La
sensazione era simile a quella che avrebbe provato se si fosse immerso
in un
oceano di miele, di melassa, di ambra. Sognò (o credette di
sognare) di nuotare
in quel mare quieto e silenzioso, osservò (o credette di
osservare) il proprio
corpo confondere i colori con quanto lo circondava. Lampi di azzurro,
di
bianco, di bruno, di oro pallido, entro i quali cominciavano ad
insinuarsi
subdolamente altre sfumature, ben più reali e concrete.
Sentì bruciore, umido,
si volse di scatto su un fianco, scalciò con disperazione,
già saturo di quel
languore obnubilante, del quale non riusciva a liberarsi.
Sgranò gli occhi
ciechi per un solo istante, subito dopo dovette richiuderli. Gemendo, o
credendo di gemere, annaspò alla ricerca del lenzuolo per
avvolgervisi
all’interno, in una sequenza di gesti noti alla parte muta e
inconscia del
proprio corpo, e pertanto non necessitanti di essere organizzati in
modo
razionale dall’intelletto piegato ad un’altra
volontà.
Un
colpetto di tosse lo sconvolse: il suo sogno, o quel che ne rimaneva
per
tormentarlo, era profondo a tal punto che qualsiasi suono sarebbe
giunto amplificato
in modo straziante alle sue orecchie. Così fu.
Aprì gli occhi, terrificato. Oltre
un velo di sudore e bruma di stanchezza, conseguenza di un sonno
agitato e
discontinuo, distinse nettamente una figura familiare sullo sfondo del
muro
crivellato da proiettili – colpa della sua accidia, del suo
tormento, della
dannata febbricola che lo insidiava da settimane. Il suo battito
cardiaco
accelerò senza preavviso.
Sulla
soglia dell’appartamento si stagliava una figura nota, ma
sconosciuta: ad un
primo sguardo, essa sembrava un assemblaggio di più parti,
ciascuna
appartenente ad un individuo diverso. Sherlock distinse nettamente le
piccole
scarpe di Mrs. Hudson, recanti piccoli sbaffi di farina sulle punte, le
quali
spuntavano al di sotto di un completo gessato che sembrava quello di
Mycroft,
ma non poteva trattarsi davvero di lui, perché le mani,
abbandonate lungo i
fianchi, erano troppo piccole e delicate, più probabile che
appartenessero a
una donna. L’orologio al polso della mano sinistra era di
Lestrade, poco ma
sicuro: cinturino vecchio, logoro, quadrante graffiato. Risalendo con
lo sguardo,
Sherlock credette di intravedere un ciuffo di capelli biondi, ma il
volto che
ne ricambiava lo sguardo era sdoppiato, dai confini sfocati,
impossibile da
localizzare o riconoscere in alcun modo.
La
razionalità prevalse
sull’irrazionalità. Sto sognando,
pensò. Guarda un po’
come funziona bene il mio meccanismo di censura onirica.
Udì
nuovamente quel colpetto di tosse. Sherlock si ritrasse istintivamente.
La
strana figura mosse qualche passo verso di lui, che giaceva riverso sul
pavimento accanto alla sua poltrona. Messa a fuoco con maggiore
chiarezza,
apparve per quel che era: grottesca, nauseante, terrifica. Una mano
recava un
lungo, lucente coltello.
“Non
puoi farlo”, credette di bisbigliare Sherlock con un filo di
voce. La figura,
apparentemente sorpresa, si fermò con il braccio levato.
“L’attività del mio
sistema reticolare attivatore ascendente sta per intensificarsi.
Ciò significa
che mi sveglierò da un momento all’altro, prima
che tu possa colpirmi.”
La
figura sembrò sorridere. “Dunque tu credi che
durante la tua veglia io svanisca,
come se esistessi soltanto nei tuoi sogni?”
Sherlock
si irrigidì. “Come dici?”
“Sono
sempre con te, Sherlock. Un abbozzo rudimentale di tutto ciò
cui tieni
maggiormente, senza che possa comprenderlo sino in fondo quando sei
cosciente.
È solo nel sogno che ti accorgi davvero di quanto sono
potente”.
“Credo
di capire. È per questo che mi mostri quel coltello?
Simboleggia il tuo
presunto potere su di me?”
“No”,
rispose la figura, con un’inflessione nel tono che a Sherlock
ricordò
orribilmente la voce di John. “Lo faccio perché tu
possa ricordartene sempre”.
Calò
di scatto il coltello su di lui, mirando al volto. Preso alla
sprovvista,
Sherlock non riuscì a ritrarsi in tempo, ma
sollevò d’istinto una mano per
proteggersi: la lama lo colpì sul palmo, tagliandolo appena,
senza trafiggerlo.
Con uno scatto colmo di rabbia selvaggia la figura impugnò
il coltello con entrambe
le mani, pronta ad assalirlo nuovamente…
Con
un sussulto, Sherlock spalancò gli occhi: fu costretto a
richiuderli quasi
subito, a causa della luce che inondava la stanza. Si mise a sedere tra
le
lenzuola spiegazzate, mentre gli ultimi palpiti di
irrazionalità, che lo
stavano via via abbandonando, lo spinsero a guardarsi le mani e a
toccarsi in
volto. Il palmo della mano sinistra bruciava appena: non senza
sorpresa,
Sherlock vi riconobbe un filo di sangue fresco appena combaciante con
la plica
centrale.
Il
telefonino posato sul comodino vibrò appena. Il suono
distolse Sherlock dalle
proprie cupe meditazioni: digitò il codice di sblocco e
lesse il messaggio che
Lestrade gli aveva appena inviato.
C’è
qualcosa di
interessante per te.
Meccanicamente,
Sherlock digitò in risposta:
Dove?
SH
“Sono
sorpreso che tu ci abbia raggiunto senza fare le tue solite
domande”.
“Sono
sorpreso che mi abbiate chiamato soltanto adesso. A giudicare dalla tua
faccia
e dai tuoi vestiti, ci stai lavorando almeno da ieri sera.”
“Sì”,
sospirò Lestrade, passandosi una mano sui capelli cortissimi
“ma non sono
ancora riuscito a ricavarne nulla. Un tuo parere accelererà
i tempi. Ben
tornato, a proposito. Anche tu sembri aver trascorso una notte
piuttosto
movimentata.”
Sherlock
fece una smorfia. “Non sai quanto.”
I
due uomini percorsero il vialetto che conduceva all’ingresso
principale del
vecchio edificio. Sherlock, nonostante il grigiore della giornata e
l’umidità
pressante, la mancanza di sonno e la linea di sangue che si era
ritrovato sulla
mano sinistra, avvertì un palpito di eccitazione quando
oltrepassarono il
nastro giallo e varcarono la soglia.
La
costruzione era decadente e indebolita dalla mancanza di cura e
dall’impetuosità con cui i fenomeni atmosferici
l’avevano funestata: volgendo
attorno lo sguardo, non era raro trovare i resti di finestre
frantumate,
calcinacci impolverati e lunghe crepe sui muri ingialliti, dalle quali
faceva
capolino vegetazione selvaggia. La luce era smorta e un senso di
desolazione ne
opprimeva le pareti. Un’antica dimora signorile. Costruita
probabilmente nei
primi anni dell’Ottocento e abbandonata da almeno dieci anni,
considerando gli
ultimi lavori di ristrutturazione operati in quella zona
dell’ingresso.
Sherlock non si rese conto di aver pensato ad alta voce.
“Apparteneva
ad una famiglia di ereditieri emigrata in Sudamerica da
decenni”, aggiunse
Lestrade, mentre salivano le scale che conducevano al piano superiore.
“Abbiamo
controllato la documentazione.”
“Lo
stato dell’immobile suggerisce che nessuno dei famigliari
rimasti se ne prenda
cura”, rispose Sherlock pensosamente.
“Perché dovrebbe interessarmi?”
“Non
ci sono famigliari rimasti a prendersene cura, Sherlock.
C’è solo un custode,
un uomo anziano che vive nei dintorni e periodicamente visita la casa
per
accertare che sia tutto a posto”, rispose Lestrade,
avviandosi verso il
corridoio.
“Cioè
per verificare che tutto continui a cadere a pezzi e a
danneggiarsi?”, replicò
Sherlock, pungente.
“Qualcosa
del genere”, fu la risposta di Lestrade. “In ogni
caso, nel tardo pomeriggio di
ieri il signor Hughes ha trovato una bella sorpresa durante la sua
ispezione.”
Riluttante,
Sherlock lo seguì. “Sta davvero arrivando Natale.
Più si avvicina il giorno del
tuo viaggio in Dorset, più diventi cinico.”
“Ah,
io?”, replicò l’ispettore.
La
stanza non era molto grande, polverosa e decadente al pari di quanto
già aveva
avuto modo di osservare. Alle pareti marciva una carta da parati che
doveva
essere stata elegante, beige con decorazioni floreali. Grosse macchie
di
umidità si allargavano agli angoli del soffitto. Non vi
erano quadri o arazzi
di alcun tipo, solo un lampadario imponente, dai lunghi bracci
affusolati color
oro, e un pianoforte, lucido, scoperchiato. Alla destra di Sherlock si
trovava
una toeletta in legno scuro, il cui specchio attraversato dalle crepe
restituì
il riflesso di un uomo lungo, pallido, smunto, terribilmente
rassomigliante
alla figura composita del sogno di quella mattina. Voltando il capo,
Sherlock
scacciò quel pensiero. A sinistra, accanto al pianoforte, si
trovava un pesante
tavolo nero, adagiato su un tappeto di color rosso, che contrastava
terribilmente con il pallore marmoreo del pavimento.
Era
una scena che Sherlock aveva osservato innumerevoli volte: gli uomini
della
Scientifica, intabarrati in quelle tute che li rendevano simili ad
astronauti
su un pianeta sconosciuto, si affaccendavano intorno a dettagli ed
elementi che
in un’altra circostanza sarebbero stati privi di interesse.
Questa è la
giustizia perversa dell’omicidio, si disse amaramente mentre
si dirigeva verso
il gruppo, infilandosi un guanto in lattice. Rende visibile
ciò che dovrebbe
restare occulto, che grida e che si dibatte per emergere alla
superficie.
È
morto da almeno dodici ore. Giovane, bruno, anonimo, sulla trentina.
“Nessun
segno di violenza? Di colluttazione?” No. Non è
ironico? Sembra quasi che
dorma. “Che ci faceva qui?”, chiese seccamente.
“È questo che ti sto chiedendo
di capire”, borbottò Lestrade in risposta, ma
Sherlock non lo udì. Carnagione
chiara. Due nei sul sopracciglio destro, setto nasale appena deviato.
Cianosi. Occhiali…
inseriti in una busta per i rilievi, lenti incrinate. Collo sano,
intatto. Segni
di strangolamento assenti. Passò un dito sulla camicia
scura, sfiorando i
bottoni, la piccola tasca. Che ci facevi qui? Sapevi che stavi andando
incontro
a qualcosa di ben più… “Oh.”
Un collarino ecclesiastico. Un collarino
ecclesiastico?
Lo
estrasse con delicatezza. Lestrade lo fissò come se fosse un
insetto. “E
questo?”
“E
questo?” gli fece eco Sherlock, sarcastico. “A
quanto pare la matassa è
parecchio ingarbugliata. Dunque. Uomo bianco sulla trentina.”
John. John saprebbe.
Lo capirebbe in pochi secondi. Dieci. Facciamo quindici. “O
forse dovrei dire sacerdote bianco
sulla trentina. Cianotico,
volto congestionato. Paralisi respiratoria e arresto cardiaco, ad
un’occhiata
superficiale. Aspetta”, alzò una mano,
interrompendo Lestrade, del quale aveva
percepito la lieve esitazione verbale. Il detective sospirò.
“So cosa stai per
dire”, proseguì Sherlock. “Non ci sono
segni di violenza o di colluttazione. Tutto
lascia presagire che quest’uomo sia giunto qui da solo, e che
da solo sia
morto. Niente di più sbagliato. Per due ragioni.”
Straordinario. Sta’
zitto, John.
“Sentiamo”,
mormorò Lestrade.
“Primo:
il collarino ecclesiastico male occultato in una tasca della camicia.
Quest’uomo
doveva incontrare qualcuno, qualcuno che probabilmente conosceva e di
cui si
fidava. Qualcuno”, proseguì Sherlock, scrutando
profondamente il volto
inespressivo dell’uomo disteso sul pavimento “con
cui a quanto pare aveva una
relazione. Di qualsiasi tipo. Forse complicata, forse no.”
Ironico, no? Cos’è
più ironico? Che lo stia pensando adesso o che lo stia
pensando per la seconda
volta in pochi minuti? “Ha rimosso il collarino, ma non lo ha
nascosto. Perché
farlo? Probabilmente anche chi era con lui sapeva che era un sacerdote.
Probabilmente
volevano dimenticarsene entrambi per qualche tempo.”
“Entrambi?
Cosa ti fa credere che ci fosse solo un’altra persona con
lui?”
“Guarda
questa stanza, Lestrade, e trai le tue conclusioni. Una decadente
toeletta, un
pianoforte scordato… non lo trovi romantico?
Direi che un simile scenario ammette un massimo di due individui, non
uno di
più.”
“Tu
credi che quest’uomo si sia incontrato qui con…
un’amante?”.
Lestrade abbassò la voce mentre parlava, lanciandosi
occhiate furtive intorno. Lo inchiodò con uno sguardo
cocente. Sherlock rimase
impassibile. “Ti rendi conto di quello che stai
dicendo?”
“Io
non credo proprio nulla, Lestrade,
deduco e basta”, rispose seccamente Sherlock.
Lestrade
strinse le labbra. “E la seconda ragione?”
“Molto
bene, Graham…”
“Greg!”
“Greg.
Considerando il modo in cui il cristianesimo fa del martirio il proprio
segno
di riconoscimento, per quale ragione quest’uomo avrebbe
dovuto morire nel
silenzio e nell’ombra, se avesse voluto suicidarsi? Ho
scritto un articolo sull’ipertrofia
che sembra caratterizzare l’ego di molti
ecclesiastici…”
“Questa”,
lo interruppe Lestrade “mi sembra, più che una
deduzione, una convinzione
personale gratuita…”
Sherlock
sorrise, visibilmente divertito. “Infatti. La vera ragione
è che questo è un
luogo perfetto per un omicidio. Fuori mano, isolato,
abbandonato.” Sentì un’eccitazione
crescente, mentre lo diceva. Il tedio nichilista è finito,
si disse, fremente. I
giochi si riaprono. “Guardalo e dimmi cosa vedi.”
Lestrade fece per parlare,
confuso. Sherlock lo interruppe. “Cianotico, congestionato,
l’ho già detto. E
sudato, anche se gran parte delle secrezioni sono evaporate.
Probabilmente avrà
dei segni di emorragie puntiformi a livello delle congiuntive. Tutto
lascia
presagire, Lestrade, che quest’uomo sia morto per
avvelenamento.”
Si
volse nuovamente a guardarlo. Morire per avvelenamento non
dev’essere affatto
facile, si disse. Eppure il suo volto ha un’espressione
talmente quieta… Le
mani. Non ho controllato le mani. Sherlock, fratellino, perdi colpi?
Sta’ zitto,
Mycroft, o ti ritroverai quell’odioso ombrello in zone
indesiderabili.
“Che
prove hai per dimostrarlo?”, stava chiedendo Lestrade. Ma
come in un lungo,
turbinoso sogno, Sherlock rimase folgorato dalla mano sinistra del
sacerdote,
la quale era serrata in un pugno apparentemente impossibile da
sciogliere, a
differenza della destra, che ricadeva invece inerme di lato. Con non
poca
difficoltà Sherlock vi riuscì, manovrando le dita
irrigidite con una
disinvoltura acquisita negli anni trascorsi a sperimentare sui cadaveri
del
Bart’s.
“Oh.”
Per la seconda volta. È davvero questo ciò per
cui vivi? È davvero così
emozionante? Oh, Mrs. Hudson, non
può sapere quanto. “Guarda un
po’.”
Lestrade
si chinò per guardare. “Cosa
diavolo…?”
“Non
c’è bisogno di una millenaria esperienza in
botanica per sapere che questo è un
fiore di aconito, Lestrade. Viola, forma conica, pochi petali. Tre
milligrammi
dell’alcaloide aconitina possono uccidere un uomo adulto. Un
omicidio elegante,
poetico. Quasi sadico, a dirla tutta. L’aconito non
è propriamente l’ideale per
una morte veloce e indolore.”
“Ma
perché l’assassino avrebbe dovuto darci
indicazioni riguardo l’arma del
delitto?”
“Interessante
domanda, Lestrade. Le ipotesi, a tal proposito, sono due. La prima ci
dice che questo
fiore costituisce una sorta di firma dell’assassino.
È il suo modo per dirci:
sono stato io. Sono proprio io. La seconda suggerisce che tutto questo
sia
frutto di una tragica fatalità. Considerando la
rapidità e la considerevole
diffusione di questo tipo di piante nelle campagne, probabilmente
quest’uomo ha
portato il fiore con sé… una sorta di galanteria
dell’ultimo minuto.” Sherlock
sorrise amaramente.
Lestrade
chiuse gli occhi, spossato. “Bene, direi che è
sufficiente, per ora. Ma questo
non ci dice nulla sull’identità
dell’assassino.”
“Interrogate
gli abitanti della zona, chiedete loro se hanno visto strani movimenti
nella
serata di ieri”, replicò Sherlock.
“Bussate a tutte le parrocchie e informatevi
sull’identità di quest’uomo. Qualcuno
starà sicuramente diffondendo la notizia
della sua scomparsa.” Sherlock si sfilò il guanto
in lattice, dopo aver riposto
il fiore in una bustina di plastica trasparente. La consegnò
ad un uomo della
Scientifica e si volse nuovamente verso Lestrade. “E non
siate tanto ottimisti:
qualcosa mi dice che colpirà ancora. Ma io posso stanarlo
prima che ciò accada
effettivamente.”
Lestrade
non replicò. Si limitò a scrutarlo con uno
sguardo indecifrabile. Fu solo un
istante, ma tanto bastò per innervosire Sherlock.
“Che
c’è?”, sbottò.
“Niente”,
replicò Lestrade con noncuranza. “Mi chiedevo se
stessi bene, tutto qui.”
Sherlock
ricambiò l’occhiata con rinnovata fierezza.
Nonostante la lunga, sottile ferita
che gli pulsava nella mano, non dissimile all’altrettanto
lunga, fastidiosa,
insostenibile ferita che da settimane lo tormentava e che tuttavia era
ben più
difficile da sanare… nonostante la febbre, la solitudine, la
tristezza, i
frequenti e incomprensibili incubi notturni, si sentiva forte, sicuro,
rinvigorito. Non sorrise, ma si limitò a dire con calma:
“Io sto
benissimo.”
Chiedo
scusa sin da ora se qualche particolare (soprattutto dal punto di vista
medico-legale) possa risultare inesatto o fuorviante. Ringrazio tutti
coloro
che hanno letto e recensito, in particolar modo Ayreon,
justanothermuggle ed
emerenziano. Le vostre parole mi hanno davvero riscaldato il cuore.
Spero di
non deludere le vostre aspettative. Amo moltissimo Sherlock e tutto ciò che desidero è
percorrere le vie più impervie della mia
stramba fantasia, senza sapere esattamente dove terminerà il
cammino, tenuta
per mano dai miei personaggi preferiti. Sarei felice se vorrete
intraprendere
questo percorso assieme a me.
Un
bacio e buone feste a tutti,
alla
prossima,
Denirose