendersi conto che era solo il tetto della tenda che il direttore si era prodigato di erigere per loro. Niente più di un cencio scuro ricucito in più punti che era stato appoggiato su una struttura di legno dall'aria pericolante.

Inspirò a fondo, trovando improvviso sollievo nel respirare aria fresca e leggera. Si portò le mani al viso sudato, i muscoli di tutto il corpo indolenziti per la nottata passata per terra.

“Stavi parlando nel sonno.”

La voce di Natasha lo fece sobbalzare. Si era dimenticato di come, tirandosi gomitate e occhiate allusive, i saltimbanchi della compagnia li avessero invitati a dormire insieme sotto quel rifugio sgangherato. Sembrava volessero sottolineare come le decisioni bizzarre delle loro famiglie – avverse al matrimonio e completamente inventate – non li riguardassero affatto. Erano gente a posto, non dei bigotti o, peggio, dei benpensanti.

“N-Non volevo svegliarti,” si affrettò a borbottare quando il silenzio cominciò a farsi troppo lungo.

“Non stavo dormendo,” rispose lei, lo sguardo attento e indagatore.

Clint annuì una sola volta e si sgranchì le braccia, sperando di apparire rilassato. La schiena scrocchiò più volte, provocandogli un misero piacere che si estinse subito dopo.

Riusciva quasi a percepire il peso di domande non formulate nello spazio ritagliato dalla tenda. Natasha sembrava sul punto di dar forma almeno a qualcuna di quelle, quando una voce femminile la richiamò dall'esterno.

La vide cambiare espressione, rifarsi più determinata.

“Dev'essere Mallory,” mormorò.

Stava per chiedergli chi fosse Mallory – ovviamente si era già imparata i nomi di tutti a memoria – ma non ne ebbe il tempo.

“Credo vogliano invitarmi a fare il bucato giù al fiume,” aggiunse senza nessun motivo apparente.

“Ti sento entusiasta,” la prese in giro.

Gli lanciò un'occhiata severa.

“E se stessero cercando di dividerci?” Ipotizzò in tono polemico.

“Credo che potremmo cavarcela anche separatamente,” le disse, prima che un pensiero lo colpisse. “Magari il Mangiafuoco potrebbe darmi del filo da torcere.”

Natasha annuì una sola volta, sovrappensiero. Il richiamo si ripeté, sempre più vicino. Se avesse esitato ancora, Clint era sicuro che chiunque fosse la proprietaria di quel nome si sarebbe infilata dentro la tenda senza troppi complimenti.

“Sta' attento,” si raccomandò lei, assicurandosi di avere le armi addosso ben nascoste, per qualsiasi evenienza.

“Sissignora.”

“Non sto scherzando, Barton,” lo redarguì.

“Nemmeno io. So che sembro una fragile fanciulla abituata a pizzi e trine, ma posso cavarmela,” le fece presente con sferzante ironia.

“Grazie per l'immagine mentale.”

“E di che?”

Giurò di averla vista sorridere mentre spariva oltre il lembo sdrucito della tenda e nell'aria luminosa del mattino.

Ma forse se l'era solo immaginato.

 

*

 

Il fiasco arrivò di nuovo vicino a lui. Il pagliaccio – aveva scoperto che si chiamava Edmund, ma tutti optavano per Ed – lo esortò a riempirsi di nuovo il bicchiere. Se non altro non era un ubriacone egoista.

Lo accontentò e passò la bottiglia a Natasha che gli era di fianco. Il sole era calato da almeno un'ora e adesso la compagnia si era raccolta in cerchio attorno al fuoco. Il chiacchiericcio andava di pari passo con lo scoppiettare dei ciocchi di legno tra le fiamme; un paio di volte Maurice, il nano, aveva attaccato a suonare un piccolo strumento a corda che aveva sempre con sé, e la donna barbuta gli era andata dietro, intonando una canzone che Clint si accorse di conoscere. Aveva una bellissima voce e lo sguardo gentile.

Lui e Natasha non avevano detto granché, si erano limitati ad ascoltare, ridere e sorridere quando necessario, ad intervenire qualche volta. La ragazza gli sedeva vicinissimo, e teneva poggiata una mano sul suo ginocchio; da fuori doveva apparire come una posa qualunque, segno di una tacita intimità, ma Clint riusciva a percepire la rigidità delle sue dita.

“Io me ne vado a letto,” dichiarò il direttore mentre si rimetteva in piedi. Era alto e macilento, tanto che sembrava quasi impossibile che riuscisse a star dritto su quelle sue gambe nodose. Rimase immobile, le mani poggiate sui fianchi, come aspettandosi che tutti gli altri si muovessero e seguissero il suo esempio, ma non successe. “Non fate tardi,” aggiunse in tono più seccato, dileguandosi in direzione dei suoi appartamenti.

Le gemelle sbadigliarono, sonoramente e perfettamente sincronizzate, prima di riaccoccolarsi l'una contro l'altra, sorreggendosi a vicenda. Il nano ricominciò a suonare, una canzone più lenta e malinconica stavolta, che non gli suonò familiare.

Sentì Natasha trasalire impercettibilmente al suo fianco quando la voce cavernosa e profonda del Mangiafuoco si accompagnò allo strimpellio delle corde stonate. Cantava ad occhi chiusi e braccia conserte, quasi lo stesse facendo nel dormiveglia. Si ritrovò a rabbrividire mentre gli occhi di tutti si fissarono sulla faccia scura dell'uomo; doveva essere una cosa abituale, perché i suoi compagni sorridevamo placidamente, lasciandosi cullare da quella bizzarra ninna nanna.

Si voltò verso Natasha, forse con l'intenzione di dirle qualcosa, ma si bloccò nel vederla come rapita, ammirata e terrorizzata insieme nel fissare il Mangiafuoco. Aveva gli occhi sgranati, persino un po' lucidi, ma non seppe decidere se era per via di un riverbero delle fiamme o se perché fosse... commossa. Il concetto gli parve talmente stupido da farlo sentire un completo idiota.

L'atmosfera rimase sospesa e immobile fino alla fine della canzone, quando l'uomo sembrò pacificarsi di colpo e zittirsi, restando nella stessa posizione, come se non avesse mai neppure aperto bocca. Ci fu un sospiro di generale beatitudine, fatta eccezione per Natasha che era ancora contratta al suo fianco.

Maurice riattaccò con una canzone più allegra e fu di nuovo il turno della donna barbuta di cantare. Il ritmo era allegro e sostenuto, tanto che le gemelle sentirono il bisogno di saltare in piedi e mettersi a ballare.

“Tutto a posto?” Sussurrò in direzione di Natasha, suo malgrado preoccupato dalla sua reazione.

La donna non rispose, limitandosi a fissare il Mangiafuoco ancora per qualche istante. Dopodiché si chinò verso di lui, accostandogli le labbra all'orecchio con calibrata spensieratezza.

“Vieni con me,” gli disse mentre lo prendeva per mano.

Natasha si rimise in piedi e Clint non poté far altro che seguirla; si allontanarono sotto gli sguardi incuriositi e divertiti di chi era ancora sveglio, dalle risatine delle gemelle che zompettavano al ritmo di Maurice.

“Dove stiamo andando?” Le chiese, lasciandosi condurre oltre l'accampamento e nel folto della boscaglia. Avevano deciso di sistemarsi lontano dalla strada e in un posto sufficientemente distante dal fiume per evitare incontri indesiderati.

La donna non rispose e continuò ad avanzare finché il buio non si fece spesso e impenetrabile. L'intravide che si fermava davanti ad un albero dal tronco enorme prima di cominciare ad arrampicarcisi con agilità. Non aspettò di essere invitato e la seguì in alto, finché non si ritrovarono seduti l'uno di fronte all'altra su uno dei rami più resistenti.

L'odore della vegetazione era forte e piacevole e Clint si sorprese a ripensare al profumo dell'erba e al peso di Natasha seduta sopra di lui. Una fitta inaspettata lo colse da qualche parte a sud della cintura dei pantaloni, facendogli sgranare gli occhi. Scacciò il pensiero e ignorò la sensazione, tentando di ripensare piuttosto al lezzo di letame che veniva su da quello stupido canale e magari al naso pieno di capillari scoppiati di Ed o alle mani legnose di Lance, il direttore con la faccia da cavallo.

“E adesso?” Domandò quando fu sicuro che la voce non l'avrebbe tradito e ormai diversi secondi furono passati senza che Natasha offrisse una spiegazione.

“Stiamo facendo sesso,” decretò incolore, ravvivando le scenette che gli si stavano sbiadendo nel cervello come se fossero state riportate in vita da un fulmine.

“C-Come?” Sputacchiò e finse di tossire perché qualcosa gli era andato di traverso (la sua dignità, ad esempio).

“Le ragazze mi hanno chiesto perché non abbiamo fatto nessun rumore stanotte,” disse senza una particolare intonazione.

“Perché avremmo dovuto fare rumore?”

“Credono di averci sorpreso mentre fornicavamo all'aria aperta nel bel mezzo del giorno,” gli ricordò. “E poi abbiamo dormito insieme, appartati, e ci siamo ignorati.”

“Magari non avevamo voglia di fornicare con un pubblico,” bofonchiò, sforzandosi di riappropriarsi di un minimo di contegno. E perché si erano messi a parlare come un frate domenicano imbestialito dalla sua predica?

“Magari,” mormorò lei, sovrappensiero. “Ma non voglio farmi ridare consigli su come soddisfare un uomo.”

Tra le informazioni incomprensibili fornite da Natasha e le immagini mentali che continuavano a pugnalargli i pensieri con straordinaria vividezza, Clint cominciò ad avere le vertigini.

“Di che stai parlando?”

“Amy e May erano convinte che fosse un problema di ingenuità da parte mia.”

“Chi sono Amy e May?”

“Le gemelle.”

Gli veniva da ridere e si sentiva inspiegabilmente in imbarazzo.

“Va bene. Hai scoperto qualcosa di interessante, almeno?” Certo, perché parlare di atti impuri era il modo migliore per togliersi dalla testa le proiezioni mentali di quegli stessi atti.

“Dubito vivamente di poter imparare qualcosa di nuovo.” Risuonò sostenuta e amareggiata al tempo stesso.

Non si permise di prendere del tutto consapevolezza delle implicazioni che quelle parole si portavano dietro. Quindi era una sorta di esperta di fornicazione? Un vago senso di disagio gli prese lo stomaco, senza concretizzarsi in una conclusione definitiva.

“Eri già stato in un posto come questo, vero?” Natasha parlò di nuovo, sollevandolo dall'impiccio di dover seguire il suo enigmatico commento.

“In che senso?”

“Hai fatto delle domande piuttosto specifiche,” gli fece notare, alludendo alla direzione da cui erano venuti. “Sei già stato in giro con gente simile,” aggiunse, come se fosse la naturale conseguenza di quell'intuizione.

“Non credi che il figlio adottivo di un nobile possa conoscere la vita del saltimbanco? Magari sono un appassionato di messinscene o rappresentazioni sacre,” si schermì.

“No,” scosse il capo. “Guardare da fuori e conoscere da dentro sono due cose ben diverse.”

I suoi occhi scintillavano al buio e la sua figura si faceva sempre più definita man mano che la vista gli si abituava all'oscurità circostante.

“E poi l'ho capito che non sei davvero un aristocratico,” riprese, come se ci tenesse a fargli capire che aveva colto un paio di cose sul suo conto.

“Non è bastato sentirmelo dire?” Ricordava ancora la loro prima conversazione nel bosco a poche miglia di distanza da villa Coulson.

“Non ti volevo credere,” ammise candidamente. “Ma sei uno che se la sa cavare anche fuori dalla sua casa a tre piani.”

“Quattro.”

“Cosa?”

“Quattro piani. Se si include il tetto, invece, cinque.” Le sorrise ampiamente, indovinando la confusione sul suo viso. “E comunque non era casa mia.”

“Riesci a sopravvivere in giro per il mondo, ma non in una villa,” formulò lentamente, nonostante tutto incuriosita. “Non devi starci molto con la testa.”

“Probabilmente non saresti la sola a pensarla così.” Si immaginò suo fratello che lo prendeva a male parole perché aveva avuto tutto – casa, sicurezza, pane per il resto dei suoi giorni – per poi decidere che in fin dei conti non voleva, o aveva bisogno, di niente del genere. Barney era ancora un ragazzino nella sua testa, eppure continuava a nutrire una certa soggezione nei suoi confronti; si sentiva in dovere di tenerlo in vita, anche se eternamente bloccato nei suoi tredici anni.

“Chi è Barney?” Gli chiese dal niente, mutando impercettibilmente il tono di voce, quasi gli avesse letto nel pensiero.

“Come fai a sapere di Barney?” Prese tempo, non era certo di volerle rispondere.

“L'hai nominato mentre dormivi,” disse soltanto. Si strinse nelle spalle, come a fargli capire che non le importava se decideva di dirglielo o meno, per lei non faceva alcuna differenza.

“E' mio fratello,” ammise senza neppure pensarci, quasi in tono di sfida.

Natasha gli puntò gli occhi addosso, fissandolo senza dire niente. Gli sembrò di aver colto un'ombra repentina attraversarle lo sguardo, come di una consapevolezza improvvisa. Ma sparì prima che potesse accertarsene, e il buio era tanto spesso da impedirgli di guardarla chiaramente in faccia in ogni caso.

“Che gli è successo?”

“Non lo so,” ed era vero. Non aveva la più pallida idea di che fine avesse fatto; una parte di lui provava ancora l'irrazionale bisogno di andarlo a cercare. Ma non sapeva da dove cominciare a mettere le mani: il mondo era sconfinato e suo fratello poteva essere ovunque. “Forse è morto. Oppure no...”

“Vi siete separati,” constatò Natasha.

“Per cause di forza maggiore. La mia idiozia, per dirne una.”

“Che hai combinato?”

“Ho fatto un casino e poi ho permesso che andasse a risolverlo da solo.” Perché glielo stava raccontando, comunque? Che gliene importava a quella semisconosciuta del suo passato insieme a Barney? Non avrebbe mai capito il suo senso di colpa, gli avrebbe dato dell'imbecille e l'avrebbe creduto più folle di quanto già non le sembrasse.

“Dovevi essere solo un ragazzino,” obiettò, forse in un blando tentativo di consolarlo.

Piombò il silenzio, intervallato solo dal respiro cadenzato della donna, dagli echi della serata che continuava a svolgersi all'accampamento, dai rumori del bosco tutt'intorno, pullulante di animali invisibili.

“La canzone del Mangiafuoco... la conoscevi?” Visto che erano in vena di confidenze, si sentì audace – e poi non voleva essere il solo scucirsi.

Gli sembrò quasi di poter toccare la sua indecisione con mano, mentre valutava se accontentare la sua curiosità o lasciar cadere la domanda nell'indifferenza più totale.

“Sì,” confessò dopo un lunghissimo istante. Aveva parlato come per togliersi un pensiero. “Ma non con quelle parole.”

“In un'altra lingua, intendi?” La vide annuire senza offrire nessun'altra delucidazione. “Di dove sei?” Si risolse a chiederle.

Natasha sbuffò una risata amara che si spense immediatamente.

“Di nessun posto.”

“Non puoi essere di nessun posto,” obiettò debolmente.

“Oh, sì che posso.” Aveva insistito, ma non c'era soddisfazione nella sua voce.

“Devi pur essere nata da qualche parte.”

“E' un'abilità che non si può insegnare, appartenere ad ogni luogo. L'altra faccia di una triste verità: prima devi non appartenere a nessun luogo.” (*) La frase le era uscita recitata, come se stesse ripetendo una regola, un insegnamento impartitole da qualcun altro.

Una sensazione sgradevole gli riempì lo stomaco, impedendogli di chiedere ulteriori informazioni. Che era stata addestrata al combattimento l'aveva capito; ma chi avrebbe potuto avere interesse a farlo? Perché e con quale scopo? E se questo scopo esisteva, allora cos'aveva a che vedere con lui?

La vide fare uno scatto silenzioso mentre si portava l'indice alle labbra, intimandogli il silenzio. Si mosse agilmente sul ramo, guardando verso il basso – Clint la imitò.

C'era un'ombra scura che si aggirava là sotto; sembrava appartenere ad un essere gigante. Natasha gli lanciò una rapida occhiata d'intesa e Clint capì che entrambi avevano pensato al Mangiafuoco. Possibile che fosse andato a cercarli? Un luccichio sinistro li avvertì che l'uomo era armato e senza dubbio intenzionato ad incassare la taglia sulla sua testa.

Vivo o morto, pensò Clint lugubremente, rammentando il pessimo ritratto che accompagnava l'avviso.

Natasha aveva estratto il coltello nascosto nello stivale e si preparava a balzar giù per neutralizzare l'aggressore. Tentò di farla desistere, ma quella era già atterrata diversi piedi sotto di lui senza fare neppure un rumore, dietro all'enorme ombra minacciosa, magari per aggirarla, eluderla e scappare.

“Vaffanculo,” sibilò frustrato prima di seguirla e atterrare al suo fianco in modo molto meno aggraziato.

La donna sembrava avere ogni intenzione di attaccare, ma una voce melliflua li sorprese alle spalle. Si voltarono di scatto, trovandosi davanti il viscido sorriso del direttore. Li teneva sotto tiro con una balestra dall'aria antiquata, ma non per questo meno letale.

“Ehi, che hai intenzione di fare con quella?” Domandò con finta spavalderia, sperando di prendere tempo: c'era ancora la mastodontica ombra alle loro spalle. Erano circondati.

“Vuoi che ti faccia un disegnino, ragazzo?” Il direttore sembrava immensamente soddisfatto di sé.

Natasha, al suo fianco, aveva cambiato espressione e nascosto il coltello, indecisa sul da farsi, su quale personaggio scegliere per l'occasione. Doveva ancora fingere di essere l'ingenua novella sposina, oppure mostrarsi in grado di tenergli testa?

L'uomo parve alzare lo sguardo su qualcosa di imponente alle loro spalle, dapprima sorpreso, poi sollevato.

“Boris, vedo che abbiamo avuto la stessa idea,” constatò.

Clint non ebbe bisogno di voltarsi per capire che c'era il Mangiafuoco dietro di loro, anche lui senza dubbio intenzionato a farlo fuori per intascarsi i soldi della taglia.

“Ci toccherà dividere il bottino.” Il direttore non sembrava particolarmente dispiaciuto.

“Ti ci vorrà un po' per ricaricare quell'aggeggio.” Stavolta era stata Natasha a parlare.

“Oh, tesoro, mi basta solo un colpo.”

“Ne sei sicuro?”

“Fossi in te ammazzerei lei per prima,” suggerì Clint. “E' un consiglio da amico, ma tu fa' come vuoi.”

“E' così che tratti la tua giovane sposa?”

“Morto un Papa, se ne fa un altro, diceva mio padre.” Suo padre non diceva niente del genere, ma sembrava una perla di saggia banalità adatta al momento drammatico.

“Peccato che non possa dire lo stesso di t-”

Qualcosa di solido, gelido e lucido, da qualche parte alle sue spalle, gli sfrecciò al lato del viso, sibilando nell'aria finché non andò a sprofondare nel collo esile del direttore. Lance sgranò gli occhi e impallidì, deviando la traiettoria della balestra che adesso vacillava pericolosamente in prossimità di Natasha. Prima di cadere – il sangue che gli sgorgava giù per il petto come una cascata oscura – ebbe la prontezza di riflessi di premere il grilletto.

Clint non ebbe il tempo di riflettere su che cazzo fosse appena successo. Tutto quello che riuscì a fare fu lo scatto improvviso con cui scaraventò Natasha lontano dalla traiettoria della freccia, la quale, per tutta risposta, gli si conficcò in una spalla.

“Merda!” Imprecò a mezza voce, giusto perché lo shock di essere stato colpito anestetizzò il dolore per i primi, miseri secondi. La fitta arrivò subito dopo, lancinante e improvvisa, come se i suoi nervi si fossero ricordati di fare il loro lavoro solo in quel momento.

Natasha lo guardò con tanto d'occhi dal tronco d'albero contro cui era appoggiata, riversandogli addosso una muta serie di insulti virtualmente infiniti.

“Dovete andarvene,” il Mangiafuoco era rimasto fermo, immobile nel punto da cui aveva lanciato il coltello che aveva ucciso il direttore dalla faccia equina. “Non siete al sicuro.”

“Devi essere uno perspicace,” commentò Clint, portandosi una mano alla freccia conficcata nella spalla. Avrebbe fatto un male del diavolo, tirarla fuori di lì.

“Raggiungete il fiume e tornate indietro di un paio di miglia,” l'uomo lo stava completamente ignorando, rivolgendosi piuttosto a Natasha. “Probabilmente vi aspettate che il ponte di pietra sia pattugliato, ma non è così.”

Di che razza di ponte andava blaterando? E perché Natasha sembrava seguire senza difficoltà le istruzioni di Boris?

“Perché dovremmo fidarci?” Fu lei a chiederglielo, sospettosa.

“Perché non avete altra scelta.” Gettò a terra un groviglio di oggetti e sacche che Clint riconobbe come le loro cose. C'erano anche il suo arco e la sua faretra là in mezzo. “Andatevene adesso.”

Un pensiero lo colpì dal niente, improbabile eppure in qualche modo... sensato. Il Mangiafuoco si era infilato nel bosco per proteggerli, perché sapeva che il direttore avrebbe tentato di intascare la taglia sulla sua testa.

“Il ponte è una delle principali vie di comunicazione. Perché non dovrebbe essere pattugliato?” Natasha non sembrava intenzionata a cedere alle lusinghe di quei consigli tanto assurdi.

“Perché tutti la pensano come te, mia cara.” Il suo sguardo si indurì e la labbra sparirono sotto i grossi baffi arricciati all'insù. Sollevò una delle grosse mani e – per un attimo – Clint ebbe paura che fosse sul punto di schiaffeggiarla.

Trattenne il respiro, ma tutto quello che fece fu abbassarsi l'orlo della camicia bordeaux che indossava, rivelando una cicatrice a forma di clessidra. Un marchio.

Clint sentì lo stomaco stringerglisi bruscamente al modo in cui Natasha impallidì: era terrorizzata.

L'uomo le disse qualcosa in una lingua che Clint non comprendeva, ma che assomigliava a quella in cui, a volte, cantava Natasha. Le parole, però, sembrarono avere un effetto miracoloso sulla donna. Si ricompose rapidamente, facendosi quasi violenza nel riassumere un'espressione neutra.

Continuarono a parlare in quell'idioma sconosciuto finché Natasha non si decise a raccogliere le loro cose e afferrarlo per il braccio sano.

“Andiamo,” ordinò.

Clint lanciò un'occhiata confusa al Mangiafuoco, poi al cadavere del direttore immerso in una densa pozza del suo stesso sangue e infine a Natasha.

Senza guardarsi indietro, si affrettò a seguirla nel folto del bosco.






(*) la frase è una citazione riadattata dal fumetto dedicato alla Vedova Nera di Nathan Edmondson.

Note: insomma, in teoria le cose dovevano calmarsi un poco e invece non è stato così :P in compenso abbiamo scoperto qualcosa sul passato di Clint, della sua vita da saltimbanco in compagnia del fratello Barney, e dell'incendio che li ha separati. Tra tutti i personaggi citati Trick Shot e Jacques Duquesne (a.k.a. lo Spadaccino) fanno realmente parte della backstory del nostro arciere preferito nei fumetti Marvel (o in alcuni dei fumetti Marvel, ho rinunciato a capirci qualcosa). Ma presto o tardi torneremo su questo periodo della sua vita. Natasha invece rimane misteriosa come le si addice... per una risposta che riceve, Clint si ritrova con altre 100 domande. Non temete, però: scopriremo qualche altra cosa sul suo conto nei prossimi capitoli!
Anyway, ringrazio tutti quelli che sbirciano, leggono & commentano, che mi fa sempre piacere, e ovviamente alla sociabeta Eli <3
Alla prossima settimana! Aggiornamento 4/10: il prossimo capitolo verrà postato il 13 ottobre
(◡‿◡✿)
 
  
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