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Autore: Koa__    17/11/2015    2 recensioni
Un cadavere scomparso. Un fazzolettino ricamato e sul quale una mano ignota ha scritto una strana filastrocca. Una copia del libro: "Il giardino segreto" vecchia di anni, recante diciture confuse e incomprensibili. Misteriosi personaggi dai segreti inconfessabili, si muovono in un minuscolo paesino dello Yorkshire. In tutto questo, Sherlock Holmes, venuto assieme al suo fidato amico John Watson per far luce su di un curioso mistero, si comporta in una maniera assai strana.
[Blandamente ispirata al romanzo di Frances Hodgson Burnett: "Il giardino segreto"]
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Racconti di un giardino segreto'
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Capitolo diciannovesimo 
 

 


Geremia Cooper non dava di sé l’impressione d’esser seduto comodamente. Era sì accomodato a una delle sedie, ma ammanettato com’era alla gamba del tavolo, l’immagine che se ne aveva di lui era quella di un uomo ritorto su sé stesso. Chino e curvo, quasi il peso dei propri peccati avesse iniziato a gravargli anche sulle spalle oltre che sull’anima. Faceva una qual certa impressione a vedersi, soprattutto per via del fatto che era notevolmente alto e piuttosto massiccio, con le spalle larghe e i muscoli delle braccia gonfi che s’intravedevano sotto al maglione che portava. Se si soffermava a osservarlo con una punta in più di attenzione, però, John non faceva caso poi tanto agli occhi sbarrati e spauriti o anche alla bocca tesa in un ghigno poco rassicurante. Non badava alla paura che ormai divorava lo sguardo dell’uomo che per anni si era finto un mite prete di campagna, al contrario, la sua mente parve voler tornare indietro fino a qualche giorno prima. Per una stranissima ragione, si era ritrovò ad associare Geremia Cooper al bacio che aveva dato a Sherlock. Non ne conosceva i motivi di fondo, ma forse aveva a che vedere col fatto che era successo fuori dalla chiesa. Avevano da poco terminato di parlare con colui che ancora chiamavano padre Timothy quando, finalmente, era riuscito a racimolare quel poco di coraggio che gli era rimasto e s’era fatto avanti. Ancora ricordava la sensazione: quando lo stordimento per il racconto pronunciato dal parroco si era trasformato in qualcosa di ben più spaventoso, risvegliando un desiderio sopito e trattenuto sin troppo a lungo. Il bacio era stato breve e a malapena ricordava quale sapore avessero le sue labbra, però ne aveva ben chiara la morbidezza, piuttosto che l’intenso respirare di Sherlock che gli si era infranto addosso. Quanto avrebbe voluto baciarlo ancora e non riusciva a calcolare fino a che punto desiderasse d'afferrarlo saldamente per le braccia, prima di spingerlo contro la parete e da lì, non permettere più a entrambi di fuggire. Forse era ingiusto lasciarsi distrarre, pensò in un frangente di lucidità e proprio mentre il suo sguardo si posava di nuovo su Geremia. Amava Sherlock in tutte le sue declinazioni, in tutti i suoi difetti e persino in quegli oscuri pensieri che soventemente gli adombravano lo sguardo. Ciononostante, doveva riconoscere che vederlo al lavoro o scorgerlo mentre pensava, deduceva o imperava in quella che di certo considerava come una massa di inetti senza cervello, era ancor più affascinante. E pertanto sollevò il volto, distogliendo gli occhi da quel Mr Cooper dall’aria sofferta, dopodiché portò l’attenzione sino a colui il quale, ora in piedi, passeggiava tenendo le dita intrecciate dietro la schiena. Un fare sagace, sottolineato da un paio di iridi dall'aria furba. Il non aver idea da quale parte cominciare, rimarcato da quelle labbra corrucciate. Erano ben chiari segni che stavano a indicare quanto svelti e rapidi fossero i pensieri di Sherlock Holmes. E mentre Watson si rendeva conto che il suo amico stava racimolando le idee, egli prese a iniziare quel monologo che da giorni preparava, dando vita a quello che era l’ultimo atto d’una trama di menzogne.

«Io non ho ucciso nessuno!» Fu Geremia a spezzare il silenzio, rompendo gli indugi e riversando su Holmes quella che tutti, e Watson per primo, avevano inteso come un’accusa. Nonostante lui sapesse perfettamente chi fosse l’assassino, doveva ammettere che le parole di Sherlock le aveva trovate lievemente fuorvianti. Probabilmente se si fosse trovato nei panni di quell’uomo, con già un’altra accusa di omicidio a gravargli sulle spalle, avrebbe tentato ben altro che una timida difesa. Ma lui era il passionale John Watson, non sarebbe riuscito per così tanto tempo a fingere di esser qualcuno che non era. Avrebbe di certo finito con il farsi scoprire, in un modo o in un altro.
«E io non la sto accusando, Mr Cooper» ribatté prontamente Sherlock, mentre il Ford s’irrigidiva vistosamente e balzava di nuovo in piedi, inveendogli contro in modo sgraziato.
«Mi può spiegare come mai ho dovuto portare fin qui un detenuto ancora sotto inchiesta?» sputò un furioso Detective Ispettore. «Faccia attenzione, Holmes, se non darà una giustificazione alla presenza Cooper, lo porterò via prima di subito e non mi importa di chi è figlio lei. Può essere anche il principe di Windsor, ma per quel che mi riguarda ho chiuso. Sono stanco di sottostare ai suoi ordini. Io sono un DI della polizia britannica e potrei anche sbattervi dentro, a lei al suo amico. Non dovrei nemmeno far fatica per trovare un’accusa: violazione di domicilio, sequestro di persona, minacce a pubblico ufficiale… e posso continuare.»
«Si tranquillizzi» ribatté Holmes, prontamente e senza mostrare alcun timore o soggezione. In un atteggiamento che John trovava ancor oggi ammirevole e, in parte, persino divertente. Amava il modo in cui Sherlock fronteggiava le autorità. Non si prostrava loro come avrebbe fatto un qualcuno desideroso di potere o denaro, al contrario affrontava chiunque senza paura. Perché non era interessato ai soldi o a una qualche carica, tutto ciò che gli pareva importare era di quel suo cervello stupendo o del soddisfacimento del proprio ego. E John sarebbe rimasto per tutta la vita a venerarlo, anche costo d'alimentare la sua ben nota vanità.
«Geremia è qui per un motivo» proseguì Sherlock, distraendo il dottore da quelli che erano i soliti e dispersivi pensierini. «Di cui parlerò immediatamente, se me ne darà il tempo» riprese, mostrandosi ora un poco più seccato. «Ho detto che voglio iniziare da Mr Cooper perché anche lui, così come molti altri in questa stanza, è a conoscenza di una certa verità.» Nel sentire quella rivelazione, Watson sogghignò appena, ma con una punta lieve di rammarico a invadergli le idee. Era ben conscio del fatto che il conoscere già la verità, gli faceva perdere buona parte di quella speciale magia che circondava Holmes in momenti del genere. Era come se stesse assistendo a una prima teatrale, con un unico attore a invadere il palco che recitava un testo di cui nessuno conosceva i contorni. Fu per questo che nei successivi minuti si premurò ugualmente di sondare le espressioni dei presenti, invece che far caso a quanto Sherlock stesse dicendo. I comportamenti dei possibili colpevoli erano di gran lunga più interessanti, a cominciare dal fare rassegnato e sereno di Duncan Finnegan, fino a incontrare l’evidente e distruttiva devastazione di Mary Jane Gilmore. Colei che aveva tutta l’aria di chi le era crollato il mondo addosso.
«Prima di spiegarvi quale sia la ragione della presenza di Geremia, però» proseguì Sherlock «devo fare una premessa.»
«Un’altra lezioncina delle sue, Holmes?» domandò Ford, in modo sprezzante mentre Sherlock, di nuovo, lo ignorava. Watson si ritrovò a star stringendo la mano a pugno e a prendere profondi respiri, come se tentasse di calmarsi. Adesso era John quello che doveva far di tutto pur di ignorare certi atteggiamenti, già perché nulla voleva al momento se non zittire quel dannato Ford una volta per sempre. Sebbene avesse accettato la sua idiozia e ignoranza, oltre che a un comportamento arrogante e saccente, non poteva tollerare che qualcuno offendesse o prendesse in giro Sherlock. Per fortuna, l’uomo che amava pareva del tutto superiore a taluni atteggiamenti e aveva le spalle decisamente più larghe di quanto John non volesse ammettere. Probabilmente per una triste abitudine a esser offeso, si rese conto intristendosi un poco, in una concatenazione di pensieri e idee che stava diventando pericolosamente incontrollabile. Chissà quanti altri Detective Ford, Sherlock aveva incontrato in tutta la sua vita. E proprio mentre formulava le immagini di un piccolo Holmes indifeso che subiva ingiurie e angherie da parte di qualche bullo, dovette far forza su sé stesso e trattenere l’istinto di abbracciarlo, piuttosto che quello di portarlo via, lontano da ognuno di quegli sconosciuti.
«Geremia Cooper non è un prete» lo sentì dire, decidendosi in quegli attimi e una volta per tutte, a non badare a nient’altro. «Nonostante questo, però, trovo strabilianti molti dei fatti che lo riguardano. Perché, farsa a parte, ritengo che abbia interpretato il ruolo come il migliore degli attori non sarebbe stato in grado di fare. Lui ha fatto di più: si è identificato così tanto con il suo personaggio, che ha finito col credere davvero di essere un parroco di campagna. La deduzione è elementare e basta dare un’occhiata alla chiesa per capirlo. Geremia svolgeva i propri compiti con estrema solerzia e precisione. Ve ne sarete accorti tutti, mi auguro. I pavimenti venivano puliti regolarmente, le panche lucidate con una cera apposita per il legno, candele e ceri erano sempre cambiati e la statua vota al santo, non mostra nemmeno adesso cenni di decadimento o incuria. Persino il sagrato veniva spazzato tutte le mattine. Ma non è tutto, Geremia teneva il catechismo per i bambini e si occupava degli sposi anche dopo le nozze diventando il loro maggior confidente. Stando alle voci di paese, inoltre, le sue prediche sono sempre state molto sentite. Per questo nessuno ha mai dubitato del fatto che potesse trattarsi di un impostore. Geremia, per tutti questi anni, si è comportato come il parroco che non era.»
«E allora?» chiese Ford, meditabondo ed in parte rabbonito da acidità e rabbia che mostrava soltanto in un accenno leggero. Quasi volesse dare l’impressione d’essere ancora il cane rabbioso di sempre, ma stesse venendo sopraffatto un vivo e bruciante desiderio di sapere quale fosse la verità.
«In questo mistero tutto è collegato, Ispettore. Un uomo che non è prete ma che finge di essere tale è il custode di un segreto che si rifiuta di confessare. Si tratta dello stesso motivo per cui sono riuscito a trovare l’assassino e per cui ho capito chi era stato a mandare a Mary Jane quel fazzolettino ricamato. Come ho detto: tutto perfettamente collegato.»
«In quale modo?» domandò John, lasciandosi cadere su una delle sedie e appoggiando il mento al pugno chiuso, mentre faceva sì che Sherlock potesse guardarlo per bene negli occhi. Amava il contatto visivo e più d’ogni altra cosa lo amava ora, adesso che entrambi sapevano cosa provavano uno per l’altro. Guardarlo era un po’ come vivere, pensò John. Vivere di quegli zigomi ora arrossati. Vivere delle iridi azzurre che, ancora e testarde, cercavano una via di fuga trovandola in quel mistero intricato e dai contorni nebulosi. Sorrise, Watson e lo fece sinceramente. Lo fece perché addolcito dalla timidezza sfacciata del suo Holmes.
«Essendo la calligrafia maschile, ho dovuto escludere per forza di cose già molti dei sospettati. Considerati le mie teorie sull’assassino, Duncan era il solo che avrebbe potuto scrivere il messaggio dato che l’unico che ne poteva essere a conoscenza, era obbligato a tacere dal segreto confessionale. Ma poi, Timothy è diventato Geremia e ho creduto per un momento che qualcosa nelle mie teorie potesse rivelarsi sbagliato. Così non è stato» gli rispose Sherlock, con voce lievemente arrochita. «Perché un prete sa sempre, giusto Mr Cooper? Sa, ma rimane zitto perché ha fatto un giuramento che non può non mantenere. Mi dica se sbaglio, ma dopo che Duncan Finnegan ha iniziato a sentirsi oppresso dai sensi di colpa, è venuto a confessarsi dalla sola persona che avrebbe potuto mantenere il segreto, è venuto da lei. Di questo però non ci importa, ci interessa soltanto che la stessa identica cosa l'aveva fatta Jane Gilmore, tempo fa, raccontando al parroco la sua vita per filo e per segno. Lei, Geremia, ha taciuto sempre e non ha detto mai nulla. Tanto che anche quando mi ha raccontato la storia di Jane, ha omesso dei particolari fondamentali. Gli stessi che Jane le aveva fatto giurare di non dire ad anima viva. Gli stessi che hanno portato a ben due omicidi e che hanno spinto Amelia Finnegan a rubare il cadavere. Vuole raccontarla lei, Geremia, la storia di Jane Gilmore? O si rifiuta ancora di parlare?»
«Io» iniziò a dire questi, per poi interrompersi e scrollare vistosamente il capo in un evidente cenno di rifiuto. «Non posso spezzare quel giuramento.»
«Ma lei non ha preso i voti e non è tenuto a rispettare il segreto della confessione» precisò Holmes, con fare sagace.
«Questo non importa» ribatté Geremia, con decisione «io… è vero: ho avuto una vita tutt’altro che morigerata. Dio solo sa se riuscirò mai a perdonare me stesso per ciò che sono stato costretto a fare quando vivevo in Siberia. Per questo volevo lasciarmi il passato alle spalle e nessuno meglio di Tim poteva aiutarmi, ma poi quel dannato incidente ha cambiato tutto.»
«E lei si è ritrovato a poter davvero cambiare vita» ribatté Sherlock, annuendo con vigore.
«In questo modo nessuno mi avrebbe mai più trovato. Nemmeno mi dispiaceva, sa? Amavo fare il parroco. Lo amavo davvero. Avevo dei doveri e degli obblighi. Avevo delle responsabilità. Un giorno venne da me un ragazzino per una confessione e io mi resi conto d’avere la sua anima tra le mani. Il peso era tanto grande, troppo perché prendessi i miei compiti alla leggera. Tim avrebbe voluto impegno da parte mia. Per questo non tradirò il segreto di Jane. Lei, così come quelle persone che si sono confessate, mi hanno raccontato i loro problemi e le loro gioie e lo hanno fatto perché si fidavano di me e dell’abito che portavo. È vero che non avrei ragione di tacere, eppure lo farò. Quindi se vuole che racconti della vita di Jane non dirò né più, né meno ciò che ho già detto.» Detto questo, Geremia Cooper si chiuse in un sordo mutismo. Volse lo sguardo verso terra e mentre i suoi occhi vibravano di un pianto sordo e silenzioso. Holmes decise di rispettare la sua decisione e una volta annuito, vorticò su sé stesso, iniziando finalmente il tanto atteso monologo. John si rilassò contro lo schienale della sedia, incrociò le braccia al petto e, come faceva sempre, prese ad adorarlo. Chissà quando avrebbe potuto toccarlo o baciarlo. Ma intanto, quella splendida voce baritonale, già aveva preso a parlare.

«Tengo a dire che ad alcune conclusioni ero arrivato ben prima che mio fratello mi portasse il fascicolo contente tutte le informazioni che sono riusciti a trovare su Jane e sul suo passato. Sappiate anche che sono state già messe da parte alcune prove, che saranno atte a confermare ciò che sto per dire. Prove di cui fa parte anche il diario di Mathias Bartholdy, che sono riuscito a scovare dopo la sua morte in quella che era la sua stanza al secondo piano di questa pensione.»
«Per l’amor del cielo, Holmes» sbottò Ford, impaziente «non ci giri troppo attorno e sputi quel dannato rospo.»
«Molto bene» annuì Sherlock. «Dunque, Jane Gilmore è nata in India. L’inizio della sua vita sembra molto simile a quella del romanzo che tanto amava leggere. In un certo senso, le similitudini tra lei e Mary Lennox sono sorprendenti. Entrambe nascono in India da genitori inglesi ed entrambe rimangono orfane in tenera età. Tutte e due, inoltre, vengono rispedite in Inghilterra a vivere con zii che non conoscono. Ed è proprio a questo punto, dopo che mette piede in Gran Bretagna, che inizia quella che è la sua storia. La storia di Jane. Quando giunge qui ha più o meno sei anni, suo padre è morto da poche settimane e lei ha viaggiato per settimane su una nave che la spaventava. Viene ospitata nella casa di una prozia di nome Mary Kate, che vive nell’Hertfordshire. In quei luoghi, la bambina trascorre anni felici. Tanto che è in quel periodo che incontra il suo più grande amore, Mathias Bartholdy. Un uomo con cui rimarrà in contatto per tutta la vita tramite delle lettere inviate a fermo posta. Una storia romantica in modo tragico, peccato non si questo il momento di raccontarla. Dicevo: un giorno, Mary Kate, già molto anziana, muore. Jane, a dodici anni, rimane sola di nuovo. Ed è a questo punto che entra in scena Thomas Gilmore. Lui è molto più grande di lei ed è bello e ricco, tanto che ha un’enorme tenuta non molto lontana dal piccolo paese in cui Jane ha vissuto con sua zia. Nel suo diario personale, Mathias descrive la villa come un qualcosa di meraviglioso e gli acri di terreno di proprietà dei Gilmore, belli al pari di un paradiso terrestre. Jane stessa ha trascorso del tempo in quei giardini amandoli con tutta sé stessa, ma di questo parleremo più tardi. Fatto sta, che quando Thomas si rende conto che Jane non ha più nessuno, decide di prendersene cura. Il motivo per cui lo fa è, diciamo, di carattere affettivo. Non posso sapere se Thomas avesse già allora delle mire sulla giovane, ma voglio sperare che non sia così, dato che all’epoca era poco meno che un’adolescente. Ciò che però sono venuto a sapere, e vi posso assicurare che è vero, è che Mary Kate era stata la tata della prima moglie di Thomas e che, per questo motivo, l’anziana gli era rimasta vicina dopo che lui era divenuto vedovo. Quando Mary Kate viene a mancare, Thomas si sente così tanto in debito con lei che sente di dover ricambiare tanta gentilezza e diventa il tutore legale di Jane. Ed è qui che iniziano le bugie. Quello che Geremia mi aveva lasciato a intendere, quel giorno in chiesa, era che Jane fosse cresciuta in un collegio femminile e che, una volta terminati gli studi, fosse diventata moglie di Thomas in seguito alla proposta di questi. L’idea era logica, tutto sommato. Mathias Bartholdy era ormai fuori dalla vita di Jane, dato che si era arruolato nell’esercito. La ragazza, seppur colta e onesta, non aveva parenti o prospettive. Ma era giovane e molto bella e pertanto accettò di diventare la moglie di Gilmore. Non lo amava, questo no. Però gli era grata per quanto aveva fatto. Anche se, naturalmente, tutti noi ben sappiamo che la gratitudine non è minimamente sufficiente a tenere in piedi una relazione.»
«Quando parla di “bugie” cosa intende di preciso?» intervenne Ford, curioso.
«Che questa non è la verità, o perlomeno, non è tutta la verità. Già perché manca una parte della storia.»
«Io non capisco» mormorò, a quel punto, la giovane Gilmore. Una Mary Jane dalle espressioni del viso sconvolte. Una Mary Jane che di continuo si torceva le dita delle mani, strette in un groviglio malforme. Quanta pena si ritrovò a nutrire John per quella ragazza, così tanta che fu tentato di alzarsi in piedi e porgerle un fazzolettino così che si asciugasse le lacrime. Non lo fece, ma più che altro perché Holmes attirò tutte le sue attenzioni e Watson si ritrovò schiavo di lui per un’ennesima e banalissima volta.
«Mary Jane, quanti anni aveva sua nonna quando è morta?» chiese Sherlock, del tutto inaspettatamente. Nel sentire quella domanda, ognuno ebbe una reazione differente. Tuttavia, fu quella di Barney Gilmore che John trovò interessante. Egli infatti spezzò l’ostinata immobilità nella quale si era calato. Lo fece in maniera praticamente impercettibile, facendo vibrare un poco le labbra, tese in un ghigno storto e inquietante. Ma Watson non indugiò oltre su di lui, e tornò a badare a Sherlock.
«Io non ricordo» balbettò Mary Jane, evidentemente confusa.
«Non ricorda perché non lo sa» precisò Holmes, con quel fare profetico che di solito gli procurava un pugno in faccia. «Io invece sì e sulla chiavetta usb che mio fratello mi ha fatto avere, c’è anche il suo certificato di nascita. A ora non capisco come sia possibile che lei, Mary, non se ne sia mai resa conto, che non abbia notato ciò che più che evidente. Jane non era una dolce vecchina, aveva circa sessant’anni ed era nata nel 1952.»
«No, lei si sbaglia» protestò la giovane Gilmore, con un fare leggermente più deciso di quanto aveva mostrato fino a ora «è mio padre a esser nato nel 1952, non mia nonna.»
«Cara la mia dolce Mary Jane» borbottò Holmes, avvicinandosi a lei e chinandosi appena, inginocchiandosi quasi tra le sue gambe. In una posizione compromettente che in John scatenò una violenta gelosia. Nonostante i modi di Sherlock fossero del tutto innocui e nonostante non ci fosse traccia di malizia in parole, sguardi e atteggiamenti, Watson si ritrovò comunque rosso per la rabbia. Sherlock non si era mai chinato fra le sue gambe, pensò sbuffando in un gesto di stizza. «Lo ricordi bene: io non sbaglio mai» concluse, infine Holmes.
«Io…»
«Mary» proseguì il consulente investigativo, prendendole le mani mentre John vibrava ancora «mi dispiace davvero.»
«D-di cosa?» balbettò lei, confusa e al tempo stesso ansiosa.
«Mi dispiace che debba subire tutto questo, ma è giunto il momento di conoscere la verità riguardo la sua famiglia.» Sherlock si alzò di nuovo e prese a camminare verso il centro della stanza, fino a che non si fermò con un movimento brusco e dopo aver intrecciato le mani dietro la schiena, si voltò di scatto, iniziando a fissare Mary Jane con fare insistente. «Jane è nata nel 1952, nella casa che i suoi genitori avevano a Bangalore ed è questa la verità che tutti vi siete per decenni affannati a nascondere.»
«Io non capisco» mormorò una Mary Jane in evidente stato confusionale.
«Questo com’è possibile, Mr Holmes?» intervenne invece Mrs Pinkerton, con un fare di traboccante curiosità. «Come possono Jane e Barney avere la stessa età? Avranno fatto un errore di trascrizione, quelli dell’India intendo.»
«No, nessuno sbaglio, Mrs Pinkerton» negò Sherlock «quello che tutti qui sanno e che si rifiutano di dire, è che c’era qualcun altro al funerale della vecchia Mary Kate, quel giorno. Non è vero, Barney?» Fu in quel momento che la presenza finora rimasta in disparte di Mr Gilmore, si palesò agli occhi di tutti. Un Barney Gilmore che se ne stava in parte voltato verso la finestra e che da lì non s’era mai mosso. Nemmeno dopo le scioccanti dichiarazioni riguardo la scomparsa del cadavere. Non aveva accennato neanche a voler consolare sua figlia per lo shock subito, né mostrato rabbia per il comportamento ignobile dei suoi suoceri.
«Barney è l’unico figlio di Thomas Gilmore e della sua prima moglie, morta per un colpo di pistola ricevuto durante una rapina. Ha appena compiuto sette anni quando vede per la prima volta la piccola Jane. Quella bambina taciturna di cui si parla così tanto in paese, arrivata da poco dall’India e che da tutti viene guardata con sospetto. Jane però è diversa da come appare, certo in un primo momento è sconvolta e spaesata ed è comprensibile, dato che si ritrova di colpo a dover vivere dall’altra parte del mondo con degli sconosciuti. Ma i piccoli fanno incredibilmente in fretta ad adattarsi e quindi, così come i tre bambini de “Il giardino segreto”, Barney, Mathias e Jane diventano amici. Amici inseparabili, cresciuti insieme nella campagna dell’Hertfordshire. Incredibili sono le similitudini che si continuano a trovare con quel romanzo, soltanto ora mi spiego l’ossessione che Jane aveva per i personaggi del libro. Per lei erano più che personaggi, era più di una storia: era la sua vita. E se fosse tutto qui ci sarebbe da domandarsi dove sia lo scabroso segreto che vi portate dentro e che con tanta ostinazione avete nascosto. Non ci sarebbe nemmeno un movente per un delitto… già, peccato per voi non è finita. Anche se mi rendo conto che potrà sembrarvi assurdo, proprio come succede per il piccolo e prepotente Colin, più Jane mostra interesse verso Mathias e più Barney ne è geloso. Lui probabilmente non rivela mai i propri sentimenti o, almeno, Mathias non ne fa cenno nel suo diario personale.» A quel punto, Holmes s’interruppe, si schiarì la voce e subito riprese a parlare.

«Più i protagonisti di questa storia crescono e maggiormente la vicenda s’ingarbuglia. Ritroviamo quindi i nostri bambini già un bel po’ cresciuti, al funerale di Mary Kate. Barney non dice niente dopo che suo padre Thomas gli manifesta l’intenzione di diventare tutore legale di Jane, anzi ne è felice perché pensa che può rigirare la faccenda a proprio vantaggio. Lui già si immagina sposato con la persona di cui è innamorato da sempre. Thomas però non ne sa niente perché Barney crede di poter aspettare a dirglielo, pensa che non sia ancora il momento giusto. D’altra parte, si dice, lui e Jane si vedono soltanto a Natale; perché quindi affrettare le cose? E quindi tace, per anni. La vita sembra andare per il meglio a tutti, finché un giorno (Jane e Barney hanno vent’anni) Thomas avanza una proposta di matrimonio. Ormai è tanto tempo che è vedovo, suo figlio è cresciuto… crede quindi che sia ora per lui di sposarsi di nuovo. È allora che il mondo di Barney crolla. Lui non può credere che, tra tutti, proprio suo padre gli abbia inferto un colpo simile. Era sicuro, al contrario, di dover combattere contro Mathias e con l’amore che Jane nutriva da sempre per il suo Dickon. Perciò è arrabbiato e furioso e lo è specialmente con sé stesso dopo che lei dice di sì a Thomas. Perché sa di non poter contrastare le decisioni del padre in nessun modo, né tanto meno il volere della donna che ama. È a quel punto che decide di andarsene, ma intanto (sempre a detta di Mathias) medita vendetta. Va il più lontano possibile da casa, e si mette a studiare botanica. Scommetto che Thomas si sarà chiesto come mai suo figlio sia sparito dalla sua vita, perché non tornasse a casa nemmeno per Natale o per le vacanze estive. Un giorno, però (già i coniugi Gilmore si erano trasferiti nello Yorkshire), quando ormai papà si era del tutto rassegnato a non veder più il suo unico figlio, Barney torna a casa e ha al braccio una bellissima ragazza di nome Dorabella. Una ragazza che lei, Barney ha sposato senza dir niente a nessuno. Probabilmente se fosse stato per lei non sarebbe mai più tornato a casa, ma immagino che in questo i Finnegan siano stati molto insistenti. Considerato l’attaccamento a certe idee perbeniste, direi è che è stata Amelia a insistere. Così, ritrovatosi tra due fuochi, opta per accondiscendere a quelle che sono le richieste di sua moglie. Oh, ma non si è dimenticato di Jane e della sua cotta adolescenziale, nient’affatto. Semplicemente è convinto che quei sentimenti riuscirà a tenerli a bada, perché ora ha una nuova vita lontano da quella “lei” a cui pensa ancora di tanto in tanto. Non posso esserne certo, in questo Mathias è assai vago, ma probabilmente non sarebbe successo nulla se Jane non si fosse fatta avanti. Quando quel giorno torna a casa, infatti, si rende conto che la stessa bambina di cui un tempo s’era invaghito, è scomparsa. Il matrimonio con un uomo che non ama l’ha resa infelice, cambiandola. Come può essere una donna serena? Con un tale sposato per gratitudine e che ha il doppio dei suoi anni? Come fare per vivere una vita felice, quando ama un altro uomo che sta lontano e di cui ha soltanto notizie sparute ricevute tramite lettera? No, quando Barney torna a casa si rende subito conto che Jane è triste. Non mi interessa sapere come sono andate le cose nel dettaglio, ma una cosa è certa: il frutto della passione di una notte nasce nove mesi più tardi e le viene dato il nome di Mary Jane. Come l’ho capito? Un esame del dna lo confermerà, ma per me è stato fin troppo semplice. La somiglianza che c’è tra Jane e Mary Jane è ben diversa da quella che c’è tra una nonna e una nipote. A dirmelo, è stata Jane stessa in quelle tante, troppe fotografie che tappezzano i muri di villa Gilmore. Quelle immagini hanno parlato e lo hanno fatto chiaramente. Oh e cosa non è lo sguardo che Jane rivolge alla persona che deve considerare come sua nipote, ma che è in realtà sua figlia! Quelli non sono gli occhi di una nonna buona e gentile, ma di una madre dilaniata dal dolore e che allo stesso tempo rimane attaccata alla propria figlia in un modo morboso. In una lettera, trovata nel diario di Mathias, Jane descrive l’attaccamento che ha verso sua figlia come una grazia che Dio le ha fatto: “averla qui con me come una nipote, è meglio che averla lontana e non poterla vivere ogni giorno”. Mi rendo conto che sembra la trama di una delle soap opera che guarda il mio caro John, ma è la verità. E spero che tutti voi vi guardiate nella coscienza e vi pentiate di quanto avete fatto.»
«Cos’è successo dopo? Dopo che Jane è rimasta incinta? E poi, come tutto questo ci dice chi l’ha uccisa?» intervenne Ford.
«Questo è facilmente intuibile: quando la cosa si viene a sapere, è ormai troppo tardi per abortire e per coprire lo scandalo. Thomas le pensa tutte, ma inaspettatamente è proprio Dorabella a fare una proposta. Colei che è stata tradita crescerà la piccola come se fosse sua figlia. Mary Jane viene quindi strappata dalle braccia della sua vera madre e data a Dorabella Finnegan. Anni dopo, quando Thomas muore, Barney decide di tornare nello Yorkshire. Hanno tenuto il segreto per tutta la vita e cancellato i ricordi dell'Hertfordshire. Finché un giorno, Jane manifesta a Barney il desiderio di dire la verità. Ed è lì che Barney inizia a pensare di ucciderla. Ed è quello che ha fatto, non è vero?»
«Lei non ha prove!» sbotta Mr Gilmore, furente.
«Oh, certo che ne ho. E più d’una. Ho capito che nascondeva qualcosa quel giorno, quando è sceso dal treno. Lei non arrivava da Londra e, anzi, non c’è mai nemmeno stato.»
«Come fa a saperlo?» chiese il detective Ford.
«Semplice e anche piuttosto banale in effetti. Il treno di Barney è arrivato alle dieci, quel mattino, quando l’ho incontrato per la prima volta. Bene, dalla stazione di King's Cross a qui ci si impiega circa tre ore. Questo significa che un treno che arriva alle dieci del mattino, è partito da Londra verso le sette. Si presume che una persona che si alza molto presto (si deve considerare che, dato il tutto, si dovrebbe essere alzato verso le cinque e mezza) e che deve attraversare una città come Londra per recarsi in stazione, non perda tempo con una ricca colazione casalinga. Ma che preferisca consumarla direttamente nel vagone ristorante.»
«Sì e allora? È quello che ho fatto» ribatté Barney, affatto domo.
«Bugia. Lei odorava di uova e salsiccia quel giorno e il polsino destro della sua camicia era sporco di sugo, ma il resto era tutto ben pulito: la camicia era nuova e stirata da poco, segno che l’aveva appena indossata così come i pantaloni che odoravano di lavanderia. Non si trova cibo del genere sui treni. E poi sono sicuro che del fatto che abbia mentito intendo. Anche perché ho trovato questo» disse estraendo dalla tasca una bustina contenente quello che sembrava un biglietto di un treno. «È timbrato a Brighton dove lei era andato per uccidere Mathias Bartholdy. Vede, Barney, Mathias era un uomo estremamente intelligente. Ha capito che qualcosa non andava in Jane dalle lettere che ultimamente riceveva e quando vi siete incontrati, quella sera alla villa, ha capito cos’era successo. Ma lui è stato più furbo. Ha fatto finta di nulla e poi ha detto che sarebbe tornato subito a casa e che era venuto nello Yorkshire esclusivamente per il funerale. Al contrario di quanto le ha detto, però, è tornato indietro rifugiandosi alla pensione e chiedendo a Mrs Pinkerton il favore di non dire a nessuno che era rimasto in paese. Tanto che decide di spacciarsi per un impresario di pompe funebri. Mathias non esce mai dalla sua stanza, se non la notte e intanto indaga su di lei. Vuole sapere dov’è Jane e cosa le è capitato. C’era vicino, molto vicino, al punto che a un certo punto decide di fare qualcosa per poterla far uscire allo scoperto. Pertanto, un giorno scrive questo» disse, estraendo dalla tasca della giacca un'altra bustina di plastica contente un altro pezzetto di carta. «L’ho trovato nel giardino. Buffo come lei abbia deciso di seppellirlo tra le rose invece che bruciarlo nel camino. Sentimentalismo? Un errore assai banale, così come l’idea di metterlo proprio sotto a quel cespuglio sostituito da poco. Il messaggio era indirizzato a lei e recita un semplice: “so tutto”. L’autore si firma con il nome Dickon. Anche se a lei non sarebbe neanche servito leggere la firma, ben sapeva come riconoscere la calligrafia di Mathias, dato che da anni leggeva di nascosto le lettere che questi mandava a Jane. Quindi, approfittando del fatto che Mary Jane era a Londra, va a Brighton con l’intento di ucciderlo. Lì però non lo trova, anzi, le dicono che è via da più o meno un mese. Quindi torna a casa, sperando non sia troppo tardi. Decide di non avvisare sua figlia del ritorno, preferisce agire nell’ombra e quindi si ferma a Barnsley, lì prende in affitto una stanza e noleggia un’auto. Ammetto che ha avuto un tempismo più che perfetto, aveva già pronta la cerbottana con il veleno che aveva nascosto nel doppio fondo della sua valigia, e dopo che ha Mathias è uscito dalla pensione, lei l’ha riconosciuto subito. E l’ha ucciso prima che potesse parlare. Quindi è tornato a Barnsley e si è presentato il mattino successivo. Un piano geniale, così come perfetto è stato il delitto di Jane. L’ha avvelenata poco a poco, magari intervallando il cianuro a capsule vuote e prive di qualsiasi medicinale o veleno di sua composizione. Non ha commesso un errore che uno, e l’avrebbe fatta franca se…»
«Se solo quella stupida di Amelia non avesse avuto la brillante idea di rubare il cadavere e tutto per quelle stupide idee puritane che ha in testa.»
«Quindi ammette di essere stato lei ad aver ucciso Mathias Bartholdy e Jane Gilmore?» domandò pertanto Ford, subito prima che nella stanza calasse il silenzio.
 
Quello che successe dopo fu repentino e accadde in fretta. John ricordò, di quei momenti, soltanto che le sue attenzioni furono esclusivamente per Mary Jane, la quale era collassata sulla poltrona. Probabilmente stordita e sconvolta da quella verità così troppo ingombrante. Evitò di badare a quanto stava accadendo altrove, i suoi doveri di medico gli imponevano di curare chi aveva bisogno del suo aiuto, piuttosto che di correre dietro a Barney Gilmore. Il quale aveva preso la porta ed era corso via, seguito dal Detective Ispettore Ford, da Sherlock e da un agente in divisa, rimasto per tutto il tempo fuori dalla porta. In futuro ricordò d’essersi preoccupato a morte, specialmente dopo che ebbe avuto modo di realizzare che Barney aveva il vizio di sparare dardi avvelenati. Tuttavia, dopo che Holmes era rientrato dalla porta, affannato e sconvolto, aveva tirato un profondo sospiro di sollievo.
«Come sta?» aveva domandato, con fare sorprendentemente preoccupato e accennando a Mary Jane.
«Sono riuscito a farle riprendere i sensi, ma era troppo agitata e le ho dato un sedativo. Ora Mr Pinkerton mi aiuterà a portarla a casa. Devo occuparmi di lei, Sherlock» mormorò, quasi temesse di dire quelle parole. Come se avesse paura che Holmes potesse non capire. «Non era così che volevo finisse questa serata, io avrei preferito stare con te.»
«Lo so» annuì Holmes «ma vai. È il nostro lavoro, John. Io ti aspetterò.»

Accadde in quel momento, con Pinkerton già fuori dalla porta che recava in braccio il corpo inerte di Mary Jane e con lui che teneva in mano alcuni pochi oggetti. Successe che invece che uscire dalla pensione e andare a svolgere il proprio lavoro, John fece cadere tutto a terra e tornò indietro. E dopo aver spinto Sherlock contro il bordo di un tavolo, lo baciò con passione.
 
 
 

Continua

 
 
 
Note. Un dettaglio, Sherlock mente riguardo il biglietto del treno da Brighton, perché non è proprio possibile che questo sia in suo possesso. Quello che fa, gettandosi nel cestino alla stazione, è recuperare un biglietto qualsiasi e fingere che sia quello di Barney.
 
   
 
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