Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Sir Arthur Conan Doyle, Steven Moffat e Mark Gatiss.
Riferimenti a persone o avvenimenti reali o ad altre storie pubblicate su questo sito sono puramente casuali e involontari.
Questa
storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
Il
giorno grigiastro filtrava attraverso le imposte mal accomodate,
illuminando la
piccola stanza. Il pavimento era occupato da un tappeto logoro, una
pila di
grossi manuali di medicina e un calzino bianco, appallottolato con
malgarbo. Il
suo gemello giaceva a pochi centimetri di distanza, ma più
in alto, adagiato
per un quarto sul letto, pronto a scivolare al suolo alla minima
spinta. Il
comodino impolverato recava tracce di un recente passaggio,
lì dove le dita di
una mano avevano annaspato alla ricerca della sveglia, lasciando tracce
come
pennellate sul legno. La sveglia aveva trillato sino a spegnersi, un
suono
orribilmente deformato dal contatto con il suolo. Le lenzuola erano un
guazzabuglio, spiegazzate all’inverosimile e leggermente
umide di sudore, il
guanciale ripiegato come se fosse stato colpito da dei pugni chiusi.
Ferito
dalla luce incombente, l’uomo si trascinò con
lentezza insonnolita sino al
bagno, dove, abbandonato il lungo lenzuolo entro il quale era andato
avvolgendosi, si infilò malvolentieri sotto il getto
d’acqua fredda della
doccia. Chiuse gli occhi, ma non ne ricavò alcun tipo di
sollievo. Aveva la
bocca impastata, la testa dolente, gli arti intorpiditi. Si
lavò con poca
attenzione, sentendosi istupidito a tal punto da temere di dover
trascorrere la
giornata a letto, in una nube di malessere e incoscienza.
“A
giudicare dal tuo passo strascicato, fratellino caro, ho
l’impressione che tu
sia particolarmente a disagio per qualcosa”. La voce di
Mycroft sembrò
insinuarsi dalla fessura della porta chiusa con melliflua
rapidità.
“Considerando
che mi sono svegliato da poco, fratello”,
ribatté Sherlock, uscendo dalla doccia e avvolgendosi in un
asciugamano pulito
“la tua impressione circa
il mio
presunto disagio può considerarsi erronea solo per
metà.” Un secondo
asciugamano andò a ricoprirgli il capo. “A meno
che tu non conosca qualcuno che
al mattino, posati i piedi sul pavimento, si sollevi e vada a fare
colazione
levitando. Riconoscerai un insolito ottimismo nelle mie parole, dal
momento che
posso fare un rapido calcolo sull’effettivo numero di persone
che hai
conosciuto nella tua vita e tale stima non supera il totale dei
chilogrammi che
il medico ti ha prescritto di perdere. Impressione erronea,
dunque.”
Mycroft
non replicò subito. Stava ridendo. Sherlock
afferrò con malgarbo l’ennesimo
asciugamano e se lo pose sulle spalle bagnate. Chiuse gli occhi,
beandosi
dell’improvvisa, quanto fugace, quiete appena creatasi.
Ma
avrebbe avuto vita breve.
“Come
hai già lodevolmente rimarcato, fratellino” di
nuovo quella voce petulante “si
tratta di un’impressione erronea per
metà.
E il tuo impeccabile ottimismo la dice lunga sull’affetto che
provi nei miei
riguardi.”
“Prima
che ti risponda davvero male, Mycroft, sparisci.”
“Tu
sottovaluti i segnali del corpo, Sherlock, dovresti soffermarti sulla
natura profonda nascosta dietro
questa
febbricola improvvisa. Paracetamolo, dunque?”
Respiro.
“Il
disagio circa il quale deliravi
poc’anzi è meramente corporale, Mycroft. Dato che
mi stai tediando e che forse
questo servirà a levarti dai piedi, spezzerò una
lancia in tuo favore. Goditi
il momento, potrebbe non ripresentarsi prima della prossima
glaciazione.
Dunque. Prima impressione: corretta. Effettivamente non mi sento bene.
Febbricola, giusto. Molto probabile. La mia camminata ti ha suggerito
che
avessi qualcosa che non vada. Impressione ricavata, tuttavia, da una
deduzione
grossolana conseguente ad una mancata contestualizzazione. Il mio caro
fratellino si trascina, o che diavolo ne so, pertanto sta male,
fisicamente o
emotivamente. È mattina,
Mycroft. Se
consideri le tue premesse, chiunque appena sveglio potrebbe risultare
un
depresso cronico o un pericoloso terrorista, solo da come si avvicina
al bagno.
Non proprio l’ideale per uno che lavora per la Regina, non
trovi?”. Sorriso.
Silenzio.
“Paracetamolo,
dunque. Caso chiuso.” Riprese Sherlock, strofinandosi i
capelli e riponendo
l’asciugamano umido. Si guardò attorno alla
ricerca del phon.
“Davvero
sbalorditivo. Ma tu non cammini
così quando
sei sveglio, Sherlock”, fu la risposta, pronunciata con tono
incredibilmente
serio, dall’altra parte della porta chiusa.
“Evidentemente
cammino così quando
sono sveglio, ma
tu non puoi saperlo, per una serie
di
ragioni talmente ovvie che la sola idea di spiegartele mi
provoca…”
“O
forse posso saperlo, fratellino, per una serie di ragioni talmente
ovvie che
spiegartele equivarrebbe ad un vero e proprio insulto alla tua
monolitica
intelligenza.”
Taci.
Respira. Conta. Battito accelerato, occhi umidi. Pinne nasali
arrossate.
Paracetamolo, senza ombra di dubbio. O una pallottola, magari, sparata
dritta
attraverso la vecchia, cigolante porta del bagno, odiosamente azzurra.
Un foro
fumante. Un corpo accasciato sul pavimento del bagno o del corridoio,
gli occhi
vitrei. Sangue sulle pareti.
“Mycroft,
non ho intenzione di uscire da questo bagno finché non ti
leverai dai piedi.
Sono stato chiaro?”
“Non
ho intenzione di andarmene da qui finché non avremo
parlato.”
Un
ringhio. “Senti un po’, oggi non hai qualche
riunione super segreta? E che ne è
stato di quel conflitto atomico da causare in qualche remota regione
del globo?
Per quale ragione…” Sherlock sbiancò.
Accantonate le visioni di sangue e
schegge di legno, fece un balzo felino verso la porta e la
spalancò d’impulso.
Mycroft, appoggiato alla parete, non diede alcun segno di sorpresa o di
spavento. Impeccabile nel suo completo marrone, storse appena il naso
alla
vista del suo degenere fratello minore in tenuta da bagno.
Ciononostante,
sorrise educatamente.
“Per
quale ragione ti trovi in casa mia a quest’ora?”,
lo aggredì Sherlock. “Da
quanto tempo sei qui? E perché ti sei messo a
spiarmi?”
“Ma
Sherlock”, rispose Mycroft, senza perdere la compostezza,
“io ti spio sempre,
qualora non l’avessi ancora
afferrato.”
“Sì,
ma non a quest’ora del mattino!” sbraitò
Sherlock.
“Ho
soltanto pensato che, dopo i recenti
avvenimenti” Mycroft sembrò esitare, ma solo per
un attimo “tu potessi
commettere qualche sciocchezza e che necessitassi di un
sostegno.”
“Mycroft,
questo è davvero commovente”,
replicò
Sherlock con amara ironia. “Sfortunatamente per le tue ansie
da eroina, non ho
assolutamente nulla che non vada. Ho intenzione di continuare a stare
benissimo
per ancora lungo tempo. C’è solo un macroscopico
dettaglio che mi impedisce di
portare a termine i miei piani, e non ha a che fare con la
febbre.” Lo guardò
in cagnesco, mentre lo diceva.
Mycroft
fece un passo verso il fratello minore, con il fantasma di un sorriso
colmo di
tristezza sospeso sulla sua bocca serrata.
“Ricordo
che quando eravamo bambini avevi un’irritante tendenza a
entusiasmarti per
qualsiasi cosa ti si parasse davanti”, disse. Sherlock
sgranò gli occhi,
disgustato. “Per favore, Mycroft…”
Il
fratello lo interruppe. “Qualsiasi cosa”,
ripeté. “Il ronzio del frigorifero,
lo scorrere dell’acqua nel lavabo, i pulsanti del
telecomando. Eri sempre
pronto a chiedere perché.
Come. Passavi giorni interi in
giardino,
cercando di indovinare tutte le diramazioni possibili delle radici
delle piante
sotto il terreno. Ricordi che prendevi piccoli appunti su un quadernino
viola?
Un passatempo davvero affascinante.”
“Abominevole”,
ribatté Sherlock.
Mettergli
le mani al collo? Comprimere con particolare attenzione le arterie
carotidi?
Compiere una rotazione di approssimativamente novanta gradi e cercare
rifugio
in camera da letto? Attendere? Capire dove vuole arrivare?
“Sfortunatamente,
forse proprio a causa della tua natura volubile, la tua inesauribile
curiosità
non riusciva a restare concentrata per troppo tempo. Nel giro di
qualche giorno
eri annoiato e scontroso come se tutto quello che avevi esplorato e
scoperto
non avesse più alcun tipo di valore per te”,
Mycroft sorrise senza scoprire i
denti. “In un certo senso, un preludio a quella che sarebbe
stata la tua vita di
oggi.”
“Sono
profondamente toccato da questo felice ricordo d’infanzia.
Grazie del tuo
tempo, Mycroft, buona giornata”. Sherlock si volse e
rientrò nel bagno
sbattendo la porta. Attese qualche secondo, aspettando di udire un
rumore di
passi che si allontanavano lungo il corridoio.
“Sono
ancora qui”. Quasi avesse intuito i suoi pensieri. Sherlock
strinse
istintivamente i pugni. Se non se ne va entro cinque secondi lo
colpisco,
pensò.
“Ti
dirò, Sherlock, che questo tuo piacere di scoprire e
sperimentare quante più
cose possibile riguardava anche il cibo. Nostra madre ne era deliziata,
ricordi? Non appena qualcosa ti risultava particolarmente gradito, lei
provvedeva a prepararlo, o comprarlo, più spesso, in modo
che potessi gustarlo
quando più lo preferivi. Davvero un esempio di formidabile
amore materno. Ma la
tua volubilità viziava anche questo processo. Ricordo intere
scatole di
biscotti ancora chiuse per mesi in dispensa senza che tu le toccassi.
Senza che
ci pensassi.”
Oh.
Ecco dove vuole andare a parare.
“C’era
solo una cosa che sembrava
sfuggire a
questa legge implacabile. È buffo che abbia dei ricordi
talmente dettagliati in
merito.”
“Buffo
davvero”, rispose Sherlock, ma la sua voce si
affievolì mentre lo diceva.
“Il
cioccolato. Stecche intere scomparse nel giro di uno o due giorni. Ti
nascondevi in solaio e mangiavi con voracità impressionante.
Mamma non capiva,
faceva spallucce e nel giro di poco tempo tornava a casa con
quantità ancora
maggiori. Il più delle volte pensava addirittura che fossi
io il responsabile.”
“Ti
sbagli di grosso, Mycroft, perché non mangio più
cioccolato da anni. E prima
che tu possa elaborare qualche stupida teoria sulle mie gravi carenze
affettive, io…”
“Quello
che voglio dire, Sherlock, è questo: ho
l’impressione che negli ultimi anni tu
abbia trovato qualcosa o qualcuno
che
sfuggisse davvero, definitivamente e per sempre, a questa terribile
legge che
regola la tua vita.”
Ucciderlo.
Occultarne il cadavere. Potrei farlo prima che arrivi Mrs. Hudson con
il tè.
La
voce di Mycroft si fece più bassa e roca. “E che
ora questo qualcosa o qualcuno
sia, per un insieme di fattori, sfuggito a te, al tuo controllo. Per la
prima
volta. Una situazione oltremodo inedita.” E questo, Sherlock,
aggiunse Mycroft
silenziosamente, mi spaventa. Non puoi immaginare quanto.
Uno,
due, tre, quattro secondi. Poi Sherlock parlò con voce
neutra.
“Il
qualcosa o qualcuno cui fai riferimento con le tue
assurdità, Mycroft –
davvero, non ci sono altre parole per descriverle – se non ho
capito male, ha
soltanto cambiato abitazione. Non so se sai come funziona, ma il
matrimonio
implica il vivere sotto lo stesso tetto. Niente è sfuggito
al controllo di
nessuno. Ora sparisci.”
Un
sospiro. “Oh, Sherlock.”
“Vattene.”
Sherlock
rimase in attesa, fremente. Mycroft sembrò esitare solo per
qualche attimo, ma
poi alzò le spalle e si avviò a passi lenti lungo
il corridoio, facendo
picchiettare l’ombrello sul pavimento. Si fermò
sulla soglia dell’appartamento,
in attesa. L’orribile, grigio silenzio persistette per un
altro istante,
spezzato dal ronzio del phon azionato da Sherlock. Solo allora Mycroft
discese
le scale, già inghiottito dalle incombenze della giornata
crescente.
Dopo
essersi asciugato e vestito, Sherlock raggiunse il minuscolo soggiorno
e
sedette nella sua poltrona, congiungendo le punte delle dita. Fissava
ostinatamente la lampada della cucina, facendo correre lo sguardo sui
mobili
che aveva di fronte. Tutto gli sembrava orrendamente spoglio da quando
John
aveva raccolto le sue cose in alcuni scatoloni, in modo da renderne
più agevole
il trasporto verso la nuova casa che divideva con Mary.
È
sposato, si disse, da due giorni e diciannove ore. Paracetamolo, senza
dubbio.
Non ricordavo il dettaglio del cioccolato. È sposato.
Sessantasette ore. Sono
già sessantasette ore? Mycroft dev’essere
completamente impazzito. Paracetamolo
e cocaina non vanno molto d’accordo, non è vero? Oh, Sherlock. Oh, John, sparisci anche
tu. Forse il paracetamolo
può attendere, si disse.
Mycroft
si sbaglia, come sempre. È questa
l’unica cosa di cui non posso davvero fare a meno. John non
ha mai costituito
un qualcosa da cui dipendere. Perché mai avrebbe dovuto?
Cocaina e soluzione
acquosa, un ago sottile, la mia vena pulsante in evidenza. È
l’unica cosa cui
ambisco, l’unica cosa di cui ho bisogno per non marcire, per
non consumarmi.
Ricordo un giorno luminoso e un grosso pezzo di cioccolato che non
avevo ancora
finito di masticare. Ricordo quel sapore. Non mi ha mai abbandonato.
Mycroft ha
davvero un’immaginazione fervida. La febbre mi rende
sentimentale, oltre che
incredibilmente debole. Dove diavolo avrò messo la siringa? Oh, Sherlock. Oh, John, vattene,
sparisci.