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Autore: Dolores Haze    14/12/2015    3 recensioni
“Quello che voglio dire, Sherlock, è questo: ho l’impressione che negli ultimi anni tu abbia trovato qualcosa o qualcuno che sfuggisse davvero, definitivamente e per sempre, a questa terribile legge che regola la tua vita.”
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Sir Arthur Conan Doyle, Steven Moffat e Mark Gatiss.

Riferimenti a persone o avvenimenti reali o ad altre storie pubblicate su questo sito sono puramente casuali e involontari. 

Questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

 

 

Il giorno grigiastro filtrava attraverso le imposte mal accomodate, illuminando la piccola stanza. Il pavimento era occupato da un tappeto logoro, una pila di grossi manuali di medicina e un calzino bianco, appallottolato con malgarbo. Il suo gemello giaceva a pochi centimetri di distanza, ma più in alto, adagiato per un quarto sul letto, pronto a scivolare al suolo alla minima spinta. Il comodino impolverato recava tracce di un recente passaggio, lì dove le dita di una mano avevano annaspato alla ricerca della sveglia, lasciando tracce come pennellate sul legno. La sveglia aveva trillato sino a spegnersi, un suono orribilmente deformato dal contatto con il suolo. Le lenzuola erano un guazzabuglio, spiegazzate all’inverosimile e leggermente umide di sudore, il guanciale ripiegato come se fosse stato colpito da dei pugni chiusi. Ferito dalla luce incombente, l’uomo si trascinò con lentezza insonnolita sino al bagno, dove, abbandonato il lungo lenzuolo entro il quale era andato avvolgendosi, si infilò malvolentieri sotto il getto d’acqua fredda della doccia. Chiuse gli occhi, ma non ne ricavò alcun tipo di sollievo. Aveva la bocca impastata, la testa dolente, gli arti intorpiditi. Si lavò con poca attenzione, sentendosi istupidito a tal punto da temere di dover trascorrere la giornata a letto, in una nube di malessere e incoscienza.

“A giudicare dal tuo passo strascicato, fratellino caro, ho l’impressione che tu sia particolarmente a disagio per qualcosa”. La voce di Mycroft sembrò insinuarsi dalla fessura della porta chiusa con melliflua rapidità.

“Considerando che mi sono svegliato da poco, fratello”, ribatté Sherlock, uscendo dalla doccia e avvolgendosi in un asciugamano pulito “la tua impressione circa il mio presunto disagio può considerarsi erronea solo per metà.” Un secondo asciugamano andò a ricoprirgli il capo. “A meno che tu non conosca qualcuno che al mattino, posati i piedi sul pavimento, si sollevi e vada a fare colazione levitando. Riconoscerai un insolito ottimismo nelle mie parole, dal momento che posso fare un rapido calcolo sull’effettivo numero di persone che hai conosciuto nella tua vita e tale stima non supera il totale dei chilogrammi che il medico ti ha prescritto di perdere. Impressione erronea, dunque.”

Mycroft non replicò subito. Stava ridendo. Sherlock afferrò con malgarbo l’ennesimo asciugamano e se lo pose sulle spalle bagnate. Chiuse gli occhi, beandosi dell’improvvisa, quanto fugace, quiete appena creatasi.

Ma avrebbe avuto vita breve.

“Come hai già lodevolmente rimarcato, fratellino” di nuovo quella voce petulante “si tratta di un’impressione erronea per metà. E il tuo impeccabile ottimismo la dice lunga sull’affetto che provi nei miei riguardi.”

“Prima che ti risponda davvero male, Mycroft, sparisci.”

“Tu sottovaluti i segnali del corpo, Sherlock, dovresti soffermarti sulla natura profonda nascosta dietro questa febbricola improvvisa. Paracetamolo, dunque?”

Respiro.

“Il disagio circa il quale deliravi poc’anzi è meramente corporale, Mycroft. Dato che mi stai tediando e che forse questo servirà a levarti dai piedi, spezzerò una lancia in tuo favore. Goditi il momento, potrebbe non ripresentarsi prima della prossima glaciazione. Dunque. Prima impressione: corretta. Effettivamente non mi sento bene. Febbricola, giusto. Molto probabile. La mia camminata ti ha suggerito che avessi qualcosa che non vada. Impressione ricavata, tuttavia, da una deduzione grossolana conseguente ad una mancata contestualizzazione. Il mio caro fratellino si trascina, o che diavolo ne so, pertanto sta male, fisicamente o emotivamente. È mattina, Mycroft. Se consideri le tue premesse, chiunque appena sveglio potrebbe risultare un depresso cronico o un pericoloso terrorista, solo da come si avvicina al bagno. Non proprio l’ideale per uno che lavora per la Regina, non trovi?”. Sorriso.

Silenzio.

“Paracetamolo, dunque. Caso chiuso.” Riprese Sherlock, strofinandosi i capelli e riponendo l’asciugamano umido. Si guardò attorno alla ricerca del phon.

“Davvero sbalorditivo. Ma tu non cammini così quando sei sveglio, Sherlock”, fu la risposta, pronunciata con tono incredibilmente serio, dall’altra parte della porta chiusa.

“Evidentemente cammino così quando sono sveglio, ma tu non puoi saperlo, per una serie di ragioni talmente ovvie che la sola idea di spiegartele mi provoca…”

“O forse posso saperlo, fratellino, per una serie di ragioni talmente ovvie che spiegartele equivarrebbe ad un vero e proprio insulto alla tua monolitica intelligenza.”

Taci. Respira. Conta. Battito accelerato, occhi umidi. Pinne nasali arrossate. Paracetamolo, senza ombra di dubbio. O una pallottola, magari, sparata dritta attraverso la vecchia, cigolante porta del bagno, odiosamente azzurra. Un foro fumante. Un corpo accasciato sul pavimento del bagno o del corridoio, gli occhi vitrei. Sangue sulle pareti.

“Mycroft, non ho intenzione di uscire da questo bagno finché non ti leverai dai piedi. Sono stato chiaro?”

“Non ho intenzione di andarmene da qui finché non avremo parlato.”

Un ringhio. “Senti un po’, oggi non hai qualche riunione super segreta? E che ne è stato di quel conflitto atomico da causare in qualche remota regione del globo? Per quale ragione…” Sherlock sbiancò. Accantonate le visioni di sangue e schegge di legno, fece un balzo felino verso la porta e la spalancò d’impulso. Mycroft, appoggiato alla parete, non diede alcun segno di sorpresa o di spavento. Impeccabile nel suo completo marrone, storse appena il naso alla vista del suo degenere fratello minore in tenuta da bagno. Ciononostante, sorrise educatamente.

“Per quale ragione ti trovi in casa mia a quest’ora?”, lo aggredì Sherlock. “Da quanto tempo sei qui? E perché ti sei messo a spiarmi?”

“Ma Sherlock”, rispose Mycroft, senza perdere la compostezza, “io ti spio sempre, qualora non l’avessi ancora afferrato.”

“Sì, ma non a quest’ora del mattino!” sbraitò Sherlock.

 “Ho soltanto pensato che, dopo i recenti avvenimenti” Mycroft sembrò esitare, ma solo per un attimo “tu potessi commettere qualche sciocchezza e che necessitassi di un sostegno.”

“Mycroft, questo è davvero commovente”, replicò Sherlock con amara ironia. “Sfortunatamente per le tue ansie da eroina, non ho assolutamente nulla che non vada. Ho intenzione di continuare a stare benissimo per ancora lungo tempo. C’è solo un macroscopico dettaglio che mi impedisce di portare a termine i miei piani, e non ha a che fare con la febbre.” Lo guardò in cagnesco, mentre lo diceva.

Mycroft fece un passo verso il fratello minore, con il fantasma di un sorriso colmo di tristezza sospeso sulla sua bocca serrata.

“Ricordo che quando eravamo bambini avevi un’irritante tendenza a entusiasmarti per qualsiasi cosa ti si parasse davanti”, disse. Sherlock sgranò gli occhi, disgustato. “Per favore, Mycroft…”

Il fratello lo interruppe. “Qualsiasi cosa”, ripeté. “Il ronzio del frigorifero, lo scorrere dell’acqua nel lavabo, i pulsanti del telecomando. Eri sempre pronto a chiedere perché. Come. Passavi giorni interi in giardino, cercando di indovinare tutte le diramazioni possibili delle radici delle piante sotto il terreno. Ricordi che prendevi piccoli appunti su un quadernino viola? Un passatempo davvero affascinante.”

“Abominevole”, ribatté Sherlock.

Mettergli le mani al collo? Comprimere con particolare attenzione le arterie carotidi? Compiere una rotazione di approssimativamente novanta gradi e cercare rifugio in camera da letto? Attendere? Capire dove vuole arrivare?

“Sfortunatamente, forse proprio a causa della tua natura volubile, la tua inesauribile curiosità non riusciva a restare concentrata per troppo tempo. Nel giro di qualche giorno eri annoiato e scontroso come se tutto quello che avevi esplorato e scoperto non avesse più alcun tipo di valore per te”, Mycroft sorrise senza scoprire i denti. “In un certo senso, un preludio a quella che sarebbe stata la tua vita di oggi.”

“Sono profondamente toccato da questo felice ricordo d’infanzia. Grazie del tuo tempo, Mycroft, buona giornata”. Sherlock si volse e rientrò nel bagno sbattendo la porta. Attese qualche secondo, aspettando di udire un rumore di passi che si allontanavano lungo il corridoio.

“Sono ancora qui”. Quasi avesse intuito i suoi pensieri. Sherlock strinse istintivamente i pugni. Se non se ne va entro cinque secondi lo colpisco, pensò.

“Ti dirò, Sherlock, che questo tuo piacere di scoprire e sperimentare quante più cose possibile riguardava anche il cibo. Nostra madre ne era deliziata, ricordi? Non appena qualcosa ti risultava particolarmente gradito, lei provvedeva a prepararlo, o comprarlo, più spesso, in modo che potessi gustarlo quando più lo preferivi. Davvero un esempio di formidabile amore materno. Ma la tua volubilità viziava anche questo processo. Ricordo intere scatole di biscotti ancora chiuse per mesi in dispensa senza che tu le toccassi. Senza che ci pensassi.”

Oh. Ecco dove vuole andare a parare.

“C’era solo una cosa che sembrava sfuggire a questa legge implacabile. È buffo che abbia dei ricordi talmente dettagliati in merito.”

“Buffo davvero”, rispose Sherlock, ma la sua voce si affievolì mentre lo diceva.

“Il cioccolato. Stecche intere scomparse nel giro di uno o due giorni. Ti nascondevi in solaio e mangiavi con voracità impressionante. Mamma non capiva, faceva spallucce e nel giro di poco tempo tornava a casa con quantità ancora maggiori. Il più delle volte pensava addirittura che fossi io il responsabile.”

“Ti sbagli di grosso, Mycroft, perché non mangio più cioccolato da anni. E prima che tu possa elaborare qualche stupida teoria sulle mie gravi carenze affettive, io…”

“Quello che voglio dire, Sherlock, è questo: ho l’impressione che negli ultimi anni tu abbia trovato qualcosa o qualcuno che sfuggisse davvero, definitivamente e per sempre, a questa terribile legge che regola la tua vita.”

Ucciderlo. Occultarne il cadavere. Potrei farlo prima che arrivi Mrs. Hudson con il tè.

La voce di Mycroft si fece più bassa e roca. “E che ora questo qualcosa o qualcuno sia, per un insieme di fattori, sfuggito a te, al tuo controllo. Per la prima volta. Una situazione oltremodo inedita.” E questo, Sherlock, aggiunse Mycroft silenziosamente, mi spaventa. Non puoi immaginare quanto.

Uno, due, tre, quattro secondi. Poi Sherlock parlò con voce neutra.

“Il qualcosa o qualcuno cui fai riferimento con le tue assurdità, Mycroft – davvero, non ci sono altre parole per descriverle – se non ho capito male, ha soltanto cambiato abitazione. Non so se sai come funziona, ma il matrimonio implica il vivere sotto lo stesso tetto. Niente è sfuggito al controllo di nessuno. Ora sparisci.”

Un sospiro. “Oh, Sherlock.”

“Vattene.”

Sherlock rimase in attesa, fremente. Mycroft sembrò esitare solo per qualche attimo, ma poi alzò le spalle e si avviò a passi lenti lungo il corridoio, facendo picchiettare l’ombrello sul pavimento. Si fermò sulla soglia dell’appartamento, in attesa. L’orribile, grigio silenzio persistette per un altro istante, spezzato dal ronzio del phon azionato da Sherlock. Solo allora Mycroft discese le scale, già inghiottito dalle incombenze della giornata crescente.

Dopo essersi asciugato e vestito, Sherlock raggiunse il minuscolo soggiorno e sedette nella sua poltrona, congiungendo le punte delle dita. Fissava ostinatamente la lampada della cucina, facendo correre lo sguardo sui mobili che aveva di fronte. Tutto gli sembrava orrendamente spoglio da quando John aveva raccolto le sue cose in alcuni scatoloni, in modo da renderne più agevole il trasporto verso la nuova casa che divideva con Mary.

È sposato, si disse, da due giorni e diciannove ore. Paracetamolo, senza dubbio. Non ricordavo il dettaglio del cioccolato. È sposato. Sessantasette ore. Sono già sessantasette ore? Mycroft dev’essere completamente impazzito. Paracetamolo e cocaina non vanno molto d’accordo, non è vero? Oh, Sherlock. Oh, John, sparisci anche tu. Forse il paracetamolo può attendere, si disse.

Mycroft si sbaglia, come sempre. È questa l’unica cosa di cui non posso davvero fare a meno. John non ha mai costituito un qualcosa da cui dipendere. Perché mai avrebbe dovuto? Cocaina e soluzione acquosa, un ago sottile, la mia vena pulsante in evidenza. È l’unica cosa cui ambisco, l’unica cosa di cui ho bisogno per non marcire, per non consumarmi. Ricordo un giorno luminoso e un grosso pezzo di cioccolato che non avevo ancora finito di masticare. Ricordo quel sapore. Non mi ha mai abbandonato. Mycroft ha davvero un’immaginazione fervida. La febbre mi rende sentimentale, oltre che incredibilmente debole. Dove diavolo avrò messo la siringa? Oh, Sherlock. Oh, John, vattene, sparisci.

   
 
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