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Autore: Alex Wolf    23/12/2015    1 recensioni
(Ambientata nel Giappone feudale)
Kunoichi, ninja donne che nel giappone antico venivano addestrate separatamente dai loro pari uomini. Sono elementi importanti in un clan quanto la controparte maschile, tant'è che il loro nome scomposto vuol dire sia "donna" che "una dei nove". Erano addestrate nell'arte della seduzione e nel combattimento corpo a corpo: spesso agivano usando veleni e armi nascoste come i Neko-te. Lavoravano puntando sui travestimenti che la loro femminilità gli permetteva di ricoprire, ed erano letali killer silenziosi.
Genere: Azione, Generale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Giappone feudale
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Ku No Ichi – Una dei nove  





Asciugò il sangue dell’uomo sopra la propria veste, gettata malamente poco lontano dal futon. Tagli rossi e scuri macchiarono la stoffa pregiata, inumidendola, allargandosi quasi a volere evidenziare il fatto che il lavoro era stato completato. Quello che non riuscì a togliersi dalle mani venne assorbito dal resto del vestiario dell’uomo, che poi venne bruciato senza lasciare traccia.
Le sue braccia, dita, ventre e gambe tornarono al pallore usuale che era abituata a vedere una volta che si fu lavata completamente. Era una tecnica che ormai era solita utilizzare dopo ogni assassinio: uno sfizio che sua madre, capo del Clan Mochizuki, le aveva sempre sconsigliato di sfamare. Ma, dopo uno scontro con un tipo del genere l’unica cosa che alla kunoichi era passata per la testa era stato un bel bagno; guarda caso, il bordello offriva in ogni stanza quel servizio. Si era fatta portare acqua calda, bollente, prima di uccidere l’uomo, in modo che pensassero fosse per lui e dopo aver compiuto la sua missione vi si era immersa. La temperatura, a quel punto, si era rivelata perfetta.
Si accarezzò il lungo e superficiale taglio che il mercenario le aveva fatto sulla pancia. Si era rivelato un osso più duro del previsto. Non aveva esitato a colpirla con la sua spada, ed era stato tanto veloce che all’inizio lei neppure aveva avuto il tempo di rendersene conto. Con il filo della lama le aveva tagliato il ventre, un graffio di poco conto, portandola a fare qualche passo indietro. Aveva finto di mancare di fiato, lui le si era avvicinato: allora si era alzata, aveva stretto gli occhi e gli aveva rifilato un pugno in pieno volto così forte da farlo svenire. Poi, si era poggiata sull’allenato petto nudo e aveva premuto i polsi contro i bicipiti. Le unghie dei neko-te non erano servite a infliggere lesioni mortali come durante le altre missioni, avevano solo punto leggermente la pelle abbronzata costellata di cicatrici. Il sangue dell’uomo le era finito sui palmi, sui polsi che successivamente lui aveva stretto in una presa ferrea e dolorosa. Con un colpo di reni aveva ribaltato la situazione.
Si era ritrovata stesa sotto quel corpo imponente che ombreggiava ogni cosa attorno a loro. Le aveva portato le braccia sopra la testa, quasi divertito dal fatto di essere preda di una kunoichi, e l’aveva penetrata con violenza più e più volte ridendo, stringendo ancora la mano sui suoi polsi stretti. Le aveva fatto male, come mai nessuno dei suoi avversari prima d’ora. Ma era stata in grado di sopportare tutto quello, sebbene non l’aveva mai calcolato nel suo piano originale. Poi, quando lui si era bloccato improvvisamente ed era uscito per non fecondarla, lei aveva reagito.
Aveva alzato una gamba con tanto slancio da farsi male da sola quando aveva raggiunto il suo obbiettivo. Lui si era afflosciato da un lato e lei aveva ripreso il controllo di tutto. Con un gesto veloce dei neko-te gli aveva trafitto la gola, profondamente. Il sangue era zampillato copioso sul pavimento e contro di lei; i rantoli del mercenario l’avevano accompagnato.
Inconsciamente, gli occhi scuri di lei si poggiarono sugli aloni viola che iniziavano a comparirle sulla pelle dei polsi, poi passarono alle dita: non si era resa conto di non essersi levata nemmeno gli artigli insanguinati. Uscì dalla vasca, asciugandosi e iniziò a slacciare le piccole cinghie dal polso. Il cinturino di cuoio tintinnò un poco a contatto con la prima unghia di metallo.
Bussarono. Lei si fermò, lasciando che la coda dell’occhio scivolasse sull’uscio socchiuso. Gli occhi della figura nascosta nell’ombra accennarono a un inchino, mentre si faceva avanti.
La matrona del Drago di Giada entrò silenziosa, tenendo fra le braccia abiti puliti. La kunoichi non si sentiva in minimo imbarazzo di fronte a lei, pur essendo nuda. Aveva imparato a non scomporsi mai, in nessuna occasione; dal canto suo, la donna si trovava davanti giovani nude ogni sera e non provava alcun sentimento in proposito. Ai cadaveri, invece, doveva ancora farci l’abitudine. La ragazza posò le armi sul davanzale della finestra.
«Grazie.»
«E’ un piacere.»
«Il tuo compenso è su quel tavolo.» Aveva una voce tanto calma e incolore che pareva provenire da qualcuno che non aveva mai provato emozioni. Simile a quella un prigioniero recluso in un posto lontano, da solo e ormai rassegnato al suo destino.
Per un attimo la matrona si ritrovò scossa da brividi, poi annuì, prese il sacchetto e uscì in silenzio. C’era tensione nell’aria che aleggiava in quella stanza ormai vuota.
Il cielo fuori si stava scurendo. Grandi nubi plumbee andavano a nascondere le stelle e di tanto in tanto qualche tuono squarciava la tranquillità. Nascosta nell’ombra tagliata dai fulmini la kunoichi iniziò a vestirsi. Scivolò nelle morbide stoffe di un lungo kimono rosa e bianco, arricchito da decorazioni di crisantemi. La matrona l’aiutò a sistemarlo e le acconciò i capelli con cura, sebbene la giovane percepisse la paura che aleggiava nel corpo della donna. Si truccò e poi alzò, come se nulla fosse mai accaduto.
Lanciando uno sguardo al cadavere dell’uomo, si ritrovò ad alzare le sopracciglia. Non represse la smorfia di indignazione che le salì alle labbra. Sdraiato per terra, nudo, sembrava un misero verme. Una descrizione che riproduceva quello che era stato in vita alla perfezione.
Aprì la porta della stanza e con l’accenno di un saluto alla sua ultima vittima sparì nella notte.
Sia lei che la matrona sapevano che sarebbe tornata molto presto; che non avrebbe esitato a ucciderla se questa volta si fosse fatta scappare di bocca qualcosa sul suo conto.
La kunoichi era al corrente che la stavano cercando per tutto il Villaggio di Kakunodate, era l’unico pensiero che le ronzava per la testa mentre scivolava nel buio oltre le scala, usciva in strada e si perdeva nel mare di gente. La caccia era aperta e questa volta lei non era solo il carnefice ma anche la preda, si ripeteva silenziosamente. Eppure, non si sarebbe fatta prendere così facilmente: era una componente del clan Mochizuki, le avevano insegnato a trovare sempre una via di fuga. Anche se questa era la morte. Doveva proteggere il clan e l’onore che portava da generazioni, non si poteva permettere di infangarlo facendosi scovare. Era un suo dovere.
Camminò silenziosamente fra le strade sterrate, alla luce delle lanterne variopinte attaccate fuori dai bordelli e dai negozietti che vendevano alcool e cibarie. In un certo senso non le dispiaceva trovarsi in quel luogo, perché a quell’ora tutto sembra riflettersi sulla realtà che la circondava con tanta intensità da annebbiarla. Era quasi rilassante. Si. Lo era. Finché un giovane uomo non la scontrò con la spalla e fu cacciata fuori dai suoi sogni a occhi aperti.
Lo osservò con sguardo indagatore, senza dimenticarsi di sorridere e nascondere poi metà del viso dietro il proprio ventaglio per poi andarsene.
Guardandosi attorno si assicurò che nessuno la seguisse prima di lasciare il quartiere rosso e nascondersi nelle tenebre. Scovò la maschera e il mantello, diventando finalmente un tutt’uno con la notte.


Se c’era una cosa che piaceva a Katashi erano i suoi libri: un intruglio di parole scritte a caso, contenuti quasi prettamente erotici e titoli idioti. E nessuno riusciva a capire perché quell’uomo se li portasse ovunque. Ne aveva sempre uno nascosto nella tasca del giubbino quando si metteva a pattugliare il paese, pronto a essere tirato fuori nei momenti meno indicati.
Makoto lo fissava di traverso, mentre cercava di tenere a freno la voglia matta di tirargli un pugno. «Ti sembra questo il momento giusto per leggere? Ti vorrei ricordare che c’è un assassino a piede libero da scovare» borbottò, puntandogli un dito al petto. Il jonin lo ignorò, girando concentrato una nuova pagina. «E tu faresti parte dei Nove, incredibile!» Lanciò le mani in aria e sbuffò ancora.
Con lo sguardo ancora concentrato sul suo amato racconto, il ninja sospirò. «Non ci vedo niente di male a leggere un po’.»
«Di la verità: tu credi che stasera non lo troveremo, non è forse così?»
«Esattamente.» Chiuse il racconto con un colpo secco e silenzioso, grattandosi poi la fronte con fare annoiato.
Makoto sapeva bene quanto la mente di Katashi fosse ben allenata e, sebbene ogni tanto i suoi comportamenti lasciassero a desiderare, non stentò a credere che dietro a quell’affermazione ci fosse una teoria elaborata nei minimi dettagli. Dopo tutto, si trattava della supposizione di un ex capo squadra; qualcuno che aveva lavorato con l’ingegno e la forza bruta sui campi di battaglia per un lungo tempo. Aveva rubato, ucciso innocenti in nome di qualcun altro: era stato un sicario, perciò capiva bene la mentalità della persona con cui adesso tutti loro avevano a che fare. Qualche volta, Makoto, non riusciva a capacitarsene; ma la realtà non poteva essere cambiata. Katashi era stato quello e il suo passato aveva strisciato sulla sua pelle lasciando segni indelebili.
Con un peso in più sullo stomaco, allontanando il volto da quello dell’amico concentrato nuovamente a leggere, il ninja moro alzò gli occhi al cielo poggiandosi al tronco dell’albero che li stava sorreggendo. Non c’erano più molte stelle ormai, la maggior parte erano state mangiate dalle nuvole di burrasca; le tenebre che stavano abbracciando il villaggio erano così dense che si poteva tagliarle con il coltello. E l’aria fredda, carica di elettricità sembrava voler annunciare solo e soltanto un’imminente tempesta. Ma che altro ci si poteva aspettare? Ormai l’inverno aveva ritardato anche troppo il proprio arrivo.
Un fruscio di foglie attirò la loro attenzione, portandoli a voltarsi. Mamoru si mostrò a loro con il solito sguardo annoiato, incrociò le braccia e spostò il bastoncino che teneva sempre in bocca da una arte all’altra delle labbra.
«Sono stati trovati altri due corpi.» Katashi affilò lo sguardo.
«Ha agito due volte questa notte?» Nelle sue parole c’era qualcosa di troppo avventato, veloce. Era come se neppure lui si potesse capacitarsi del fatto che quella sera un essere umano avesse potuto uccidere due persone a sangue freddo. Come se si fosse dimenticato che anche lui, una volta, aveva fatto di peggio.
Mamoru annuì, sbuffando fuori aria con fare annoiato.
«Questa cosa puzza. Comincio a pensare che farci impazzire sia la priorità di questo assassino.» Makoto poggiò una mano sotto il mento accarezzando la pelle bronzea con area cruciata.
«Dobbiamo ispezionare i corpi, non c’è tempo da perdere.»
«Si stanno già attrezzando per portarli quì, credo non ci vorrà molto.»
Prendendo un bel respiro, il jonin dai capelli d’onice proferì una semplice parola: «No.» Il vento sfiorò i suoi vestiti facendoli increspare. «Voglio esaminare le scene del crimine e i corpi, senza che niente venga mosso da dove si trova.»
Mamoru alzò un sopracciglio, dubbioso. «Di un po’ la verità, Katashi, tu vuoi solo entrare nei bordelli, non è così?»
«Pervertito» commentò Makoto.
«No, non è così» ribatté allora il terzo. Poi, accarezzandosi la testa sospirò: «Bè, non sarebbe male vedere qualche bella ragazza già che ci siamo.» I due ninja caddero a terra nel sentire quelle parole.
La strada per l’Asaken (赤線, letteralmente "linea-rossa", era così che veniva chiamato il quartiere a luci rosse nel Giappone feudale) non era molta da percorrere. I tre ninja del gruppo dei Nove non vi misero che pochi minuti per raggiungere il luogo in cui era stato commesso il primo omicidio.
Vestivano gli abiti della gente comune per non dare nell’occhio e saziavano i loro occhi con i corpi delle donne che li salutavano o che ammiccavano provocatorie. Alcune volte si fermavano davanti a qualche porta e, fingendosi indecisi, proseguivano.
«Santo cielo» esclamò Katashi non appena i suoi piedi si fermarono sulla soglia di quella che gli era sembrata una stanza qualunque, all’inizio.
«Hai visto?» Makoto si distanziò dal cadavere per raggiungere il nuovo venuto. «Pare che questo poveraccio sia incappato nell’ira di un Oni.»
«Già» ammise l’uomo, con voce vellutata come il vento.
Si ritrovava davanti a una scena sanguinaria e priva di tatto. Quello che restava del cadavere non era nulla più che un intruglio di sangue, budella e pezzi di pelle sbrindellata. Al volto, appena riconoscibile, erano stati cavati gli occhi.
Rinsavendosi, riuscendo a togliere la visuale da quel poveretto e a incentrarla sul compagno Katashi tirò un sospiro di sollievo. Si gratto una guancia, quasi fosse annoiato e chiese: «Dov’è Mamoru?» Essendo rimasto leggermente più indietro rispetto agli altri a causa di una ferita arrecatagli alla coscia in un combattimento recente, e in più concentrato su quello spettacolo agghiacciante, si era accorto solo in quell’istante dell’assenza dell’amico.
«Interroga la matrona del locale, al piano di sotto.»
«Capisco.» Si accucciò a terra in cerca di qualche indizio, ma in mezzo a quella confusione era impossibile trovarne qualcuno. In più, la puzza che la carne di quell’uomo emanava gli dava il volta stomaco ora che non indossava la divisa che gli copriva il viso. «Andiamocene, anche se volessimo ormai c’è poco da trovare in un luogo del genere. Prima, però, assicurati che ripuliscano tutto come se nulla fosse successo.»
«Certo.» Si lasciarono alle spalle il primo bordello con tanta velocità che persino loro si stupirono di quell’azione.
Avevano ancora l’aroma nauseabondo del cadavere che gli infestava le narici e speravano vivamente che il prossimo non puzzasse così tanto.

«Questo è messo meglio, non trovate?» Mamoru fece qualche passo in avanti curvandosi sul cadavere riverso a terra. «Almeno non odora come l’altro» sdrammatizzò il jonin, indicando con un dito i lunghi tagli che attraversavano il petto dell’uomo per poi analizzarli.
Non doveva avere più di trent’anni, pensò Katashi, e viste le molte ferite che gli costellavano la pelle era stato un mercenario. Sul petto erano ordinatamente posti cinque tagli, che però non avevano sanguinato tanto da sporcare il cadavere e il futon.
Accarezzandosi il volto Katashi sospirò. C’erano troppe cose che non tornavano in quella stanza. Tutto era troppo in ordine, e sebbene le mani dell’uomo fossero sporche di sangue il ninja era certo non fosse suo.
«Noti qualcosa di strano?» sussurrò Makoto affiancandosi.
«Guarda il cadavere, il disordine lasciato sul futon» bisbigliò Katashi, girovagando con gli occhi nei punti che lui stesso indicava, «e adesso, invece, nota come tutto il resto sembra non sia stato toccato. Persino gli abiti dell’uomo sono piegati con maestria e messi in una parte della stanza.» Il jonin si mosse, con passo silenzioso. Le assi scricchiolavano un poco sotto il suo peso, creando un rumore fastidioso.
Intanto, dalle altre camere giungevano gemiti di eccitazione. Katashi cercò di non dargli peso, sebbene non potesse non pensare che una notte di passione sarebbe piaciuta anche lui.
«Direi che, anche per questo, c’è poco da fare. D’ora in poi metteremo uomini sotto copertura in ogni bordello del quartiere» iniziò a elencare il giovane, l’amico che l’ascoltava attentamente, «cose del genere non devono più ripetersi.»
«Non ci faremo prendere in giro ancora» asserì Mamoru. «Ora però, torniamo a casa e riferiamo tutto all’Anziano.» Prese Makoto per una manica e lo condusse nel corridoio principale, non prima di aver riservato un ultima occhiata alla scena. Katashi, dal canto suo, decise di fermarsi in quella stanza più a lungo.
Era così diversa rispetto a quella precedente: meno cruenta. Tutti i particolari che la componevano non erano lasciati al caso. Troppo disordine attorno al futon, troppo ordine accanto alle pareti.
Si accucciò vicino alla porta e abbassandosi quasi fino a toccare il pavimento con il mento scandagliò il luogo dell’omicidio con fare pignolo. Sotto la finestra, piccola e praticamente invisibile da notare senza che la luce la colpisse, c’era qualcosa che brillava. Il jonin rimasto scattò verso di essa, raccogliendo l’oggetto con fare curioso. Non si trattava d’altro che una piccola pietra lucente, trasparente e ben intagliata; una rarità a quei tempi, che solo le figlie di ricche famiglie potevano permettersi d’indossare.
Socchiuse le labbra: che l’omicida fosse una donna? Scosse il capo. Impossibile, quante probabilità c’erano che fosse così? Una su un milione, probabilmente. Certo, esistevano le kunoichi, ma a quanto ne sapeva Katashi erano poche e usavano per di più veleni, un esempio era la sua collega, mentre sulla scena di quel crimine c’erano sangue e graffi.
Con ancora in testa quel pensiero martellante si avviò al piano sottostante. Rigirò fra le dita la pietra lucente, mentre attraversava l’atrio e usciva in strada. Era un gemma così ben fatta che per un attimo pensò di rivenderla. Dopo tutto, una volta trovato l’assassino di quella cosa non se ne sarebbe più fatto nulla, tanto valeva rivenderla subito. Ci avrebbe fatto dei bei soldi, si sarebbe potuto permettere le migliori puttane e i migliori servizi che i bordelli offrivano.
E con la testa fra le nubi, concentrato sul pensiero della valuta di quel piccolo tesoro non si accorse che tra la folla c’era una persona che non notava dove i piedi e la fantasia la stavano trasportando.
Si scontrarono lievemente, ma quel contatto bastò per metterlo in allerta. Rizzò le spalle e irrigidì i muscoli. Lei aprì il suo ventaglio velocemente, nascondendo la maggior parte dei tratti del volto alla sua visuale, tranne gli occhi. Occhi emblematici e tanto scuri da far paura; risaltati da un trucco pesante e al tempo stesso aggraziato; profondi come i pozzi che si trovavano fuori città, che la sera avvolti nel buio sembravano non avere una fine.
Il jonin non arretrò nemmeno quando lei, adornata dalla sua bellezza serafica, sorrise con lo sguardo tagliando la figura dell’uomo in due e poi se ne andò. Si limitò a guardarla sparire tra la folla, a memorizzare il motivo del suo kimono pallido e l’intricata acconciatura dei capelli corvini, il luccichio del prezioso fermacapelli.
Rifletté, prima di riprendere il cammino, che era la prima volta che gli capitava di ritrovarsi faccia a faccia con una donna che l’aveva fatto sentire tanto a disagio. Ma, forse, era una cosa normale pensare ciò: quegli occhi, loro erano la causa di quell’emozione tanto strana.
Katashi si fuse alla folla che lo abbracciava con i suoi colori vivaci e i gemiti che promettevano piacere. Giocando con il piccolo diamante, portandoselo innanzi al viso più volte e analizzando come la luce accarezzava il materiale al jonin vennero in mente per qualche bizzarro motivo gli ornamenti della gesha. Si girò. Veloce, quasi da pensare di averla ripresa nel suo campo visivo. Invece lei era già scomparsa.
Troppo tardi, si disse, correndo verso casa.
  
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