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Autore: albelia    05/11/2015    0 recensioni
Un personaggio surreale che si muove in un mondo ancor più surreale; l'incontro con una locanda buia e polverosa abitata da persone strane e contorte; l'inizio di un viaggio che lo porterà in tempi e luoghi lontani...tutto nel ricordo di un antico amore perduto.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era una giornata come tante altre. anche la città, anche la città era come tante altre. tutti erano tristemente sprofondati in un senso di banalità e monotonia assurdo. non vedevo volti, ma solo cappelli sospesi, scarpe animate da demoni silenti che si spostavano saltellando qua e là, biciclette che si trascinavano lontano con stridore di freni, occhiali strabici che riflettevano il sole. mi muovo in mezzo alla folla di oggetti magici e cadaveri cospiratori, i pali della luce sorridono al mio passaggio e le colonne smangiate dei portici si inchinano. è tutto così chiaro e confuso, così confusamente chiaro o chiaramente confuso. non saprei dire. non mi ricordo in che modo sono arrivato fino qui, ma ai fini della storia non penso abbia una grande importanza. mi ricordo solo di stracci di frasi, tovaglioli di discussioni usate, un "devi andartene di qui", "non possiamo più vederci", "non puoi più vederci", "non posso più vederti". non so se quel rossetto parlante si stesse riferendo a una qualche storia d'amore passata, qualche casa diroccata in cui avevamo trascorso una parte dimenticabile della nostra vita, magari un figlio o due in comune. non saprei dire. oltre al rossetto mi ricordo una camicia di un colore acceso, una collana di perle, una gran calma apparente. a pensarci bene, ecco che appare un occhio affetto da strabismo di venere, di uno sfavillante e sconvolgente azzurro cupo. ecco, ecco cosa ho sempre amato di lei. gliel'ho sempre detto, in fondo. "di te amo gli occhi". e lei, maliziosa, "solo gli occhi?". e io, ingenuo e troppo sincero, "è la sola cosa bella che hai, se permetti". e lei, scagliando in aria tavolini e cuscini appena rammendati, mi urlava che dovevo sempre rovinare tutto, "con questa tua assurda e scocciante mania della verità. a nessuno importa della verità, a nessuno al mondo". ecco, su questo punto mi aveva un po' sconvolto. ero stato cresciuto con certi valori, se così si può dire. qualsiasi cosa siano, questi valori, io ne ero a conoscenza e ne ero soprattutto proprietario. nell'elenco, la parola 'sincerità' era sempre presente. stretta in mezzo, non so, a 'pulizia', 'puntualità', 'lealtà'. mio papà me lo diceva sempre. era un tipo come si deve, mio papà, un tipo rispettabile. tutti lo guardavano con deferenza, gli parlavano con rispetto. era un uomo importante, "un uomo di governo", diceva la mamma. e cosa fosse mai, essere un 'uomo di governo' nessuno me lo ha mai spiegato. solo una volta, Rossana, mi disse qualcosa in proposito. Rossana lavorava in casa nostra, in casa dei miei genitori. si occupava di me, della casa, delle finestre macchiate di pioggia. con me si comportava bene, mi faceva un sacco di moine, mi parlava del suo paese e del suo grande amore perduto, un certo Maximilien, un francese, un soldato. "dovevi proprio vederlo, dovevi proprio. un ragazzo bello come lui, non si è mai più visto nell'intera Europa occidentale. me lo invidiavano tutte. tutte, ti dico. si chiedevano che cosa ci facesse uno bello come lui con una come me. lo vedi da te, caro mio, che io non sono affatto bella. affatto". a pensarci a posteriori, forse mi diceva tutte queste cose per sentirsi dire che non era vero, che non era vero per niente, che lei era bellissima, che doveva solo annaffiare un po' la sua autostima appassita. ma all'epoca avevo solo nove, dieci, undici anni. non sapevo come ci si comporta come una donna (non che lo sappia adesso, sia chiaro). quindi rimanevo imbambolato a guardarla, a perdermi nei suoi capelli di paglia fina e secca, al suo seno ingombrante. ecco, il bello di lei era proprio il seno. avrei tanto voluto toccarlo. ma non l'ho mai fatto. se mio papà avesse saputo una cosa simile! figuriamoci! ma appunto, tornando a mio papà. tornando a Rossana che mi parla di lui. dopo aver chiuso la storia del suo Maximilien, che era partito per la Russia e nessuno l'aveva mai più visto, aveva accennato qualcosa a questo misterioso lavoro. "che cosa fa tuo papà?" mi avevano chiesto i suoi occhi scuri. "ebbene, tuo papà fa parte di quel gruppo di persone fortunate che si tengono tutto per sè senza dare niente agli altri. affama la povera gente, ecco cosa. mentre lui e la sua famiglia, quindi anche tu, non guardarmi così, vivono nel lusso. un gran delinquente, ecco cos'è". dopo quella conversazione, che Rossana mi lanciò addosso con disprezzo e di cui io non capii un bel nulla, le cose per lei si misero male. l'ho già detto, avevo nemmeno dieci anni, non sapevo ancora come dovesse andare il mondo. non sapevo che quelle cose fossero 'riservate', che non avrei mai dovuto ripeterle ad anima viva. Rossana non mi fece raccomandazioni di nessun genere (chissà se le cose sarebbero andate diversamente, se lei mi avesse detto di starmene zitto e dimenticarmi di tutta la faccenda), da parte sua. quindi una sera, a cena, me lo ricordo come se fosse adesso. fuori nevicava. una nevicata leggera e impalpabile, uno sfarfallio nel buio della sera, sul nostro giardino trascurato (come tutto il resto, come anche me), sugli scalini, sulla casetta degli attrezzi. papà stava raccontando qualcosa alla mamma, io mi facevo gli affari miei costruendo un pupazzo di neve con la mollica del pane. questo, dopo un po', attirò l'attenzione dei miei genitori. mia madre mi rivolse uno sguardo di stupita curiosità, con quell'espressione che ricordo così bene, che le ho visto così tante volte quando si rivolgeva a me. gli occhi leggermente sbarrati, le labbra leggermente socchiuse e a forma di O, le sopracciglia leggermente inarcate. stupita curiosità, appunto. ho sempre pensato di non starle molto simpatico, di esserle piuttosto indifferente in realtà. era come se si ricordasse di me solo quando mi aveva sotto gli occhi. per il resto, vivevamo due vite completamente separate. se la cosa mi facesse stare male, da piccolo, non saprei dire. non credo di essere mai "stato male" per qualcosa o qualcuno. fa parte di me. da sempre e per sempre. in quel momento mi aveva osservato come per dire "toh, chi si vede. questo bambino era proprio l'ultima cosa che mi sarei aspettata di vedere stasera a tavola. qualcuno sa dirmi, di grazia, come ci è arrivato? e chi l'ha fatto entrare?". mio papà, dal canto suo, di me si ricordava sempre fin troppo bene. non faceva altro che rimproverarmi per niente. mi faceva sempre sentire abbastanza fuori posto. in quel momento mi incenerì con uno sguardo, credetti quasi di vedere i suoi baffi fremere dall'indignazione per quelli che non esitò a definire 'giochi puerili'. disse proprio così: "guarda te se io devo avere un figlio che rovina il cibo con questi suoi giochi puerili". io non ero abituato a rispondergli, solitamente me ne stavo zitto a testa china, pensando agli affari miei. ma quella sera ero così sorpreso da quella frase, che non potei trattenermi: io non stavo facendo niente di male, proprio niente di male. e poi, non era forse lui a dirmi che dovevo sviluppare le mie doti artistiche (o almeno, provare a cercarle nei ritagli di tempo)? quindi, candidamente, gli risposi "papà, tu affami la gente. sei un gran delinquente". non mi era chiaro il significato di quelle parole. non ne avevo che una vaga, vaghissima idea. a pensarci ora, ricordo che mi ero ripetuto quelle parole nel letto dopo la chiacchierata con Rossana. me le ero arrotolate sulla lingua. avevano un bel suono. mi piacevano. soprattutto 'affamare'. mi dava l'idea di un leone sparuto e smagrito nel deserto, che mendicava un ossicino di gazzella da un leone maestoso e bellissimo poco lontano. fu come se l'aria si ghiacciasse. Artù, il cameriere, si fermò con le posate del secondo piatto a mezz'aria. non mi guardò e non diede segno di avermi sentito, ma aveva arricciato il naso e aveva aspettato che scoppiasse la tempesta. "che cosa hai detto?" aveva balbettato mia mamma, tutta arrossita. l'angolo destro della bocca era lievemente arricciato, come il naso di Artù. pensai di aver detto una cosa divertente, e che lei non vedesse l'ora di scoppiare a ridere. "ho detto che papà è un gran delinquente!" ripetei tutto felice. fu un attimo. mio padre si alzò, venne verso di me e mi tirò uno schiaffo. "non osare mai più dire una cosa simile, piccolo disgraziato!" mi urlò. mi arrivarono due sputi. uno sul naso e uno sulla guancia sinistra. ci rimasi molto male. davvero molto male. anche perché non aveva mai fatto una cosa del genere, almeno non con me. sforzando un po' la memoria, riesco a tornare a un'assolata mattina di aprile, una domenica. eravamo usciti tutti e tre, mamma papà ed io, cosa rarissima a dir poco, e lui aveva sbraitato a un mendicante di lasciarci passare e di non importunare sua moglie. che, se avesse osato continuare o seguirli, avrebbe chiamato le forze dell'ordine e lo avrebbe fatto gettare in prigione. probabilmente avevo assunto la stessa espressione attonita e spaventata di quel mendicante. anche mia mamma si era alzata, aveva posato una mano aggraziata sulla spalla di papà e aveva detto "non esagerare, caro. il bambino non ne può nulla. probabilmente lo ha sentito dire da qualcuno e lo ha ripetuto. non sa nemmeno cosa vuol dire. non è così, caro?", e io mi ero affrettato ad annuire. poi, senza pensarci, dissi che me l'aveva detto Rossana. papà mi aveva dato un buffetto sulla guancia ancora dolorante, e aveva borbottato "farò finta che non sia successo niente". senza chiedermi scusa, senza chiedermi scusa. io non avevo più toccato cibo e la sera, a letto, mi ero convinto di non essere più un bambino con dei genitori. fu forse quella la notte in cui cominciai a considerarmi un orfano. e il giorno dopo, Rossana era sparita. sparita, sparita nel nulla. nella mia immensa ingenuità non collegai le due cose. mi dissero che aveva dovuto partire per il suo paese. pensai che fosse tornato Maximilien dalla Russia, e che lei stesse correndo da lui. mi sentii felice per lei. poi molto triste, perché non questo avrebbe significato non vederla mai più. a lungo sperai di ricevere una sua lettera, magari un invito ad andarla a trovare, una foto dei suoi bellissimi figli metà francesi. ma di lei non seppi mai più nulla. fu sostituita da una signora arcigna che mi appariva terribilmente vecchia. probabilmente non doveva avere più di quarant'anni. era secca secca, piatta come una tavola e vestita sempre di grigio. i capelli di paglia di Rossana furono sostituiti da uno chignon strettissimo color ferro che le tirava sulle tempie e le faceva sembrare gli occhi da cinese. aveva l'alito cattivo e non mi chiamava mai per nome. mi dava anche lezioni: il martedì pomeriggio, pianoforte. il venerdì dopocena, matematica e geometria. se ci penso ora, mi viene proprio da pensare che fosse il personaggio cattivo di un libro ambientato nelle piovose campagne inglesi. proprio così. un maledettissimo stereotipo che mi riempiva di scapellotti se non risolvevo il problema nella maniera corretta o se sbagliavo un accordo. anche lei non durò molto in casa, comunque. nemmeno un anno dopo diede le sue dimissioni. in una serata tempestosa come il suo vestito. a quel punto, i miei pensarono che fosse finito il tempo di una balia per me (e pensare che io non ne ero nemmeno al corrente! di avere una balia, intendo), perciò mi lasciarono a me stesso. mia madre continuò con quelle che mio papà definiva "frivole mondanità"; mio papà continuò a fare del suo meglio per affamare tutte le persone possibili. e io crescevo in un mondo sterile e solitario. fu forse questa, la storia che propinai a quel rossetto opaco. ma niente, lui non volle starmi a sentire. "non mi interessano i racconti tragici di un'infanzia infelice. sei un maledetto bastardo, e niente di quello che mi dirai potrà farmi cambiare idea. maledetto bastardo. maledetto bastardo!" mi aveva ripetuto spingendomi in strada. i passanti ci vedevano e mi indicavano, sorridevano sotto i baffi. avevo radunato le mie poche cose, i miei vestiti sparsi per il marciapiede, la mia valigia vecchissima, le mie scarpe, e me ne ero andato per la mia strada. se avessi guardato in su, forse avrei visto due bambini magri che mi guardavano anch'essi con stupita curiosità. "chissà papà dove sta andando", "chissà se torna". ma no, non mi ricordai di guardare su. non mi ricordai di loro, o non volli ricordarmi. me ne sono andato.
   
 
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