IV
PAURA
«Sergente Danny Williams, finalmente ci conosciamo».
Il biondo sentì ancora una volta quella mano gelida
afferrarlo da dentro, dolorosa come una tagliola.
«Chi parla?», chiese alla voce misteriosa che lo
aveva svegliato nel cuore della notte.
Si era addormentato ancora vestito – cravatta compresa
– sul divano di Steve, con la TV accesa a sovrastare il
respiro dell’oceano, il tavolino cosparso di bottiglie di
birra vuote e il cellulare stretto in mano, come se fosse in attesa di
una telefonata importante. E lo era.
«Ma come, non mi riconosce? Eppure l’ha visto anche
lei il video che ha scagionato McGarrett».
«Wo Fat», mormorò, impallidendo.
«È un piacere anche per me».
Danny avvistò il cordless di Steve e continuando a parlare
digitò a memoria il numero della scientifica: dovevano
assolutamente rintracciare la chiamata.
«Che cosa vuoi?», gli chiese digrignando i denti.
Per quanto ci provasse, non riusciva a prendere la linea, come se non
ci fosse campo.
«Non sprechi il suo tempo, detective. Nessuno
correrà in vostro aiuto, questa volta».
Il sudore ormai gli imperlava la fronte e gli appiccicava il cotone
leggero della camicia alla schiena. Lanciò il cordless tra i
cuscini del divano e si passò una mano tra i capelli, teso
come una corda di violino.
«In nostro aiuto? Di che cosa stai
parlando?».
«Oh, giusto. C’è qui una persona che
vorrebbe tanto salutarla...».
Danny rimase in silenzio, col fiato sospeso, fino a quando non
sentì un respiro rantolante e la voce fuori campo di Wo Fat
dire: «Coraggio Steve, parla. Nelle ultime tre ore insieme
non hai fatto altro che dire il suo nome… Sei diventato
timido?».
«Adesso basta!», urlò il detective,
nonostante la paura gli avesse ghiacciato il sangue nelle vene.
«Vuoi solo spaventarmi, Steve non è lì
con te. Lo saprei, se...».
«Danno...». Nonostante la voce strozzata di Steve
lo avesse raggiunto a malapena, il biondo sentì il proprio
cuore sprofondare in una voragine senza fondo.
«Steve? Steve, dove sei? Cosa ti ha fatto quel figlio di
puttana?».
«Danno, mi dispiace... Mi dispiace davvero...».
«Sistemeremo tutto, okay? Tieni duro, ti prego. Dimmi solo
dove sei».
Il silenzio che ottenne in risposta non fu per nulla rassicurante e
Danny iniziò a chiamarlo, alzando così tanto la
voce che temette di spezzarsi le corde vocali. Alla fine fu di nuovo Wo
Fat a parlare, con tono pacato e quasi gentile: «Spero vi
siate detti addio, sergente».
«Non ti azzardare a toccarlo. Toccalo e sei morto»,
ringhiò, sentendo le lacrime premergli contro le ciglia.
Wo Fat schioccò la lingua contro il palato e rispose:
«Se l’è cercata».
Ci fu un lunghissimo istante di silenzio, che Danny non
riuscì a spezzare a causa del nodo d’angoscia che
gli aveva stretto la gola, e poi un fragoroso scoppio che gli fece
cedere le ginocchia.
Si svegliò di soprassalto, il cuore che gli martellava nel
petto e la camicia incollata alla pelle.
Ai suoi piedi, i cocci di una delle bottiglie di birra che aveva
abbandonato sul tavolino. Agitandosi doveva averla fatta cadere.
Aveva letto da qualche parte che spesso i sogni venivano influenzati
dall’ambiente circostante: quando nella realtà la
bottiglia si era infranta sul pavimento, nel suo incubo Wo Fat aveva
sparato a Steve.
Si alzò, facendo attenzione a non pestare i pezzi di vetro,
e si diresse verso le porte finestre. Aveva decisamente bisogno di un
po’ d’aria fresca, in grado di schiarirgli i
pensieri e tranquillizzarlo.
Si sedette su una delle sdraio della spiaggetta privata e allentandosi
il nodo della cravatta respirò a fondo l’aria
intrisa di salsedine, gli occhi fissati sull’orizzonte e
sulla grande luna il cui riflesso illuminava di scaglie argentate la
superficie dell’oceano.
Quando si fu calmato a sufficienza, tirò fuori dalla tasca
dei pantaloni il cellulare e lo chiamò per
l’ennesima volta.
«Ciao. Sono io, di nuovo. Ho perso il conto ormai delle volte
in cui ho provato a contattarti, ma non mi arrenderò, hai
capito? Non ti libererai di me così facilmente, non dopo
tutto quello che abbiamo passato insieme.
«È solo che non capisco... Perché te ne
sei andato via così? Perché da solo?
Pensavo che l’esperienza in Corea del Nord ti avesse
insegnato qualcosa in merito al non imbarcarsi in missioni folli senza
supporto. Non voglio rivederti in quello stato, non voglio recuperarti
per il rotto della cuffia. Ma lo sai che lo farei se solo me lo
chiedessi, farei di tutto per te».
Danny era troppo sbronzo, troppo spossato e preoccupato, per rendersi
conto del vero e più profondo significato delle sue parole.
Il mattino seguente se ne sarebbe pentito forse, ma non in quel momento.
Si passò nuovamente una mano tra i capelli, un po’
appiattiti da un lato per via del cuscino, e riprese:
«Ciò che mi manda fuori di testa è che
non so nemmeno dove sei, Steve... Come faccio a sapere se stai bene, se
non mi rispondi? Nella lettera che mi hai lasciato in ufficio mi hai
scritto che ti saresti tenuto in contatto. Scherzavi? No,
perché se era solo uno scherzo avresti dovuto scriverlo tra
parentesi, amico».
Sospirò, abbandonandosi contro lo schienale della sdraio per
guardare le stelle.
La fresca brezza notturna fece rabbrividire la sua pelle ancora sudata
a causa dell’incubo e decise di alzarsi per tornare in casa.
Prima di dare le spalle all’oceano però,
mormorò dentro il microfono: «Non so che cosa
farei, se tu morissi».
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Questo
è uno dei capitoli che ho scritto con più
trasporto e spero vi sia piaciuto!
Grazie a chi ha letto fin'ora e a Red
lady per aver commentato.
A domani sera, un bacio!
Vostra,
_Pulse_