III
DELUSIONE
Danny
non ne aveva avuto abbastanza evidentemente, perché
ogniqualvolta avesse un minuto libero provava e riprovava a contattare
Steve, lasciandogli vari messaggi – alcuni in cui aveva
cercato di ragionare e altri invece grazie ai quali avrebbe di certo
ottenuto una scomunica se il Papa fosse stato nei paraggi. Ad ogni
modo, il risultato era sempre stato lo stesso: una conversazione a
senso unico.
A fine giornata era talmente stanco di avercela con Steve che non
riuscì nemmeno a sentirsi soddisfatto di aver condotto
un’indagine di cui, se fosse stato pienamente in
sé, si sarebbe vantato davanti a diversi giri di alcolici.
Chin e Kono gliel’avevano anche proposto, assicurando che
avrebbero offerto loro, ma aveva rifiutato. Era davvero a pezzi.
Prima di tornare a casa si fermò in un piccolo supermercato
aperto ventiquattr’ore su ventiquattro e comprò da
mangiare e, come ricompensa per aver catturato un serial killer attivo
dagli anni ’80, una confezione di birra da sei.
Con la spesa sui sedili posteriori e la birra accanto a sé,
lì dove avrebbe dovuto esserci Steve, guidò piano
per le strade illuminate dai lampioni e dalle stelle sparpagliate nel
cielo scuro. Venne distratto dalla suoneria del proprio cellulare e
senza nemmeno guardare il display se lo portò
all’orecchio, esclamando con foga:
«Steve!».
«No… Sono Gabby».
Il biondo si spalmò una mano sulla faccia e
ridacchiò per stemperare la tensione. «Ciao Gabby.
Perdonami, non ho guardato chi fosse».
«Ho notato. Ehm… Dove sei?».
«In macchina, sto andando a casa».
«Oh».
Danny aprì la bocca per chiederle se fosse successo
qualcosa, se stesse bene, quando improvvisamente si ricordò
che la sera prima si erano messi d’accordo che sarebbero
dovuti uscire a cena… un’ora prima.
«Gabby, io… Mi dispiace, mi sono completamente
dimenticato. È stata una giornata intensa e
poi…». Avrebbe voluto dire che Steve se
n’era andato, raccontarle tutto, sfogarsi con lei come aveva
fatto altre volte quando il collega lo mandava fuori dai gangheri, ma
quella volta no.
«Va tutto bene?», gli chiese la dottoressa,
percependo qualcosa di strano nel suo tono di voce.
«Sì, tutto bene. Sono solo molto stanco, ecco.
Possiamo… possiamo fare un’altra volta? Ti
prometto che mi farò perdonare».
«Ma certo, non ti preoccupare».
«Mi dispiace tanto, davvero».
«Danny, non è successo nulla di male.
Solo…».
«Sì?».
«Se hai bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa, io ci sono. Hai
capito?».
Danny non poté evitare di sorridere lievemente, nonostante
sapesse che non poteva vederlo. Le avrebbe risposto, se solo non avesse
rischiato di strozzarsi con la sua stessa saliva: udendo la sirena di
un’ambulanza, infatti, aveva sollevato lo sguardo sullo
specchietto retrovisore per guardare da che direzione provenisse e la
sua mente annebbiata dalla stanchezza gli aveva fatto scorgere Steve al
volante del pick-up nero dietro di lui.
«Danny? Danny, ci sei?».
La voce di Gabrielle lo riportò alla realtà e
grazie ad una vigorosa strizzata d’occhi vide il vero volto
dell’uomo alla guida del pick-up, quello di un completo
sconosciuto.
«Sì, sono qui. Grazie, Gabby».
Si salutarono e Danny continuò a guidare, senza nemmeno
pensare alle svolte che doveva prendere, fino a quando non si
ritrovò di fronte alla villetta di Steve. Non sapeva come ci
era arrivato e non se lo chiese, certo che avrebbe solamente aggravato
la situazione se si fosse posto troppe domande.
Tirò giù dall’auto la borsa e le birre
e aprì la porta con la copia delle chiavi che Steve non gli
aveva mai chiesto indietro da quando l’aveva ospitato a casa
sua per via dello sfratto.
Senza nemmeno accendere le luci si diresse a passo sicuro verso la
cucina, dove sistemò ciò che aveva comprato. Non
sapeva nemmeno perché avesse fatto la
spesa, dato che il cibo era l’ultimo dei suoi pensieri.
Con la cassa di birre sottobraccio tornò in salotto. Aveva
tutta l’intenzione di accamparsi sul divano fino alla mattina
successiva, ma ciò che vide gli fece venire voglia di
prendere il muro a testate. Posata in bella vista tra i cuscini
c’era una busta bianca con sopra il nomignolo che in teoria
avrebbe dovuto usare solo sua figlia ma che, in realtà,
usciva sempre più spesso dalle labbra del partner.
Posò le birre sul tavolino ed afferrò la busta
per stracciarla con gli ultimi rimasugli di rabbia che ancora gli
circolavano in corpo, come le ultime gocce di un veleno non del tutto
debellato dall’antidoto.
Due minuti dopo era a terra, intento a raccogliere ogni pezzo della
lettera per rimetterla insieme come un puzzle.
sapevo che prima o poi saresti venuto qui.
Puoi lasciare la TV accesa anche tutta la notte, se ti va. Ma niente frittate, per favore.
Starò attento, te lo prometto.
Steve
Danny
scosse il capo lentamente di fronte a quelle parole, troppo stanco per
ribattere in qualsiasi modo. Che speranze aveva contro un ninja
telepatico, comunque?
Una cosa però volle dirla ad alta voce, per quanto assurdo
potesse essere: «Ti odio».
Quasi come se lo avesse fatto apposta, da bravo autolesionista qual
era, aspettò la risposta che la sua mente gli propose,
puntuale e concisa: «Ma se mi adori!».
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Ecco
come promesso il terzo capitolo... Spero vi sia piaciuto :)
Un grazie a tutti coloro che hanno letto fino a qui e un grazie
speciale a Red lady
che a lasciato un commento allo scorso capitolo.
Ci vediamo domani per la quarta parte, un bacio!
Vostra,
_Pulse_