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Autore: Midnight the mad    28/10/2015    1 recensioni
Jimmy. 20 anni, un fallito. Questo è tutto ciò che c'è da sapere di lui. Almeno fino a quando non decide di andare via dalla città dove ha sempre abitato alla ricerca di... cosa? Neanche lui lo sa.
Ma quello che trova non se lo sarebbe mai aspettato: una periferia piena di parole, una ragazza con lo stesso nome della marjuana e soprattutto una persona senza nome, senza storia, senza vita.
"– Com’è che l’hai chiamata? –
Lei sorride. – Beh, non dice a nessuno il suo nome, tutti se lo chiedono. Dopo un po’, è diventato un soprannome. La cara, stronza, vecchia Whatsername. –"
". – Tu mi guardi e vedi un mistero. Vero? Vedi qualcuno senza storia, senza vita, senza nome. E pensi: “Oh, cavolo, c’è una ragazza capace di nascondere così tanto di se stessa. Stupefacente. Mi piacerebbe tanto capire quali sono la sua vera storia, la sua vera vita, il suo vero nome.” E invece sbagli. Perché c’è una cosa che non ti è mai passata per la testa, ed è che forse non c’è nessuna storia, Jimmy. Non c’è nessuna vita, e non c’è nessun nome. Per questo non riesci a vederli. Perché non esistono. –"
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jesus of Suburbia, St. Jimmy, Whatsername
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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St. Jimmy’s coming down across the alleyway, up on the boulevard like a zip gun on parade. 

 
- Che cazzo vorrebbe dire? –
Sorride. Quel sorriso che è più un ghigno con un’insensata sfumatura di mistero. – Beh, esattamente quello che ho detto. Sono l’ago-nella vena-dello spacciatore. – scandisce, come se servisse a qualcosa. Come se avesse un senso, quello che sta dicendo.
- Smettila. – sibilo. – Te l’ho detto, sono stanco. Stanco di te. Di tutte queste stronzate. –
Lei continua a sorridere. – No che non lo sei. Altrimenti te ne saresti già andato. – Si incupisce. Sospira. – Dio, sto esagerando sul serio. E’ che... non so. Non l’ho mai fatto. Di... raccontare questa roba. Sul serio. Non mi piace doverci pensare. Girarci intorno senza dirlo è sempre più facile. Di solito quando la gente lo fa qualcuno capisce. Tu però no, non capisci veramente un cazzo. E non so se è perché tu sei un idiota o perché io sono parecchio problematica, o perché ho sbagliato qualcosa, non mi riesce essere una poetessa maledetta senza essere anche troppo ermetica per essere capita. Ma comunque... – Inspira e poi butta fuori l’aria come se fosse fumo di sigaretta. – Beh, il punto è che... guardami. Tu sei lo spacciatore. E io sono l’ago che ti si infila in vena e ti inietta la droga, che ti sta facendo andare fuori di testa. Prova a negarlo, Jimmy. Guardami negli occhi e dimmi che non è vero. –
Resto in silenzio. Non c’è bisogno che confermi, sa già che ha ragione.
- Con lui... era lo stesso. E me ne rendevo conto, in qualche modo, ma pensavo che fosse una buona cosa. Pensavo di essere capace di dargli quello schiaffo che gli serviva per sputare un po’ di sangue marcio, tirarsi su e ricominciare a correre. E invece non ha funzionato. Lui è crollato. E si è ucciso. Non sono sicura che l’abbia fatto apposta, sai. L’abbiamo trovato morto dopo un’overdose. Probabilmente neanche ci pensava, che sarebbe morto, non ne era conscio, però probabilmente lo voleva lo stesso. E sai perché penso che sia andata così? Perché non ce l’aveva, il coraggio di uccidersi. Non era fatto così. Preferiva lasciarsi vivere, un po’ come te che invece che ammazzarti sei scappato, ma sei comunque rimasto in vita. Un sacco di volte le persone non hanno il coraggio di fare il grande passo. Idioti. Sarebbe tutto più facile. –
- Come fai ad accusare me se ancora non ti sei buttata, tu? – mi esce. – Certo, dici che è per loro, ma davvero dovrei crederci? Hai solo paura. –
- E di che? – chiede. – Jimmy, di cosa dovrei avere paura? Di cosa dovremmo avere paura, tutti quanti? C’è qualcosa? Perché io non lo vedo, non l’ho mai visto. –
- Non c’è... qualcosa. E’ solo umano. Avere paura di morire. –
- Un sacco di cose sono “umane” ma la gente non le fa. –
- Un esempio? –
Resta in silenzio. Sorride. – Hai ragione. – ammette. – E’ solo umano. Ma il punto è che io sono qui e che ci sarò anche domani e per un bel po’, probabilmente, e tu sarai morto piuttosto presto. Perché tu hai bisogno di aiuto e nessuno qui può darti una mano, perché ti servirebbe un’armatura, qui dentro o ovunque in questo mondo, ma non ce l’hai. –
- Stai continuando a fare giri di parole. – dico, sapendo di apparire freddo. Ma non lo sono. Mi sembra di stare andando a fuoco. Non è solo rabbia, è anche stanchezza. Sono stanco, stanco di sentire parole vuote. E’ davvero pazza, forse. Oppure no. Forse il problema sono io.
- Ok. – sbotta, all’improvviso. Sembra furiosa, adesso. Ma perché? – Ecco. Vuoi sapere la storia? La avrai. Non è niente di speciale. Ma se è questo che vuoi, se pensi che possa cambiarti la vita, allora va bene. C’era una volta un ragazzo. Era un gran figlio di puttana e non aveva un fottuto scopo nella vita, ed era depresso. Però aveva qualcosa, una specie di fascino. Era bravo a suonare il pianoforte. Aveva questa cosa, questo talento per la musica, che era assurdo e bellissimo. E poi c’era una ragazzina di diciassette anni, che in realtà non li ha mai avuti, diciassette anni. Ne ha sempre avuti una quarantina almeno e contemporaneamente quattro o cinque, quell’età che sei incosciente ma capisci qualcosa di quello che ti succede intorno. Ecco, quella ragazzina un giorno trovò il pianista svenuto in un bagno pubblico che rischiava di soffocare nel suo vomito. Lo tirò fuori e quando si riprese gli offrì un caffè. Andarono a letto insieme e lui suonò per lei e lei gli disse che era un coglione, gli chiese perché non suonasse di più e non pensasse un po’ meno. E lui sorrise e poi iniziò a farsi un sacco di droga perché così avrebbe smesso di pensare. Lei spacciava, lo fa ancora. In quel momento non era messa bene come adesso, però aveva un suo ruolo. Sai, quando ti invischiano in queste cose da giovane poi è tutto facile, o difficile, a seconda dei punti di vista. Basta avere un po’ di grinta e prendere in mano le cose. – Deglutisce. – I due fecero una vita folle. Viaggi in macchina e aria nei polmoni e bottiglie di roba scadente e un paio di siringhe. Si svegliavano la mattina e non sapevano che giorno era. Lui iniziò a dare i numeri. Suonava bene come non mai. – Prende un respiro. – La differenza tra lui e la ragazza era una sola, in realtà. Sai, ci sono persone che sanno essere un po’ distaccate dalla vita. Non troppo, eh. Solo che, se tutto quello che le ha sorrette fino a quel momento crolla, scrollano le spalle e vanno avanti.  La ragazzina era così. Era tutto un grande gioco, per lei. Il lavoro, la droga, i momenti folli. Prima o poi sarebbe morta e sarebbe finito tutto, e allora non se ne sarebbe potuta dispiacere, no? Tutto quello che voleva la ragazza era non stare male, perché soffrire fa un po’ schifo. Del resto in realtà non le importava. La vita era... un suo capriccio. Ma il pianista era diverso. Il pianista invece la vita se la sentiva addosso fin troppo, che lo soffocava, perché non riusciva a capire che non ha alcun senso prendersela, che l’esistenza è fine a se stessa e che, alla fine, chi se ne importa. Non riusciva a prendere le cose con la giusta leggerezza. Lo urtavano, lo facevano a pezzi. Gli unici momenti in cui si sentiva bene era quando faceva follie con la ragazzina. Ma quelle follie non potevano durare per sempre, e iniziarono a non bastargli più, e allora si uccise. – Non ha cambiato espressione dall’inizio del racconto a ora. Non riesco a staccarle gli occhi di dosso, porca miseria. – La ragazzina sopravvisse perché, come ho detto, era distaccata dalla vita abbastanza da riuscirci. Ma ti rivelo un segreto. C’era qualcosa, ora, che aveva iniziato a diventare essenziale per lei. Ed era il pianista. Quello stupido pianista. Perciò sopravvisse, sì, ma non fu così semplice. Adesso un sacco di gente chiama la ragazzina Whatsername, e solo tre persone in questo posto sanno del pianista. – Sorride. – Ecco. E’ finita. Ecco come ho avvelenato quella testa di cazzo fino a farlo impazzire, morire. Ero il suo viso allo specchio, solo diversa, più menefreghista, quasi divina, perché non li percepivo, i peccati, non mi pesavano, perché niente di terreno mi toccava, in una stupida visione onirica di tutto questo. Ero santa perché i peccati, per me, non esistevano affatto. – Sorride. – La sua santa allo specchio. Ecco qui, Jimmy. Ecco la storia. Non è niente di che, vero? Chissà cosa ti aspettavi. –
Resto in silenzio. “Niente di che”. Eppure io mi sento come se mi avesse preso a pugni, come se la verità me l’avesse sputata in faccia e adesso fosse lì a soffocarmi. Dovrei dire qualcosa, qualcosa per risponderle, ma l’unica cosa che mi esce è: – Tu sei... sei pazza. –
Scrolla le spalle. – Forse. E’ solo che... insomma, immagino che anche questo sia una specie di contorto istinto di conservazione. Evitare che le cose ti tocchino sul serio per evitare di soffrire. Prendere solo il lato... bello, il lato sopportabile. Ignorare i cartelli di stop perché sono dei limiti, finché non finisci giù dal dirupo e allora è troppo tardi per preoccuparsene. Non è troppo male, Jimmy. Solo che la gente non ci riesce. La gente vive tutto troppo intensamente e poi il tutto la distrugge. –
- Ti rendi conto che non c’è niente di vero in quello che fai, in quello che vivi, se la vivi così? – mormoro.
Whatsername sorride di nuovo. Ha gli occhi lucidi. – Ci riuscissi ancora, a viverla così. Ti giuro, sarebbe molto, molto meglio. Ma poi ci sono quelle persone che ti si infilano dentro e ti ancorano alla vita e soprattutto alla loro, di vita, e quando si ammazzano è finita, punto, stop, un mucchio di dolore, ma tu non muori. Tu resti e non ce la fai a buttarti perché improvvisamente hai paura. Hai mai pensato a quanto è assurdo? Se ami la vita hai paura di morire, ma ce l’hai anche se... anche se la odi. Perché non vuoi che finisca tutto prima che tu sia riuscito ad essere felice. Provare qualcosa nei confronti della vita ti frega, e in realtà dovresti solo ignorarla, cazzo, ma a volte semplicemente non ce la fai quanto vorresti. Io non ce la faccio quanto vorrei. Ma penso proprio che se succedesse tutto da capo, se la storia del pianista si ripetesse con te al posto del pianista, alla fine quello che muore saresti comunque tu. E non voglio, Jimmy. Non perché mi importi sul serio di te, ma perché probabilmente mi innamorerei, qualsiasi cosa voglia dire. E farebbe male, e più farà male meno riuscirò a sopportare l’idea di morire. Non so se sia così per tutti. Ma io sono così. Ti basta, adesso? – Sta piangendo, ma sorride. – Se ti chiedessi di buttarmi di sotto, lo faresti? –
- Non ha senso. –
Mi guarda. – Cosa? –
- Tutto. Tu dici... che non puoi ucciderti perché altrimenti tutti quelli della Suburbia sarebbero abbandonati a se stessi e sarebbero solo parte di questa stupida città morta. Eppure tu pensi che vivere non abbia senso. Quindi il tuo discorso non ha né capo né coda, porca miseria. –
Scuote lentamente la testa. – Non ho detto che vivere non ha senso. Accidenti, è sempre difficile da spiegare. Senti... la vita ti può ferire in tanti modi. Ti può uccidere sul serio, oppure ti può uccidere dentro. Tu puoi... lasciarti vivere. Soffocare lentamente. Proprio come faceva inizialmente il pianista. Poi ha assaggiato l’amore o qualsiasi cosa fosse, e ha deciso che non valeva la pena farsi schiacciare, e visto che non era abbastanza forte per resistere, si è ammazzato sul serio. Se invece ti stacchi dalla vita abbastanza da riuscire a respirare, allora non può ucciderti dentro. Non può ucciderti l’anima. –
- Che cazzo è l’anima se non soffre? –
Sorride di nuovo. – Un’anima piuttosto a posto con se stessa, che dici? –
- Il fatto che sia tutto un gioco. E’ crudele, Whatsername. E’ sbagliato. –
- Perché? Perché è immorale? – sbotta. – Quante cose immorali fai, ogni giorno? Elencale! –
- Non è l’immoralità il problema! – Sto quasi urlando. – E’ che... non c’è niente di vero. Se non ti resta nulla di tutto quello che fai, allora a che serve restare vivi? –
Whatsername sospira. – E allora cosa è meglio? Restare vivi soffrendo? –
- Potresti semplicemente essere felice. Felice sul serio. –
Ride. – Sai, c’è una cosa che ho imparato piuttosto bene, col tempo. Ed è che tutto passa, Jimmy. La felicità passa. E se ti resta il ricordo, mentre stai male, è anche peggio che non ricordare affatto. –
- E se tutto passa perché non dovrebbe passare anche il dolore? E’ un ciclo. –
- Un ciclo stupido. Io vorrei che non ci fosse e basta, il dolore, e che cazzo. E non c’era. E adesso c’è, ed è perché per un po’ senza neanche rendermene conto ho vissuto la mia vita invece che guardarla da lontano e ridere di quello che succedeva. Puoi davvero biasimarmi, Jimmy? Perché io non credo. –
- E cosa ci guadagni, ora come ora? Mi sembra che tu stia male comunque. –
- Ti ho già detto perché non riesco a uccidermi. E ti ho anche detto perché non voglio farlo. Che altro c’è da dire? –
- Forse che, visto che non riesci a morire perché odi la vita, allora, non riuscire per non riuscire, potresti amarla. Almeno un po’. –
- Ma io non voglio! Non ha alcun senso! E non c’è niente, niente che io riuscirei ad amare, cazzo, ora che lui è morto. –
- Non è vero. – mi esce. – Secondo me tu li ami. Loro. Tutti quelli della Suburbia. Però li invidi. Perché insomma, loro sono molto più forti di te. Loro sanno sopportare il dolore, invece che scappare e basta. –
Non reagisce.
- E poi hai detto una cosa, prima. – aggiungo. Non so perché lo sto facendo. Forse perché tutto questo non ha senso. Perché voglio dimostrarle che ha torto. O forse perché io non so essere distaccato e non sono abbastanza forte da evitare di essere schiacciato, e quindi mi resta una sola opzione.
- Cosa? – chiede. Ha lo sguardo puntato verso l’orizzonte, ed è come se fosse lontana, lontana duemila anni luce, come dice quella canzone dei Green Day.
Cerco di non esitare. Ingoio aria, e dico: - Tu hai detto che se succedesse tutto da capo ti innamoreresti di me. –
  
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