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Autore: agatha    21/10/2015    3 recensioni
Non sempre nella vita le cose vanno come vorremmo... Ci sono lezioni di vita che fanno crescere, persone che inaspettatamente ci aiutano al di là degli errori commessi. Presto lo scoprirà anche Louis Napoleon.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Luis Napoleon, Nuovo personaggio, Pierre Le Blanc
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Meglio tardi che mai! Eccomi qui a postare nuovamente, mi scuso ma il tempo è veramente tiranno.
Spero di riuscire a postarla tutta senza troppi ritardi.
Buona lettura alle anime pie che avranno voglia di spendere due minuti per leggerla, grazie.


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Di comune accordo per un po’ non si rivolsero la parola, ognuno preso dai propri esercizi. Louis avrebbe voluto rivolgerle qualche domanda, le aveva proprio sulla punta della lingua ma non sapeva come fare e quindi si limitava a non dire nulla. Juliet si era accorta delle occhiate che ogni tanto lui le lanciava, non aveva idea di cosa significassero, ma aveva capito che c’era qualcosa che lo preoccupava e non riusciva ad esternarlo. Forse poteva fare lei il primo passo.
“Lo sai che, se dovessi farti male, potresti finire sotto queste mani” dichiarò, muovendo le dita ripetutamente verso di lui.
Napoleon aggrottò le sopracciglia, sorpreso da quella strana frase.
“Non ci penso minimamente a farmi curare da te. Scordatelo!” asserì sicuro.
“A meno che tu non faccia più parte del Paris Saint Germain… in caso contrario, sarai costretto a passare per le mie grinfie”
“Cosa stai blaterando?”
Juliet si concesse un piccolo sorriso di soddisfazione per aver attirato, finalmente, la sua attenzione. Rimase seduta e distese le gambe, unite, davanti a sé. Poi si allungò, toccando con le mani la punta delle scarpe, senza piegare le ginocchia. Dopo aver tenuto la posizione per una decina di secondi, tornò a rivolgersi al calciatore.
“Non ti sei chiesto come mai abito nella tua stessa palazzina? Lo sai che è di proprietà del Club, no?”
Napoleon non disse nulla, però la sua mente cominciò a mettere insieme tutte quelle informazioni. Era vero quanto stava dicendo, tutti quelli che ci abitavano avevano a che fare, in qualche modo, con la squadra. Non si era soffermato a ragionare su quale fosse il suo ruolo e perché fosse lì. D’un tratto gli tornò alla mente quello che aveva letto nel suo cellulare.
Juliet era rimasta a fissarlo e, quando un guizzo passo nei suoi occhi azzurri, capì che aveva messo insieme tutte le informazioni.
“Sei nello staff medico” affermò, quasi parlando più a se stesso che a lei, che annuì in risposta.
“Sono arrivata prima in un concorso all’università e mi hanno preso per uno stage di un anno all’interno del PSG. Probabilmente ho esagerato, magari avrò semplicemente la possibilità di assistere, chi lo sa. In ogni caso sarà un’esperienza interessantissima”
Louis smise di fare gli esercizi e prese la bottiglietta dell’acqua, andando a sedersi vicino a lei. Ne bevve più di metà tutto d’un fiato, assaporando quel liquido freddo che scendeva giù per la gola, fino allo stomaco. Si asciugò le labbra con il dorso della mano e avvitò il tappo, posando poi la bottiglietta nell’erba.
“Che ci fai qui?” le chiese a bruciapelo.
Juliet sapeva che, alla fine, le avrebbe rivolto qualche domanda.
“Intendi su questo pianeta o qui a Parigi?” provò a scherzare, guadagnandosi un’occhiataccia da parte del francese.
“Studio fisioterapia e riabilitazione motoria in ambito sportivo all’università”
“Come mai non sei in Giappone? Insomma… Voi siete molto conservatori, vi permettono di uscire e andare all’estero?”
 
Questa volta fu lei a rimanere stupita. E incredula.
“Scusa, cosa significa quello che hai detto? Guarda che in Giappone non si vive mica nel medioevo! A parte che, secondo me, ti stai confondendo con la Cina dove sono molto più conservatori e chiusi verso il mondo esterno, in ogni caso non è che i giapponesi vivano dentro delle gabbie, da cui si può uscire solo per una piccola passeggiata!”
“E io, che ne so?” si difese lui, imbronciandosi.
Juliet avrebbe voluto spettinargli i capelli e prenderlo in giro ma temeva che si sarebbe chiuso a riccio ed era quello che non voleva.
“Mio padre è giapponese e io sono nata lì. A Sapporo, per essere precisi, sull’isola di Hokkaido”
Vedendo la sua espressione dubbiosa, mosse le mani, mimando la forma del Giappone.
“Hai presente com’è fatto? Ecco, Hokkaido è quell’isola grande che sta a nord e Sapporo è la capitale, o capoluogo più precisamente della Prefettura”
“Quindi spiagge assolate e mare?”
“Mica tanto... Non siamo proprio sulla costa e, comunque, tutti gli anni, a febbraio, si tiene il Festival della Neve di Sapporo, famoso a livello nazionale” concluse, rialzando il mento, orgogliosa di quella manifestazione che rappresentava uno dei suoi più bei ricordi d’infanzia.
“Mi piace la neve – dichiarò Louis, guardando il cielo, come se stesse immaginando una giornata d’inverno, con i fiocchi che scendevano a spirale, imbiancando tutto il parco – io compio gli anni a Natale” le confidò, quasi senza nemmeno rendersene conto.
“Davvero?” mormorò lei, stupita, prima di ridacchiare.
“Che c’è?” la fulminò Napoleon, un po’ risentito da quell’atteggiamento, dopo la sua confessione.
“Scusa. E’ che non ti vedo nei panni di un Gesù bambino nato la notte di Natale”
“Perché?” scattò lui.
Juliet si accorse che si era messo sulla difensiva. Sapeva che era stata colpa sua e del suo atteggiamento, ma le era venuto spontaneo. Con la mano chiusa a pugno, gli colpì una spalla di lato.
“Eddai, non prendertela. Non ho dubbi che fossi un cosino carino e coccoloso da piccolo. Abbastanza da fare il bambinello nel presepio. Ma, ammetterai, che ad oggi non sei propriamente adatto” commentò in tono leggero, sperando che capisse che non aveva voluto offenderlo.
Louis, si scostò il ciuffo dalla fronte, imbronciandosi per un momento, ma poi le scoccò una delle sue occhiate di superiorità.
“Farò finta di niente, per questa volta – sentenziò, prima di continuare – e tu, quando sei nata?”
Juliet fece un sorriso radioso.
“Ovviamente durante il Festival della Neve, ecco perché mi hanno chiamato così”
Napoleon aggrottò le sopracciglia, cercando di capire il nesso nella sua frase tra la neve e il suo nome. Non riuscendoci scosse il capo.
“Cioè?”
La ragazza si picchiettò la fronte con il palmo della mano.
“Ah già, scusa, tu non sai tutto. Il mio nome completo è Yukiko Juliet. Fukawa è il cognome, se vogliamo essere precisi. E, Yukiko, in giapponese significa figlia della neve. Mi hanno chiamato così proprio perché sono nata, appunto, durante il famoso festival e la città era sommersa dalla neve”
Yukiko” si trovò a ripetere mentalmente Louis, facendo fatica ad associare quel nome così strano alla ragazza di fronte a lui. Ormai si era abituato a chiamarla Juliet e quell’altro gli sembrava solo una nota stonata.
“Perché non lo usi?” si ritrovò a domandare di getto, senza aver seguito un ragionamento particolare.
La vide oscurarsi in viso e distogliere lo sguardo da lui, fissando il prato. Poi, prese la bottiglietta dell’acqua per bere, chiaro segno che stava prendendo tempo per non rispondere. Napoleon non ci trovava niente di speciale nella domanda che aveva fatto, quindi gli risultava ancora più strano il suo comportamento.
 
“Un’altra cosa per cui Sapporo è famosissima è la birra, sai? La migliore di tutto il Giappone – disse con enfasi – non è forte come quelle europee ma è buona, te l’assicuro. Semmai ti capitasse la possibilità, assaggiala”
Il bomber francese aprì la bocca, deciso a chiederle perché non avesse risposto alla sua domanda, quando un piccolo scrupolo di coscienza si affacciò nella sua mente, bloccandolo. Al contrario del solito, dove se ne fregava altamente di ferire la sensibilità altrui, questa volta preferì non insistere su quel punto, avvertendo istintivamente che Juliet non se la sentiva di parlarne. Liquidò questo scrupolo senza ragionarci sopra, non volendo attribuirgli troppa importanza.
“Da quanto sei in Francia?”
“Dopo aver vissuto a Sapporo i primi anni della mia vita, ci siamo trasferiti a Furano, dove mio padre è entrato nello staff tecnico della squadra – notando l’occhiata curiosa di Louis si affrettò a precisare – è medico sportivo. Per questo abbiamo cambiato città varie volte, a seconda di dove lo portasse il lavoro. Negli ultimi anni, però, ha preferito lasciare la parte pratica, dedicandosi all’insegnamento all’Università di Tokyo. Ho studiato in varie città e, alla fine delle scuole obbligatorie, ho ottenuto il permesso di venire qui a Parigi dai miei zii per iscrivermi al Liceo e proseguire con l’Università. Quindi – si alzò in piedi, pulendosi i pantaloni dall’erba – per rispondere esattamente alla tua domanda, sono cinque anni che calpesto il suolo francese, senza contare le vacanze estive” concluse, picchiettando i piedi per terra.
Napoleon era stupito da tutte quelle informazioni.
 
“E tua madre ti ha lasciato venire qui da sola, senza controllare i ragazzacci con cui potresti uscire?” buttò lì scherzando, per prenderla in giro.
Juliet sbiancò nel sentire quelle parole. Lasciò cadere la bottiglietta che teneva fra le mani, come se fosse stata colpita da un fulmine. Strinse le labbra e raccolse l’acqua da terra.
“Sono stanca. Mi sa che andrò a casa a riposare, tu continua pure” dichiarò, cercando malamente di dissimulare il suo cambiamento d’umore e voltandosi per andarsene.
Napoleon era rimasto basito da quell’atteggiamento. Solo pochi secondi prima stavano parlando tranquillamente e poi lei aveva reagito così, scappando via letteralmente.
Dannazione, cos’era successo?
Per una volta che si era sforzato di non fare lo stronzo, di non insultare né prendere per il culo, aveva ottenuto lo stesso risultato di restare da solo. Dopo aver rimuginato qualche minuto, scattò in piedi per raggiungerla, doveva capire cos’era successo e cos’aveva detto per farla reagire in quel modo.
La raggiunse sulle scale.
“Cos’è successo?” chiese, seguendola.
“Niente, te l’ho detto. Sono stanca” ribadì lei, in tono più duro, continuando a salire e tirando fuori, dal marsupio, le chiavi da casa mentre raggiungevano il pianerottolo. Louis si posizionò di fianco a lei, appoggiandosi al muro.
“Andiamo! Fino a qualche minuto fa eri fresca e riposata”
Juliet continuò a fissare la porta, armeggiando con le chiavi, senza voltarsi e tenendo la testa bassa.
“Ho voglia di stare da sola, va bene?” sbuffò scocciata, abbassando la maniglia.
 
Quando entrò in casa, Napoleon fu svelto ad infilare un piede in modo che non potesse chiudere la porta.  Frustrata lei lasciò perdere, dandogli le spalle e raggiungendo il divano.
“C’è qualche possibilità che tu te ne vada lasciandomi in pace?” mormorò sconsolata, limitandosi a voltare appena il capo, guardandolo di traverso.
Louis scosse la testa.
“No” sentenziò.
Lei sbuffò, raccogliendo le gambe vicino al petto e abbracciandole con le braccia. Non se ne sarebbe mai andato, di questo era sicura. Chiuse gli occhi maledicendosi. Era stata tutta colpa sua e adesso non aveva scappatoie. Deglutì, sforzandosi per l’ennesima volta da quando aveva lasciato il parco, di ricacciare indietro le lacrime e il nodo che le stava stringendo la gola.
“Mia mamma è morta quando avevo dodici anni” disse a bruciapelo, fissando il pavimento.
“Cazzo” fu l’unico commento di Louis.
“Giusto – commentò Juliet amaramente – avrei tanto voluto che fosse qui a giudicare i ragazzi con cui esco, credimi. Questo è anche il motivo per cui ho lasciato il Giappone appena ho potuto e non uso l’altro nome. Non sopportavo più di stare lì, ho voluto cancellare ogni legame da… troppi ricordi” mormorò, con un filo di voce, appoggiando la testa sulle ginocchia, sentendo qualche lacrima che le bagnava le ciglia, rotolando giù e rigando le guance.
Si vergognava da matti.
Primo per essersi lasciata andare così, soprattutto con Louis che l’avrebbe giudicata una ragazzina incapace, secondo per non riuscire ancora a gestire quei ricordi senza trasformarsi in una fontana e terzo perché era un’idiota e basta.
 
Napoleon non sapeva cosa dire. Non si era aspettato certo di sentire quelle cose e aveva capito il perché della sua reazione. Si sentì in colpa, pur sapendo di non averlo fatto apposta. Finora era stato lui quello triste o incazzato, vederla così gli faceva uno strano effetto, una sensazione che non voleva provare di dispiacere. Non sapeva cosa fare in quel momento, una pacca sulla spalla era fuori dubbio, idem abbracciarla. Si alzò, prese un bicchiere e lo riempì dopo aver aperto il frigo e preso qualcosa di fresco. Glielo portò.
“Tieni”
Lei accettò il bicchiere e dopo averlo vuotato se lo rigirò tra le mani, senza dire niente. Napoleon stette lì, con le mani nelle tasche della tuta, imbarazzato.
“Il tuo frigo è sempre così vuoto? Ti nutri di aria?” commentò, girandosi a guardare l’elettrodomestico in questione. Quello fece sorridere Juliet.
“Guarda dentro il freezer, è pieno di cose buone che vanno solo scongelate”
Lui fece una smorfia, fissandola dubbioso.
“E quello lo chiami cibo?”
Lei si strinse nelle spalle.
“Te l’ho detto che odio cucinare, quella roba è comodissima”
Portandosi teatralmente una mano alla fronte e scuotendo la testa, Louis riprese a parlare.
“Ho capito che, se non ti nutro io, altro che lavorare al PSG…” commentò, avvicinandosi alla porta per andarsene. L’aprì, appoggiò una mano sullo stipite e voltò la testa per guardarla.
“Ti aspetto stasera da me. Porta il vino, almeno quello lo sai comprare?”
Lei rimase perplessa per un momento, prima di annuire e accennare un sorriso.
“Credo di potercela fare a trovarne uno buono”
“Ti conviene” la minacciò il bomber, soddisfatto della sua reazione, chiudendo la porta e dirigendosi al proprio appartamento.
  
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