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Autore: Bro    27/12/2015    1 recensioni
Una ragazza e sua sorella minore, rimaste senza genitori, vivono una vita tranquilla nel loro piccolo villaggio senza nome. Un giorno, però, una ciurma di pirati arriva da loro, sconvolgendo la vita della sorella maggiore ordinandole di unirsi a loro. La ragazza si oppone, ma viene costretta con la forza ad entrare nella ciurma; quindi lascia il villaggio per iniziare la sua avventura in mezzo al mare.
Genere: Avventura, Azione, Comico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: Violenza
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Ci addentrammo in città, strisciando tra le strette strade secondarie sature di odori nauseabondi, senzatetto e prostitute di terza categoria, finché non arrivammo a delle scale che davano su un vicolo e scendevano fino all’entrata di una sala da gioco. I piedi dello scagnozzo svenuto, ora portato di peso dal compagno, batterono scompostamente su ogni gradino di pietra, accarezzando in seguito il pavimento marmoreo del salone. La stanza era più piccola di quanto mi aspettassi: c’erano solo tre tavoli da biliardo nell’ala sinistra, uno dei quali era utilizzato in quel momento, mentre nell’ala destra c’era un unico (seppur grande) tavolo da poker affiancato ad un bancone con gli scaffali ricolmi di liquori. Tutte le luci presenti erano soffuse, eccezione fatta per i faretti sistemati sopra alle postazioni da gioco e alle bottiglie che, riflettendo la luce, si sforzavano di dare colore all’ambiente. – Un po’ misera, come sala da gioco di un tizio che afferma di essere così potente – commentai tra me e me.
L’elegantone si voltò, invitandomi con un gesto della mano a sedermi sul divanetto di pelle color vaniglia posto davanti a un tavolino da caffè. << Le do il benvenuto nella mia umile dimora >> declamò con voce melliflua.
Questa battuta l’ho già letta in un libro – riflettei. – Non è finito bene...
Auto-ignorandomi, lo guardai in modo distaccato, facendo un cenno con la testa verso il divano. << Prima i boss >> mi limitai a dire. Ritrasse la mano senza smettere né di guardarmi né di sorridere, ma si accigliò, e mi parve di vedere una certa rigidità nei suoi movimenti.
Qualcuno mi diede uno spintone alla spalla. Girai la testa e, vedendo che il tizio tatuato si era liberato le spalle dal compagno ferito e mi stava anche lui “invitando a sedere” (che nel suo gergo sarebbe “metti il culo sulla sedia e faccelo restare”), gli lanciai uno sguardo che si sarebbe potuto tradurre in: “Vuoi altre botte? No perché te le do anche se non ne vuoi.”.
Ci fu un leggero tonfo; il capo si era seduto su una poltrona singola e aveva iniziato a lisciarsi i baffi ispidi. << Ha un intuito davvero sorprendente per averlo capito, signorina... >>. Lasciò in sospeso la frase per far sì che io potessi dire il mio nome.
Soffocai una risata. Davvero si aspettava che gli dicessi il mio nome senza che lui mi avesse detto il proprio? << Come ha detto lei, ogni cosa a suo tempo >> lo citai, poi mi sedetti sull’insospettabilmente duro divano e accavallai le gambe. << Non so ancora chi sia o perché abbia voluto che io venissi qui. Per me non sarebbe vantaggioso rivelare il mio nome per prima, perciò... >> Mi sporsi di poco in avanti col busto, fissandolo con un sorrisetto che non riuscivo a togliermi di dosso. << Stavolta è il mio turno, a dire “prego”. >> conclusi, imitando il suo cenno di mano.
Lo ammetto, mi diverto da morire a provocare le persone calme per vedere quanto ci mettono a dare di matto, però quella non voleva essere una provocazione: era pura autodifesa. Se avesse saputo lui per primo come mi chiamavo, avrebbe anche potuto non dirmi chi era, e la cosa mi avrebbe fatto mangiare le mani. Ero lì solo per quello, per estrapolare qualsiasi informazione ci fosse sotto quel grumo di carne e tessuti, quindi si poteva scordare che mollassi l’osso e glielo lasciassi in premio così facilmente. In fondo si trattava di questo: un gioco. Chi acquisiva più conoscenze, vinceva; e il perdente si adeguava al vincitore. Inspirò una bella boccata d’aria, probabilmente per ravvivare la posatezza che esibiva con tanto orgoglio, ed io dovetti coprirmi la bocca con l’indice fingendo di star aspettando una risposta (cosa vera, in fondo), mentre, invece, nascondevo il mio sorriso, che sarebbe potuto essere considerato fin troppo sfrontato da lasciare impunito.
Contro ogni mia aspettativa, l’elegantone si mise a ridere. Una risata contenuta, diversa da quella sguaiata di chi ha assistito a una scena o a una battuta divertente, ma pur sempre di una risata si trattava. << Lo sa che l’insolenza può essere un’arma a doppio taglio? >>. Le sue iridi color pece mi avrebbero trafitto in malo modo, se negli ultimi tempi non avessi sviluppato una corazza abbastanza robusta da resistergli.
<< E lei sa che non sarà il suo tergiversare a rendermi più collaborativa? >>
Scese qualche secondo di silenzio in cui mi resi conto che l’aria era così pregna di tensione ed energia elettrica che, ne ero sicura, se avessi avuto una candela tra le mani si sarebbe accesa anche senza l’ausilio di un fiammifero. Uno schiocco di dita sarebbe stato sufficiente ad appiccare una piccola fiamma, eppure stranamente non successe nulla quando l’elegantone ne usò uno per attirare l’attenzione del barista, che subito arrivò come un fulmine, un bicchiere di vetro lavorato pieno di un qualche alcolico simile alla sambuca pronto sul vassoio. Il capo lo prese dal bordo reggendolo tra il pollice e l’anulare destro. Smise di fissarmi solo per bere un lungo sorso. << Blackjack. Joliot Blackjack. >> rivelò infine, gettando la spugna contro la mia insistenza. Così, finalmente, la faccia paffuta e i vestiti firmati assunsero un nome vero e proprio, ed io potei cantare una piccola vittoria tra me e me. << E lei... >>
<< Torashi. >>
<< Torashi... >>. Lo disse come fosse un quadro cui manca qualcosa d’importante per essere ricordato nei decenni futuri. Immaginai volesse il nome completo, ma si accontentò. Meglio, non avremmo dovuto discutere oltre sulla questione. << Lei è qui per rispondere del suo atteggiamento nei confronti dei miei uomini. Quello che ha fatto davanti a tutti... >>
<< Si chiama “autodifesa”. >>
<< Non ho finito. >>. Il suo sibilo si conficcò nel mio stomaco e mi congelò le viscere come una lama di ghiaccio. Adesso capivo come riusciva, quell’uomo alto un metro e uno sputo, a farsi rispettare e ubbidire con tanta efficacia. Adesso, i suoi occhi non nascondevano più così bene la sua ira. Restai immobile, aspettando che continuasse, stringendo le labbra e deglutendo per inumidirmi la gola. Joliot riprese: << Il modo in cui ha umiliato i miei subordinati non può e non deve essere un qualcosa su cui io possa passar sopra tanto facilmente. E non lo sarà, mi creda. Per ciò – rimarcò il pronome – me ne occuperò di persona. >>
E lei creda a me, se le dico che i suoi subordinati si mettono già in ridicolo da soli senza il mio aiuto – pensai, ma decisi saggiamente di accartocciare il pensiero e buttarlo mentalmente nel cestino.
<< Tuttavia – proseguì – non amo sporcarmi le mani. >>. Alzai gli occhi verso il tizio tatuato, rimasto tutto il tempo dietro al suo padrone come un bravo cagnolino. O cagnolone, per rendere più fedelmente il concetto. Dedussi che l’intenzione fosse di sogghignare, ma la smorfia sulla sua faccia poteva essere riconducibile a tutto meno che a un ghigno. Se fossimo stati tutti più rilassati, gli avrei chiesto se un verme gli stesse bucando l’intestino e gli servisse una mano.
Al verme, mica a lui.
<< Dunque, la mia proposta è la seguente >>. Si tirò su e sistemò i gomiti sui braccioli della poltrona, sentendosi probabilmente un re sul punto di condannare un suo suddito dall’alto del suo trono. << Una partita a carte. >>. Lo fissai. Lo fissai attentamente, cercando di capire se mi stesse prendendo in giro: era serio, e la cosa mi fece alzare un sopracciglio senza quasi accorgermene. << Un’elegante, pulita partita a carte. E se lei vince, Torashi, è libera come l’aria. >>. Mi presi un momento per rifletterci, inspirai una discreta quantità d’ossigeno senza darlo troppo a vedere e piantai per bene i piedi a terra.
Volete la verità? Mi aspettavo qualcosa di più.
Più cattivo, più subdolo, più... qualcosa.
Per un istante, pensai mi stesse offrendo una vittoria facile su un piatto d’argento. Ma se avessi perso? Quale sarebbe stato il prezzo da pagare? Di colpo mi sentii così stupida di non averci fatto caso prima. << E se fosse lei a vincere, Blackjack? >> chiesi, prendendomi le mani e appoggiando i gomiti sulle gambe. Non ero preoccupata o agitata, solo curiosa di sapere che osso volesse in premio. << Cosa accadrebbe, a quel punto? >>
E stavolta sì che vidi un ghigno, sul viso di Joliot Blackjack. << Se io vinco, lei dovrà lavorare per la mia famiglia per il resto della sua vita. E non sarò tanto clemente da farle fare la guardia del corpo. >>.
Eccola, la meschinità che aspettavo, il tiro mancino.
In pratica avrei dovuto mettere la mia libertà su un tavolo e giocarmela come fosse una bustarella; una mossa falsa e Zeus solo sa che impieghi infimi mi avrebbero dato da qui alla mia morte. Non aveva niente a che vedere con le scommesse da due soldi che avevo sempre affrontato, qui c’era in ballo la mia vita. Letteralmente.
Ciò nonostante, mi venne naturale elettrizzarmi: finalmente qualcosa di gran lunga più sostanzioso su cui puntare, altro che contanti e promesse. Le scommesse perdono di significato, se nessuno perde mai qualcosa di valore autentico. – E poi – pensai – non ho intenzione di restare bloccata in questo posto, ora che faccio parte della ciurma di uno dei quattro Imperatori. Se è me che vuole, dovrà come minimo vomitare l’anima –. Oh sì, avrebbe dovuto sudare lacrime e sangue. Non avrei rinunciato al mio sogno dopo i sacrifici che avevo fatto per realizzarlo, lo dovevo quantomeno a mia sorella. Senza il suo supporto, non sarei mai salita su quella nave pirata; non senza rimorsi.
<< Ci sto >> accettai. Siglammo l’accordo con una stretta di mano.
 

Decidemmo (o meglio, lui decise, io mi adeguai) di giocare una singola partita a poker. Niente riscaldamento, niente rivincite, direttamente la bella. Se dovevo vincere, dovevo farlo fin da subito.
Notai che Joliot dava un senso di potere maggiore, sul tavolo da gioco: il bianco del completo risaltava particolarmente bene sul verde consumato e sporco del panno, così come i suoi occhietti crudeli. Io gli ero di fronte, in attesa solo delle mie carte. Il barista era il mazziere.
Fu una partita tutto sommato tranquilla, non contando il rompi coglioni (scusate, no, c’è un limite a tutto, cazzo!) del tatuato che mi stava col fiato sul collo. Dovetti reprimere la voglia di piantargli un asso di fiori nell’occhio giusto per non inzozzare ulteriormente il tavolo, e chiedergli in modo pseudo-gentile (che è una forma gergale carina per non dire che gli ho quasi ringhiato contro) di levarsi di torno.
Istinti omicidi a parte, cambiai carte solo un paio di volte per far credere a Blackjack di avere la situazione in pugno e che non mi accorgessi dei suoi cambi sottobanco, osservandolo mentre riordinava le carte col suo ghigno. Era un pessimo baro, ma decisi di far finta di nulla. In soli due turni intuii lo stile di Blackjack e giocai di conseguenza bluffando di continuo, ad esempio battendo incontrollabilmente le dita come se fossi preda dell’agitazione, facendogli dunque credere che non avessi nulla tra le mani.
E, in effetti, era così.
Dopo un mio “chip”, disse in trono trionfante: << Vedo. >> e si decise a scoprire le sue carte.
Poker di Re. Quel maledetto aveva una delle combinazioni più alte ed io una semplice doppia coppia d’assi. Le mie pupille balzavano agitatamente dal mio mazzo al suo e viceversa, mentre Blackjack si appoggiava allo schienale della sua poltrona e si metteva comodo. << Ebbene, per quanto riguarda i suoi compiti... >>
<< Non così in fretta >> lo interruppi, riconquistando la calma. Un guizzo gli alzò un sopracciglio. Già lo vedevo, lisciarsi i baffi e consigliarmi di farmi una ragione del fatto che avevo perso, così fui più svelta di lui nell’alzare un angolo della bocca e sorridere beffarda. Lentamente, gustandomi il suo graduale cambiamento d’espressione, abbassai le mie carte e le depositai con uno schiocco davanti a me. Asso, Re, Donna, Jack e 10 di cuori.
Scala Reale Massima. La vittoria me la portavo a casa io.
...Beh, che c’è? Non vi sarete mica preoccupati? Ve l’ho detto, che lui era un pessimo baro. Di me non ho neanche mai parlato. E se proprio volete saperlo (anche se penso che ormai l’avrete capito), io sono a un livello completamente diverso da quello di Joliot: quando baro, è (non lo dico per vantarmi) semplicemente impossibile scoprirmi. Non conta che ci sia gente di fianco a me o che voi mi fissiate per tutto il tempo; non mi vedrete mai, ed io continuerò indisturbata a cambiare 9 con Jack e 8 con Assi proprio davanti ai vostri occhi, perché non mi serve neppure nascondermi sotto al tavolo, per farlo.
Sistemando la casacca, mi alzai. << Beh, signori >> iniziai tranquilla e serena, e rivolsi lo sguardo (non così tanto) segretamente divertito ai miei due ascoltatori, il più importante dei quali non aveva smesso neanche un istante di guardare la mia giocata con occhi sbarrati e respiro mozzato. << Un patto è un patto. Mi piacerebbe disputare un’altra partita, ma ho affari più importanti che mi aspettano. “Libera come l’aria”, no? >>. Non mi fu difficile increspare ancora di più gli angoli delle labbra, intanto che mi avviavo verso la porta. Avrei salutato educatamente con un “Sayonara” o un più menzognero “Arrivederci”, se Blackjack me lo avesse permesso. << Non. Così. In fretta. >> mi citò, la voce calata drasticamente ad un ringhio. I miei piedi si fermarono a metà strada.
Poco educato, davvero poco educato, Joliot –. Tenni per me quell’osservazione, benché una piccola parte malata e, molto probabilmente, in cerca di rogne del mio cervello fremesse all’idea di vedere quel nano fuori dalla grazia di Dio.
Zeus, scusate. Fuori dalla grazia di Zeus. Non inimichiamocelo per certe sciocchezze.
<< Tuuu... Tu hai imbrogliato, Torashi. E a me non piacciono affatto le persone che imbrogliano. >>. Non mi serviva guardarlo per capire che stava reprimendo con tutte le sue forze la rabbia, come un leone affamato in gabbia.
Probabilmente avrei fatto bene a mentire finché non fossi riuscita a convincerlo del contrario, ma l’avremmo tirata per le lunghe. Ed ero scettica, nel contare che mi avrebbe creduto semplicemente con un faccino sorpreso e le buone maniere. Così, giusto perché non me le ero andata a cercare abbastanza, ribattei: << Vuoi dire che non ti piacciono quelle più abili di te? >>. Lasciai a lui e alla sua immaginazione la libertà di scegliere a cosa, di preciso, mi riferissi.
Scelse piuttosto in fretta, a giudicare dal taglio che mi procurai alla guancia dopo che un sibilo fendette l’aria. << Non c’è nessuno, in questo campo, più abile di me. Vedi di mettertelo bene in testa. >>. Con ogni probabilità, gli avevo fatto perdere l’ultimo granello di pazienza rimastogli in corpo. Sentii a malapena una goccia di sangue sporcarmi la pelle, mentre cercavo di capire che arma avesse usato Joliot. Quasi immediatamente, notai una Donna di cuori conficcata tra le assi di legno della parete. – Usare carte come fossero coltelli. – riflettei. – Appropriato, per uno che fa “Blackjack” di cognome, ma se il suo obiettivo era tagliarmi la testa non ha poi molta mira. –.
Sciolsi i muscoli delle dita, come se fossero state immobili e intorpidite per ore, per poi tenderli come corde di violino insieme a quelli di braccia e schiena. << Oh, io non ci scommetterei troppo, vista la sconfitta che hai appena subito. Come definirla... >> Lo guardai da sopra la spalla mentre il silenzio andatosi a creare mi avvisava che la postazione da biliardo era diventata inutile e, a quel punto, ogni persona presente nella stanza era da considerare un mio avversario. << “Schiacciante”, forse? >>
Quella fu l’ultima provocazione che Blackjack riuscì a sopportare. Un movimento fulmineo del braccio, e tutte le carte che teneva strette tra le dita saettarono nella mia direzione. Scartai alla sua destra e le schivai tutte, fondendo al contempo il mio ferro in quattro aghi lunghi e lucenti, pronti a conficcarsi nei suoi arti e bloccarne i movimenti; come c’era d’aspettarsi, il grosso cane tatuato si mise in mezzo per difendere il padrone, aiutato dai compagni che avevano abbandonato le loro cucce per circondarmi e bloccare ogni via di fuga.
Il tatuato si scrocchiò le dita e piegò in avanti il busto, ma, prima che riuscisse a venirmi addosso, mi abbassai completamente e sostituii gli aghi con un pugnale dalla lama sottile, per poi usare una gamba come perno e roteare su me stessa, tagliando i tendini delle gambe di tutti e tre in un unico, circolare scatto del braccio. Immediatamente frenai con l’altro piede e con una capriola rotolai in mezzo a due di loro, evitando che, cadendo, mi bloccassero sotto il loro peso. Una mano si allungò verso una pistola, scivolata sul pavimento probabilmente a causa della caduta, e giusto un istante prima che potesse piegarsi a prenderla la trapassai con la lama del pugnale, conficcandolo nella carne e nella canna dell’arma sottostante, che si ruppe divenendo inutilizzabile. Un urlo tagliò l’aria quasi meglio di quanto avesse fatto il mio stilo, il sangue cominciò a imbrattare il pavimento rischiando di raggiungermi.
Non ebbi il tempo per godermi la faccia dolorante del tatuato. Mi scostai subito inarcando la schiena e portando il peso verso l’indietro, premendo la mano a terra per non perdere l’equilibrio, con un decimo di secondo di vantaggio, prima che tre carte potessero piantarsi in tre dei miei punti vitali. Mi raddrizzai all’istante senza perdere tempo, puntando Blackjack. I muscoli delle gambe tesi, caldi, elastici: ero pronta a gettarmi su di lui in qualsiasi momento, se solo non fosse stato per un luccichio al polso, segnale che poteva ancora difendersi e, peggio, ferirmi. Riuscii all’ultimo secondo a cambiare bersaglio, girando di scatto con tutto il corpo di lato, in direzione di uno dei tavoli da gioco, e puntando un piede mi detti la spinta necessaria a raggiungerlo. Rotolai di nuovo, percependo nel mentre che piccoli lembi dei miei vestiti venivano strappati dalla rabbia di Joliot, ma raggiunsi la mia meta senza neanche un graffio.
Fortuna mia, ira accecante sua; qualunque fosse stata la motivazione, poco importava: ero illesa. Ora come ora, non mi restava che pensare a come mettere al tappeto Blackjack e uscire da lì.
Ci fu un tonfo, e il tavolo da gioco appoggiato alla mia schiena tremò. << Fine dei giochi >> stridette una voce arcigna sopra di me, alle mie spalle. Sentii improvvisamente freddo alla nuca e un suono che ricollegai allo scatto di un grilletto. << “Mi piacerebbe disputare un’altra partita, ma ho affari più importanti che mi aspettano”. Adieu, Torashi. >>. Immaginai la sua faccia contratta in un ghigno, gli anelli alle sue dita brillare come fuochi sotto la luce sommessa della stanza, il suo compiacimento al pensiero di mettermi, finalmente, a tacere.
Sapete, è comodo avere il potere di un Frutto come il Getsu Getsu, in circostanze simili. Non mi ci volle tutto ‘sto sforzo per bloccare la canna della pistola e far dissolvere i proiettili prima che Joliot potesse anche solo pensare seriamente di premere il grilletto senza che io facessi nulla per impedirglielo. E la cosa migliore è che non mi servì neanche schioccare le dita. Figo, eh?
Così Mister Boss si ritrovò con una scocciatura in più (alias me) ma una risorsa in meno (alias i proiettili). Lo udii distintamente pigiare in continuazione il grilletto, in preda all’agitazione e all’ira, imprecando.
Sorrisi. Mi alzai, spolverandomi i vestiti, con tutta la calma di questo mondo; con la pacatezza di una vincitrice. << Hai ragione, Blackjack >> ammisi, rivolgendogli il mio sorriso più maligno. Al solo vederlo, Joliot fu immobilizzato dai brividi. << “Fine dei giochi”. >>.
Ruotai su me stessa un paio di volte e concentrai una gran quantità della mia forza nella gamba destra. Il calcio che gli tirai nello stomaco fu più che sufficiente a fargli sfondare il soffitto e vederlo sparire letteralmente dalla circolazione.
Ve l’ho detto che dovrei imparare a controllarmi di più? Beh, ora lo sapete comunque.














Spigolo dell'autrice

BUON NATALEEEEEE (in ritardo, come il capitolo--) ~

Non farò più promesse, lo giu- NO.
Sono estremamente dispiaciuta per il ritardo. Vi avevo promesso il capitolo per agosto/settembre e invece, come al solito, mi ritrovo a pubblicare mesi dopo.
NON UCCIDETEMI VI PREGO.

Anyway...
Il capitolo 17 è già in corso. Come appena detto, non prometto nulla. Lo pubblicherò il prima possibile, sperando che il mio prof di filosofia e psicologia diminuisca il suo odio per me (un po' come voi povere anime che avete deciso di mettere una mia long tra le seguite *DI QUESTO VI RINGRAZIO INFINITAMENTE EH, SIAMO CHIARI, IO VI AMO*)
*suda*

Detto questo, spero che il capitolo vi sia piaciuto ~
Fatemi sapere, aspetto pareri ^^

Buona serata e, per una volta in anticipo, buon anno <3

Bro :333333333
   
 
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