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Autore: Regen    07/12/2015    1 recensioni
Sono gli ultimi giorni della Seconda Guerra Mondiale. Due amici si ritrovano dopo anni su due fronti opposti: uno è ufficiale delle Camicie Nere, l'altro è a capo di una banda partigiana. Una sola giornata per ritrovare il valore di un'amicizia particolare e intensa incrinata dalla guerra.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Guerre mondiali
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Pomeriggio

 

 

“Passami la palla!”

Il ragazzino moro cercò di aggiustare al meglio il lancio, prese la mira e tirò. Il compagno di squadra biondo intercettò il tiro e calciò direttamente in porta.

“Centro! Punto nostro!” Il fautore del vantaggio fece un salto in alto e si lanciò di corsa ad abbracciare l’amico. “Romano, siamo grandi! I migliori, nessuno potrà mai batterci!”

L’altro sorrise, le braccia strette attorno al busto dell’amico in un partecipe gesto di esultanza.

“Sì, siamo grandi. Abbiamo vinto tre a zero contro la squadra di quartiere, Francesco, te ne rendi conto?!”

In un istante, anche gli altri compagni furono addosso ai due ragazzini, festanti.

Ma il momento di ilarità non durò a lungo. Un uomo grande e grosso raggiunse a larghe falcate il centro del piccolo campo da calcio del quartiere, afferrò Romano per un braccio e lo tirò su di peso.

“Tu!” Gridò, colpendolo con un ceffone in pieno viso. “Quante volte ti ho detto di stare alla larga da questi appestati rossi?!”

Il ragazzino si portò d’istinto la mano alla guancia bruciante per lo schiaffo, ma non abbassò lo sguardo di fronte al volto rubizzo di suo padre.

“Loro sono i miei amici, papà! Perché non posso giocare con loro?”

“Te l’ho già spiegato un milione di volte, testa di legno che non sei altro! I rossi sono nemici dell’Italia, della nostra amata Patria. Lo vuoi capire, sì o no?”

Una seconda sberla fece cadere a terra Romano. Aspettò che suo padre si sfilasse la cintura dei pantaloni, per continuare a picchiarlo con quella come era sua abitudine fare quando il figlio gli disobbediva, ma invece del suono metallico della fibbia sentì la voce di Francesco.

“Vi prego, signor Damiani, lasciatelo stare,” si intromise il ragazzino biondo, mettendosi di fronte all’amico per fargli da scudo, “non facevamo mica niente di male. Abbiamo vinto una partita, e vostro figlio è stato molto bravo.”

“Tu non impicciarti. È mio figlio e ho il diritto di sgridarlo quanto voglio. Ed ora levati, non ho tutto la giornata.”

“No, non vi permetterò di picchiarlo ancora.”

“Togliti di mezzo. Vuoi forse prenderle anche tu?”

Nonostante il minaccioso tono di voce dell’uomo, Francesco non si mosse. Continuò a sfidarlo con uno sguardo risoluto, diretto, molto più maturo dei suoi undici anni. Forse fu proprio questo a fare infuriare il signor Damiani, perché mollò un ceffone anche a lui.

“Sei un cocciuto e un ribelle, proprio come tuo padre. Ma vedrai, le cose stanno già cambiando. Presto, in Italia non ci sarà più posto per i rifiuti sociali come voi.”

Erano parole forti da usare di fronte a ragazzini di quell’età. Tuttavia, presto, come predetto dal padre di Romano, essi avrebbero dovuto assistere a scene di gran lunga peggiori di questa.

Francesco tornò a fissare gli occhi in quelli dell’uomo, e questi vi lesse due cose che per un istante riuscirono quasi a turbare la sua anima rozza e dura: rabbia e desiderio di vendetta, di giustizia. Come se quel ragazzino avesse già consacrato il proprio cuore e il proprio futuro alla lotta. Fu incapace di continuare. Ordinò al figlio di rimettersi in piedi e di seguirlo a casa. Romano si rialzò e, nel passare accanto a Francesco, gli prese per un istante la mano nella sua e gli sussurrò all’orecchio:

“Non lo dimenticherò, te lo prometto. Un giorno ti restituirò il favore.”

Francesco gli sorrise di rimando e alzò le spalle, come a dire che non era necessario. Tuttavia, nel vedere l’amico allontanarsi dietro al padre, provò come una fitta al cuore, un sentimento che non sarebbe mai stato in grado di descrivere. E quella fu solo la prima volta.

 

“A cosa stai pensando?”

La voce di Francesco riscosse Romano dai ricordi.

“A quella volta in cui ti sei preso un bel ceffone da mio padre, al campo di calcio. Hai avuto un bel coraggio, nessuno aveva mai osato contraddirlo prima di allora.”

Il partigiano sorrise.

“C’è sempre una prima volta.” Disse, ma poi la sua espressione s’incupì improvvisamente.

Si alzò il vento e le nubi si addensarono ancora di più sulla campagna.

“Forza, fallo ora. Sono pronto.”

Il ragazzo biondo annuì e prese la mira. Portò il dito al grilletto dell’arma. Passarono diversi secondi, e poi minuti, ma lui non aveva ancora premuto il grilletto.

“Cosa c’è, ti fai dei problemi a sparare ad un fascista?”

Romano poteva sentire il proprio cuore battere all’impazzata per l’attesa, e non soltanto per quella. “È questo, allora, il tanto decantato coraggio dei partigiani? Siete solo dei codardi, mi fate pena!”

Gli mancava il fiato e ogni parola pronunciata gli era costata uno sforzo immane, ma voleva che Francesco lo ricordasse forte fino all’ultimo. L’idea di implorare pietà non l’aveva sfiorato nemmeno per un istante, e d’altronde il suo onore non glielo avrebbe mai permesso.

“Tu… come osi dire questo… Proprio tu, carogna fascista!”

Il partigiano ora era davvero infuriato, ma invece di sparare come l’altro si sarebbe aspettato, lasciò cadere il fucile e in un attimo gli fu addosso. Caddero a terra entrambi, rovinando in una lotta pari che si concluse quando si ritrovarono senza più forze e con il respiro affannato, sdraiati sull’erba l’uno accanto all’altro. Lentamente, tutti e due voltarono la testa fino a incrociare gli sguardi, e un istante dopo scoppiarono a ridere. Risero fino alle lacrime, così tanto da sentirsi quasi male, del tutto incuranti del resto del mondo per qualche attimo.

“Non posso farlo, Romano. Non ora che ci siamo ritrovati. Non ci riesco, e dammi pure del codardo, se vuoi, ma è così.” Esordì infine Francesco, con un braccio ancora premuto sullo stomaco che gli doleva per i pugni ricevuti e per la risata.

Romano si voltò su un fianco e distese un braccio verso di lui. Stupidamente, l’altro ragazzo pensò quasi che gli avrebbe preso la mano come aveva fatto tanti anni prima. Ma il soldato lo ritrasse subito, portandolo invece a sostenere il capo mentre lo guardava con quegli occhi così neri da sembrare ossidiana fusa.

“Non so se ringraziarti o scoppiarti a ridere in faccia di nuovo.”

“Fai un po’ come ti pare.”

Un lampo squarciò il cielo in quel momento, seguito poi dal rombo di un tuono.

“Quasi quattro chilometri.”

“Cosa?”

“Il fulmine. Sono trascorsi dieci secondi tra il lampo e il tuono, il che significa che il fulmine è caduto a quasi quattro chilometri da qui.”

“È questo che vi insegnano in caserma? Non mi meraviglio che abbiate perso la guerra.”

Romano scosse la testa. “Comunisti ignoranti.”

Cominciarono a cadere le prime gocce di pioggia, che presto si infittirono e si trasformarono in un temporale.

Francesco si alzò in piedi e raccolse il fucile.

“Dai, vieni. Conosco un posto in cui potremo aspettare che il temporale passi.”

L’amico si rialzò a sua volta e gli rivolse un’occhiata obliqua. “Se ti riferisci al vostro covo partigiano, non ci tengo proprio ad essere vostro ospite.”

“Ti pare che ti riporterei in mezzo a loro? Muoviti, prima che siano loro a venire a cercarci.”

Il bel viso del fascista si distese in un sorriso di riconoscenza, ricambiato dal partigiano, e si avviarono nel boschetto di pioppi fianco a fianco.

 

Il capanno della legna era vecchio ma asciutto, e Francesco era certo che nessuno sarebbe mai andato a cercarli lì. Il pavimento era ricoperto di paglia e in un angolo era depositata ancora un po’ di legna, accatastata dai contadini l’autunno precedente. I due ragazzi erano ormai completamente bagnati, e gli abiti che avevano indosso erano diventati pesanti, aderenti ai loro corpi.

Francesco si liberò del fucile e della giacca con pochi movimenti spicci. Prese fiato dopo la corsa sotto la pioggia e si guardò intorno: quel luogo era esattamente come lo ricordava, come la prima volta in cui vi si era rifugiato per sfuggire ad un inseguimento dei fascisti. Ed ora vi ci aveva condotto uno di loro di sua spontanea volontà. La vita aveva sempre in serbo delle sorprese.

Romano esitò un istante prima di imitarlo, slacciandosi lentamente i bottoni della giacca dell’uniforme. Prima di posarla a terra accanto a quella del partigiano estrasse dalla tasca una scatoletta di sigarette e un accendino.

“Fumi?” Chiese all’altro, porgendogliela.

“Sì, grazie. Io le ho finite.”

Rimasero in silenzio per un po’, seduti sulla paglia a fumare. Fuori il temporale non accennava a smettere, e alcuni spifferi di vento raggiungevano l’interno del capanno attraverso le fessure tra le assi di legno. Romano rabbrividì nella camicia bagnata.

“Hai freddo?”

“Un po’, ma mi asciugherò presto.”

“Togliti la camicia e mettiti questo,” gli disse Francesco, sfilandosi il maglione e lanciandoglielo da dove era seduto, vicino alla porta, “sicuramente è meno bagnato.”

Il fascista guardò prima il maglione che aveva in grembo e poi l’amico. Non si aspettava tanta premura da parte sua, soprattutto non dopo che si erano quasi ammazzati a vicenda.

“Che hai? Ti fai le paranoie a toglierti la camicia nera?” Sogghignò il comunista.

“Idiota,” ribatté lui alzandosi in piedi mentre si sbottonava la camicia, infilandosi poi il maglione. Era ancora caldo del corpo di Francesco.

Questi si sorprese da solo quando si ritrovò a fissare il corpo del milite. Le spalle, il petto, il torace, le braccia; aveva un fisico asciutto e aggraziato, ma forte dell’addestramento militare ricevuto e impartito più volte alle nuove reclute. Anche se il proprio corpo era abbastanza simile al suo, senza sapere il perché, Francesco deglutì a fatica e distolse lo sguardo. Doveva essere la stanchezza, certo. Che altro poteva essere? Solo un momento di debolezza, perché lui non aveva mai fatto pensieri simili su un altro uomo. Aveva avuto molte ragazze, sapeva di essere attraente e aveva giocato parecchio su questo fatto.

“Mi stavi fissando, per caso?”

Romano reclinò appena la testa di lato e lo guardò negli occhi, incuriosito. Non che fosse nuovo agli sguardi sul proprio corpo: alla caserma capitava spesso che i militi si divertissero a confrontarsi tra loro durante le ore libere, e lo aveva fatto anche lui stesso più volte. Tuttavia, il fatto che fosse stato proprio Francesco a guardarlo in quel modo proprio gli fece provare una sensazione strana, insolita.

“No, ti sbagli,” rispose in fretta l’altro, senza riuscire a nascondere l’imbarazzo che gli trapelò dalla voce.

“Anche se lo avessi fatto, non importa.”

Il ragazzo biondo gli restituì lo sguardo.

“Davvero non ti importa che un altro uomo ti guardi?”

“Non vedo perché dovrebbe importarmi. Può capitare, soprattutto in uno spazio angusto come questo dove non sai dove mettere gli occhi.”

Francesco gli sorrise, grato per averlo tolto dall’impiccio dell’imbarazzo con una scusa.

“Già.”

Il ragazzo moro tornò a sedersi, questa volta più vicino a lui. Nel poco spazio a disposizione, non c’erano che pochi passi a separarli.

“Com’è che ci siamo persi di vista all’improvviso? Non ci siamo neanche mai scritti, non avevamo neanche degli indirizzi a cui fare riferimento.”

“Me lo sono chiesto spesso anch’io, in questi anni. Non lo so, ma credo che la guerra abbia reso tutto più difficile. E poi, cosa avremmo avuto da raccontarci? Tu saresti stato tra le tante bande fasciste che mi inseguivano con i cani, e io sarei stato tra quelli nascosti nei i boschi a spararvi contro.”

“Forse hai ragione. Ma ciò non toglie che mi dispiace.”

“Anche a me.”

Tra di loro cadde nuovamente il silenzio. Questa volta, però, era un silenzio carico di muti interrogativi da parte di entrambi, domande che nessuno dei due ebbe il coraggio di formulare per primo. Domande sul passato e sul presente, e persino su quello stesso momento che entrambi percepivano inconsapevolmente allo stesso modo, senza sapergli dare un nome. Era curiosità, e nostalgia, e affetto, e tanto altro.

“Mi pare che abbia quasi smesso di piovere.”

Infine, fu Romano a rompere per primo quel pesante silenzio. Si rialzò e fece per aprire la porta per controllare la situazione all’esterno, ma inaspettatamente Francesco lo fermò, cingendogli il polso con una mano. L’ufficiale si voltò di scatto verso di lui, con un’espressione di sorpresa negli occhi.

“Aspetta, per favore. Non andartene di nuovo.”

“Guarda che sei stato tu il primo ad andartene.”

“Non è un buon motivo per cui ora debba farlo tu.”

Romano guardò la mano che gli tratteneva il polso, ma non fece nulla per liberarsi.

“Vuoi rimanere qui? E per quanto, fino alla fine della guerra? Sai benissimo che non possiamo, come non possiamo uscire da qui insieme. In quel caso ci sarebbero entrambi gli schieramenti a spararci addosso,” gli disse mestamente, ammorbidendo lo sguardo.

In quel momento, Francesco non riuscì più a lottare contro le lacrime che gli pizzicavano gli occhi più o meno da quando si era allontanato dai suoi compagni. Forse si vergognò di piangere a quel modo davanti a Romano, ma dopotutto le emozioni sono umane, ed era certo che l’amico non gliele avrebbe rimproverate.

Circondò il fascista con le braccia e lo strinse a sé. Anche l’altro, dopo il primo secondo di sorpresa, ricambiò l’abbraccio.

“Forse non possiamo rimanere qui fino alla fine della guerra, ma per ora questo è l’unico posto in cui voglio essere,” gli sussurrò piano all’orecchio il partigiano.

  
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