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Autore: Dolores Haze    23/12/2015    1 recensioni
“Quello che voglio dire, Sherlock, è questo: ho l’impressione che negli ultimi anni tu abbia trovato qualcosa o qualcuno che sfuggisse davvero, definitivamente e per sempre, a questa terribile legge che regola la tua vita.”
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La sensazione era simile a quella che avrebbe provato se si fosse immerso in un oceano di miele, di melassa, di ambra. Sognò (o credette di sognare) di nuotare in quel mare quieto e silenzioso, osservò (o credette di osservare) il proprio corpo confondere i colori con quanto lo circondava. Lampi di azzurro, di bianco, di bruno, di oro pallido, entro i quali cominciavano ad insinuarsi subdolamente altre sfumature, ben più reali e concrete. Sentì bruciore, umido, si volse di scatto su un fianco, scalciò con disperazione, già saturo di quel languore obnubilante, del quale non riusciva a liberarsi. Sgranò gli occhi ciechi per un solo istante, subito dopo dovette richiuderli. Gemendo, o credendo di gemere, annaspò alla ricerca del lenzuolo per avvolgervisi all’interno, in una sequenza di gesti noti alla parte muta e inconscia del proprio corpo, e pertanto non necessitanti di essere organizzati in modo razionale dall’intelletto piegato ad un’altra volontà.

Un colpetto di tosse lo sconvolse: il suo sogno, o quel che ne rimaneva per tormentarlo, era profondo a tal punto che qualsiasi suono sarebbe giunto amplificato in modo straziante alle sue orecchie. Così fu. Aprì gli occhi, terrificato. Oltre un velo di sudore e bruma di stanchezza, conseguenza di un sonno agitato e discontinuo, distinse nettamente una figura familiare sullo sfondo del muro crivellato da proiettili – colpa della sua accidia, del suo tormento, della dannata febbricola che lo insidiava da settimane. Il suo battito cardiaco accelerò senza preavviso.

Sulla soglia dell’appartamento si stagliava una figura nota, ma sconosciuta: ad un primo sguardo, essa sembrava un assemblaggio di più parti, ciascuna appartenente ad un individuo diverso. Sherlock distinse nettamente le piccole scarpe di Mrs. Hudson, recanti piccoli sbaffi di farina sulle punte, le quali spuntavano al di sotto di un completo gessato che sembrava quello di Mycroft, ma non poteva trattarsi davvero di lui, perché le mani, abbandonate lungo i fianchi, erano troppo piccole e delicate, più probabile che appartenessero a una donna. L’orologio al polso della mano sinistra era di Lestrade, poco ma sicuro: cinturino vecchio, logoro, quadrante graffiato. Risalendo con lo sguardo, Sherlock credette di intravedere un ciuffo di capelli biondi, ma il volto che ne ricambiava lo sguardo era sdoppiato, dai confini sfocati, impossibile da localizzare o riconoscere in alcun modo.

La razionalità prevalse sull’irrazionalità. Sto sognando, pensò. Guarda un po’ come funziona bene il mio meccanismo di censura onirica.

Udì nuovamente quel colpetto di tosse. Sherlock si ritrasse istintivamente. La strana figura mosse qualche passo verso di lui, che giaceva riverso sul pavimento accanto alla sua poltrona. Messa a fuoco con maggiore chiarezza, apparve per quel che era: grottesca, nauseante, terrifica. Una mano recava un lungo, lucente coltello.

“Non puoi farlo”, credette di bisbigliare Sherlock con un filo di voce. La figura, apparentemente sorpresa, si fermò con il braccio levato. “L’attività del mio sistema reticolare attivatore ascendente sta per intensificarsi. Ciò significa che mi sveglierò da un momento all’altro, prima che tu possa colpirmi.”

La figura sembrò sorridere. “Dunque tu credi che durante la tua veglia io svanisca, come se esistessi soltanto nei tuoi sogni?”

Sherlock si irrigidì. “Come dici?”

“Sono sempre con te, Sherlock. Un abbozzo rudimentale di tutto ciò cui tieni maggiormente, senza che possa comprenderlo sino in fondo quando sei cosciente. È solo nel sogno che ti accorgi davvero di quanto sono potente”.

“Credo di capire. È per questo che mi mostri quel coltello? Simboleggia il tuo presunto potere su di me?”

“No”, rispose la figura, con un’inflessione nel tono che a Sherlock ricordò orribilmente la voce di John. “Lo faccio perché tu possa ricordartene sempre”.

Calò di scatto il coltello su di lui, mirando al volto. Preso alla sprovvista, Sherlock non riuscì a ritrarsi in tempo, ma sollevò d’istinto una mano per proteggersi: la lama lo colpì sul palmo, tagliandolo appena, senza trafiggerlo. Con uno scatto colmo di rabbia selvaggia la figura impugnò il coltello con entrambe le mani, pronta ad assalirlo nuovamente…

Con un sussulto, Sherlock spalancò gli occhi: fu costretto a richiuderli quasi subito, a causa della luce che inondava la stanza. Si mise a sedere tra le lenzuola spiegazzate, mentre gli ultimi palpiti di irrazionalità, che lo stavano via via abbandonando, lo spinsero a guardarsi le mani e a toccarsi in volto. Il palmo della mano sinistra bruciava appena: non senza sorpresa, Sherlock vi riconobbe un filo di sangue fresco appena combaciante con la plica centrale.

Il telefonino posato sul comodino vibrò appena. Il suono distolse Sherlock dalle proprie cupe meditazioni: digitò il codice di sblocco e lesse il messaggio che Lestrade gli aveva appena inviato.

C’è qualcosa di interessante per te.

Meccanicamente, Sherlock digitò in risposta:

Dove? SH

 

“Sono sorpreso che tu ci abbia raggiunto senza fare le tue solite domande”.

“Sono sorpreso che mi abbiate chiamato soltanto adesso. A giudicare dalla tua faccia e dai tuoi vestiti, ci stai lavorando almeno da ieri sera.”

“Sì”, sospirò Lestrade, passandosi una mano sui capelli cortissimi “ma non sono ancora riuscito a ricavarne nulla. Un tuo parere accelererà i tempi. Ben tornato, a proposito. Anche tu sembri aver trascorso una notte piuttosto movimentata.”

Sherlock fece una smorfia. “Non sai quanto.”

I due uomini percorsero il vialetto che conduceva all’ingresso principale del vecchio edificio. Sherlock, nonostante il grigiore della giornata e l’umidità pressante, la mancanza di sonno e la linea di sangue che si era ritrovato sulla mano sinistra, avvertì un palpito di eccitazione quando oltrepassarono il nastro giallo e varcarono la soglia.

La costruzione era decadente e indebolita dalla mancanza di cura e dall’impetuosità con cui i fenomeni atmosferici l’avevano funestata: volgendo attorno lo sguardo, non era raro trovare i resti di finestre frantumate, calcinacci impolverati e lunghe crepe sui muri ingialliti, dalle quali faceva capolino vegetazione selvaggia. La luce era smorta e un senso di desolazione ne opprimeva le pareti. Un’antica dimora signorile. Costruita probabilmente nei primi anni dell’Ottocento e abbandonata da almeno dieci anni, considerando gli ultimi lavori di ristrutturazione operati in quella zona dell’ingresso. Sherlock non si rese conto di aver pensato ad alta voce.

“Apparteneva ad una famiglia di ereditieri emigrata in Sudamerica da decenni”, aggiunse Lestrade, mentre salivano le scale che conducevano al piano superiore. “Abbiamo controllato la documentazione.”

“Lo stato dell’immobile suggerisce che nessuno dei famigliari rimasti se ne prenda cura”, rispose Sherlock pensosamente. “Perché dovrebbe interessarmi?”

“Non ci sono famigliari rimasti a prendersene cura, Sherlock. C’è solo un custode, un uomo anziano che vive nei dintorni e periodicamente visita la casa per accertare che sia tutto a posto”, rispose Lestrade, avviandosi verso il corridoio.

“Cioè per verificare che tutto continui a cadere a pezzi e a danneggiarsi?”, replicò Sherlock, pungente.

“Qualcosa del genere”, fu la risposta di Lestrade. “In ogni caso, nel tardo pomeriggio di ieri il signor Hughes ha trovato una bella sorpresa durante la sua ispezione.”

Riluttante, Sherlock lo seguì. “Sta davvero arrivando Natale. Più si avvicina il giorno del tuo viaggio in Dorset, più diventi cinico.”

“Ah, io?”, replicò l’ispettore.

La stanza non era molto grande, polverosa e decadente al pari di quanto già aveva avuto modo di osservare. Alle pareti marciva una carta da parati che doveva essere stata elegante, beige con decorazioni floreali. Grosse macchie di umidità si allargavano agli angoli del soffitto. Non vi erano quadri o arazzi di alcun tipo, solo un lampadario imponente, dai lunghi bracci affusolati color oro, e un pianoforte, lucido, scoperchiato. Alla destra di Sherlock si trovava una toeletta in legno scuro, il cui specchio attraversato dalle crepe restituì il riflesso di un uomo lungo, pallido, smunto, terribilmente rassomigliante alla figura composita del sogno di quella mattina. Voltando il capo, Sherlock scacciò quel pensiero. A sinistra, accanto al pianoforte, si trovava un pesante tavolo nero, adagiato su un tappeto di color rosso, che contrastava terribilmente con il pallore marmoreo del pavimento.

Era una scena che Sherlock aveva osservato innumerevoli volte: gli uomini della Scientifica, intabarrati in quelle tute che li rendevano simili ad astronauti su un pianeta sconosciuto, si affaccendavano intorno a dettagli ed elementi che in un’altra circostanza sarebbero stati privi di interesse. Questa è la giustizia perversa dell’omicidio, si disse amaramente mentre si dirigeva verso il gruppo, infilandosi un guanto in lattice. Rende visibile ciò che dovrebbe restare occulto, che grida e che si dibatte per emergere alla superficie.

È morto da almeno dodici ore. Giovane, bruno, anonimo, sulla trentina. “Nessun segno di violenza? Di colluttazione?” No. Non è ironico? Sembra quasi che dorma. “Che ci faceva qui?”, chiese seccamente. “È questo che ti sto chiedendo di capire”, borbottò Lestrade in risposta, ma Sherlock non lo udì. Carnagione chiara. Due nei sul sopracciglio destro, setto nasale appena deviato. Cianosi. Occhiali… inseriti in una busta per i rilievi, lenti incrinate. Collo sano, intatto. Segni di strangolamento assenti. Passò un dito sulla camicia scura, sfiorando i bottoni, la piccola tasca. Che ci facevi qui? Sapevi che stavi andando incontro a qualcosa di ben più… “Oh.” Un collarino ecclesiastico. Un collarino ecclesiastico?

Lo estrasse con delicatezza. Lestrade lo fissò come se fosse un insetto. “E questo?”

“E questo?” gli fece eco Sherlock, sarcastico. “A quanto pare la matassa è parecchio ingarbugliata. Dunque. Uomo bianco sulla trentina.” John. John saprebbe. Lo capirebbe in pochi secondi. Dieci. Facciamo quindici. “O forse dovrei dire sacerdote bianco sulla trentina. Cianotico, volto congestionato. Paralisi respiratoria e arresto cardiaco, ad un’occhiata superficiale. Aspetta”, alzò una mano, interrompendo Lestrade, del quale aveva percepito la lieve esitazione verbale. Il detective sospirò. “So cosa stai per dire”, proseguì Sherlock. “Non ci sono segni di violenza o di colluttazione. Tutto lascia presagire che quest’uomo sia giunto qui da solo, e che da solo sia morto. Niente di più sbagliato. Per due ragioni.”

Straordinario. Sta’ zitto, John.

“Sentiamo”, mormorò Lestrade.

“Primo: il collarino ecclesiastico male occultato in una tasca della camicia. Quest’uomo doveva incontrare qualcuno, qualcuno che probabilmente conosceva e di cui si fidava. Qualcuno”, proseguì Sherlock, scrutando profondamente il volto inespressivo dell’uomo disteso sul pavimento “con cui a quanto pare aveva una relazione. Di qualsiasi tipo. Forse complicata, forse no.” Ironico, no? Cos’è più ironico? Che lo stia pensando adesso o che lo stia pensando per la seconda volta in pochi minuti? “Ha rimosso il collarino, ma non lo ha nascosto. Perché farlo? Probabilmente anche chi era con lui sapeva che era un sacerdote. Probabilmente volevano dimenticarsene entrambi per qualche tempo.”

“Entrambi? Cosa ti fa credere che ci fosse solo un’altra persona con lui?”

“Guarda questa stanza, Lestrade, e trai le tue conclusioni. Una decadente toeletta, un pianoforte scordato… non lo trovi romantico? Direi che un simile scenario ammette un massimo di due individui, non uno di più.”

“Tu credi che quest’uomo si sia incontrato qui con… un’amante?”. Lestrade abbassò la voce mentre parlava, lanciandosi occhiate furtive intorno. Lo inchiodò con uno sguardo cocente. Sherlock rimase impassibile. “Ti rendi conto di quello che stai dicendo?”

“Io non credo proprio nulla, Lestrade, deduco e basta”, rispose seccamente Sherlock.

Lestrade strinse le labbra. “E la seconda ragione?”

“Molto bene, Graham…”

“Greg!”

“Greg. Considerando il modo in cui il cristianesimo fa del martirio il proprio segno di riconoscimento, per quale ragione quest’uomo avrebbe dovuto morire nel silenzio e nell’ombra, se avesse voluto suicidarsi? Ho scritto un articolo sull’ipertrofia che sembra caratterizzare l’ego di molti ecclesiastici…”

“Questa”, lo interruppe Lestrade “mi sembra, più che una deduzione, una convinzione personale gratuita…”

Sherlock sorrise, visibilmente divertito. “Infatti. La vera ragione è che questo è un luogo perfetto per un omicidio. Fuori mano, isolato, abbandonato.” Sentì un’eccitazione crescente, mentre lo diceva. Il tedio nichilista è finito, si disse, fremente. I giochi si riaprono. “Guardalo e dimmi cosa vedi.” Lestrade fece per parlare, confuso. Sherlock lo interruppe. “Cianotico, congestionato, l’ho già detto. E sudato, anche se gran parte delle secrezioni sono evaporate. Probabilmente avrà dei segni di emorragie puntiformi a livello delle congiuntive. Tutto lascia presagire, Lestrade, che quest’uomo sia morto per avvelenamento.”

Si volse nuovamente a guardarlo. Morire per avvelenamento non dev’essere affatto facile, si disse. Eppure il suo volto ha un’espressione talmente quieta… Le mani. Non ho controllato le mani. Sherlock, fratellino, perdi colpi? Sta’ zitto, Mycroft, o ti ritroverai quell’odioso ombrello in zone indesiderabili.

“Che prove hai per dimostrarlo?”, stava chiedendo Lestrade. Ma come in un lungo, turbinoso sogno, Sherlock rimase folgorato dalla mano sinistra del sacerdote, la quale era serrata in un pugno apparentemente impossibile da sciogliere, a differenza della destra, che ricadeva invece inerme di lato. Con non poca difficoltà Sherlock vi riuscì, manovrando le dita irrigidite con una disinvoltura acquisita negli anni trascorsi a sperimentare sui cadaveri del Bart’s.

“Oh.” Per la seconda volta. È davvero questo ciò per cui vivi? È davvero così emozionante? Oh, Mrs. Hudson, non può sapere quanto. “Guarda un po’.”

Lestrade si chinò per guardare. “Cosa diavolo…?”

“Non c’è bisogno di una millenaria esperienza in botanica per sapere che questo è un fiore di aconito, Lestrade. Viola, forma conica, pochi petali. Tre milligrammi dell’alcaloide aconitina possono uccidere un uomo adulto. Un omicidio elegante, poetico. Quasi sadico, a dirla tutta. L’aconito non è propriamente l’ideale per una morte veloce e indolore.”

“Ma perché l’assassino avrebbe dovuto darci indicazioni riguardo l’arma del delitto?”

“Interessante domanda, Lestrade. Le ipotesi, a tal proposito, sono due. La prima ci dice che questo fiore costituisce una sorta di firma dell’assassino. È il suo modo per dirci: sono stato io. Sono proprio io. La seconda suggerisce che tutto questo sia frutto di una tragica fatalità. Considerando la rapidità e la considerevole diffusione di questo tipo di piante nelle campagne, probabilmente quest’uomo ha portato il fiore con sé… una sorta di galanteria dell’ultimo minuto.” Sherlock sorrise amaramente.

Lestrade chiuse gli occhi, spossato. “Bene, direi che è sufficiente, per ora. Ma questo non ci dice nulla sull’identità dell’assassino.”

“Interrogate gli abitanti della zona, chiedete loro se hanno visto strani movimenti nella serata di ieri”, replicò Sherlock. “Bussate a tutte le parrocchie e informatevi sull’identità di quest’uomo. Qualcuno starà sicuramente diffondendo la notizia della sua scomparsa.” Sherlock si sfilò il guanto in lattice, dopo aver riposto il fiore in una bustina di plastica trasparente. La consegnò ad un uomo della Scientifica e si volse nuovamente verso Lestrade. “E non siate tanto ottimisti: qualcosa mi dice che colpirà ancora. Ma io posso stanarlo prima che ciò accada effettivamente.”

Lestrade non replicò. Si limitò a scrutarlo con uno sguardo indecifrabile. Fu solo un istante, ma tanto bastò per innervosire Sherlock.

“Che c’è?”, sbottò.

“Niente”, replicò Lestrade con noncuranza. “Mi chiedevo se stessi bene, tutto qui.”

Sherlock ricambiò l’occhiata con rinnovata fierezza. Nonostante la lunga, sottile ferita che gli pulsava nella mano, non dissimile all’altrettanto lunga, fastidiosa, insostenibile ferita che da settimane lo tormentava e che tuttavia era ben più difficile da sanare… nonostante la febbre, la solitudine, la tristezza, i frequenti e incomprensibili incubi notturni, si sentiva forte, sicuro, rinvigorito. Non sorrise, ma si limitò a dire con calma:

“Io sto benissimo.”                          

 

Chiedo scusa sin da ora se qualche particolare (soprattutto dal punto di vista medico-legale) possa risultare inesatto o fuorviante. Ringrazio tutti coloro che hanno letto e recensito, in particolar modo Ayreon, justanothermuggle ed emerenziano. Le vostre parole mi hanno davvero riscaldato il cuore. Spero di non deludere le vostre aspettative. Amo moltissimo Sherlock e tutto ciò che desidero è percorrere le vie più impervie della mia stramba fantasia, senza sapere esattamente dove terminerà il cammino, tenuta per mano dai miei personaggi preferiti. Sarei felice se vorrete intraprendere questo percorso assieme a me.

Un bacio e buone feste a tutti,

alla prossima,

Denirose

   
 
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