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Autore: Amantea    30/12/2015    6 recensioni
"Un uomo legge il giornale seduto all'interno della sua automobile, ogni mattina.
Una donna anziana non mette mai il cappotto, nemmeno nelle mattine d'inverno più fredde.
Mia madre mi tiene per mano mentre camminiamo spedite, è presto, ma non poi così presto, me lo ripete, dolcemente, mentre mi tira un po', lungo la salita, che è faticosa per le mie gambette muscolose ma corte, rispetto alle sue. Mia madre ha lunghe gambe, dalla falcata decisa, e un poco nervosa.
Salutiamo i passanti, pochi in verità, perché qui, a Neverville, come le sento ripetere spesso, ci sono poche anime, e quasi tutte perdute."
Un'avventura negli spazi infiniti, una missione da compiere, narrata dalla voce della protagonista, che non è quello che sembra, ricordando la propria infanzia, temendo quello che sarà ...
La mia prima storia originale, prendendo a prestito la fantascienza per scavare nell'animo dei protagonisti.
Genere: Azione, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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NEVERVILLE


-9-


La dottoressa registra il mio nome come 'Neverville'.
Passeranno dei giorni prima che capisca dove mi trovo.
La chiamano l'Accademia.
Al di là dell'edificio in sé, è una specie di struttura scientifico-formativa.
E siamo sotto l'Oceano, in una città costruita al riparo dagli attacchi sulla superficie terrestre da parte degli invasori... 'Loro'.
Così li chiamano, con evidente poca fantasia.

Nell'Accademia i bambini della mia età frequentano una scuola.
Poi, a 12 anni, si passa agli studi superiori, all'addestramento militare vero e proprio.
Di qui escono i soldati, tutti. Almeno quelli della Terra.
Immagino che sulle colonie, nello spazio, ci siano altre Accademie del genere.
Immagino anche che non ne siano rimasti molti, di abitanti, sul nostro pianeta.
Forse sarebbe più logico abbandonare tutto e andarcene anche noi su qualche colonia.
Non capisco tutto questo attaccamento a un pianeta semidistrutto.
Ma io sono solo una bambina, e si sa che i bambini -così dicono- ne sanno meno degli adulti.

Ci sono camerate per dormire, sale comuni per mangiare, e poi aule per seguire lezioni e studiare.
Io non sono mai andata a scuola. Quello che so me lo ha insegnato la mia mamma.
Anche a leggere, e scrivere.
Scrivere mi piaceva molto, e anche disegnare.
Ma qui non si scrive. Si apprende tutto su schermi che sparano immagini a velocità inverosimile, e che il cervello memorizza quasi senza che ce ne rendiamo conto.

Io sto in aula assieme agli altri bambini. Mi guardano con sospetto, e io non interagisco con nessuno.
Ho una stanzetta tutta mia, dove ritirarmi, e una specie di vasca dove posso immergermi quando ne sento il bisogno.
Mi fanno analisi tutti i giorni, e sembrano soddisfatti.
Io non parlo: non chiedo e non rispondo. E nessuno mi spiega nulla.
Il ricordo del mio paese e di mia madre, e dei suoi abitanti, a volte, mi sembra tutto solo un sogno.
Mi vedo la pelle più bianca di quanto ricordassi, ma non ho specchi per guardarmi.
So che avevo gli occhi verdi, come mia madre, e i capelli lunghi e scuri.
Chissà se mi riconoscerei, adesso.

Il ragazzino che ho visto quel giorno lo incontro tutt'ora, ogni giorno.
Ma deve essere più grande di età, perché entra in aule diverse dalle mie.
Poi però a mangiare siamo tutti insieme.
E' lui che si avvicina una prima volta. Mi chiede se sono malata. Io lo guardo senza rispondere, e lui si siede accanto a me.
"Sai parlare?", continua. Io annuisco e accenno un sorriso. Ha il viso simpatico. "Vuoi parlare?", insiste. Gli dico di no con la testa.
Tira su con il naso, spostandosi una ciocca di capelli rossi e un po' riccioluti dagli occhi.
Ha gli occhi verdi anche lui, ma con strani colori mescolati, e guizzano senza sosta.
"Non importa, parlerai quando avrai voglia". In compenso, parla lui per tutti e due. 
Da quel giorno, mi cerca spesso. Forse gli faccio pena. Quando dobbiamo spostarci da un posto a un altro mi prende per mano, e io sono felice.
Credo di avere un amico. Credo che potrei anche parlare, con lui. E forse un giorno lo farò.

Mi ha fatto vedere dove dorme. Una volta, senza essere visti, mi ha fatto fare un giro per l'Accademia.
Mi ha chiesto se ero destinata anche io a essere un soldato, e ho fatto spallucce. Non lo so.
Lui mi ha detto che lo diventerà, e lo ha detto con orgoglio, gonfiando il petto, e facendomi sentire i muscoli del braccio.
Io ho riso, perché è talmente magro che i muscoletti che ha attaccati all'osso sembrano poco più che due pomi acerbi.
Si è un po' risentito, e mi ha detto di ridere ora, perché poi quando diventerà grande grosso e muscoloso resterò a bocca aperta dallo stupore.

Una sera non riesco a prendere sonno.
Mi è sempre difficile, in realtà, perché quando si spengono le luci la testa mi si affolla di ricordi e pensieri e stare sola mi fa paura.
Dormivo con mia mamma, a volte, e mi manca... mi manca così tanto.
Una manciata di passi e sono fuori dalla mia stanza. Pochi sorveglianti in giro, ho imparato a eluderli. Jody è stato un bravo maestro in questo.
Raggiungo la sua camerata, trattengo il fiato.
Sembrano già dormire tutti. Quello di Jody è l'ultimo letto, vicino a una parete. Scivolo in silenzio, sono poco più di un'ombra pallida nel buio.
Lo raggiungo, e mi infilo sotto il lenzuolo.
Sobbalza e quasi caccia un grido, ma gli butto le mani sulla bocca schiacciandolo contro il cuscino.
I suoi occhi si sgranano, me ne accorgo anche se l'illuminazione è fioca e soffusa.
E poi si stringono in un sorriso.
"Che ci fai qui? Hai paura a dormire sola, Neverville?", bisbiglia quando gli libero la bocca e mi accuccio sul materasso. Annuisco.
Mi osserva per qualche istante, si guarda intorno. Nessuno si è mosso. "Vuoi stare qui?". Annuisco di nuovo.
"Però domattina devi sgattaiolare via prima che ti vedano". Annuisco ancora, con decisione.
"Dai, vieni, ranocchietta", mi dice, e ridacchia. "Girati che ti abbraccio, così ti scaldo. Ma sei sempre così gelata, tu?".
Mi faccio ancora più minuta, e lui mi passa un braccio sotto la testa e con quello mi cinge la spalla opposta, e l'altro lo chiude davanti a me. Lo sento che si sistema con le ginocchia dentro all'incavo delle mie, e poi mi augura la buonanotte.

Fu la prima di molte notti che dormii insieme a lui, e nel calore di quell'abbraccio ritrovai la serenità del sonno. E anche un po' d'affetto.



Schiudo gli occhi, Pete è chino su di me, le sue mani calde attorno al  mio viso, è anche spaventato.
- Che è successo, Mina, che ti hanno fatto!? -, ha la voce allarmata.
Nego, scuotendo la testa, - Niente, sono io che... sono io che li ho... sono morti? Sono morti, Pete? -.
Pete si guarda intorno, si sofferma sui due uomini che giacciono inermi in terra, mi rivolge uno sguardo solido e rassicurante e accenna un sorriso.
- Stai tremando tutta, Mina, vieni, ti porto nella tua stanza, qui tra poco arriverà la sorveglianza e devo avvertire subito il Capitano. Ma tu non preoccuparti -, mi dice, mentre mi solleva prendendomi tra le braccia, quasi senza sforzo, - non risaliranno a te, lascia fare a me -.
Non ho la forza di dirgli nulla, il freddo mi è entrato nelle ossa e non riesco a smettere di sussultare. Gli allaccio le braccia dietro al collo, la tempia contro il suo torace. Sento che mi sfiora il viso con le labbra, la paura svanisce un poco, mentre mi porta nella mia stanza.

C'è un regolatore della temperatura in ogni alloggio, vedo che armeggia per alzarla di qualche grado. Mi ha adagiato sul letto con premura, mi ha tolto gli stivali e mi ha coperto con il lenzuolo. Tremo ancora, come se nella stanza ci fosse la neve, e non il caldo che sta sicuramente spandendosi intorno a me.
- Vado a parlare con il Capitano, inserisco il controllo vocale alla porta così puoi aprirmi senza alzarti, ok? Torno subito -.
Mi accarezza il viso mentre parla, il tono basso, gli occhi che non mi lasciano. Mi sfiora le labbra con le sue, dolcemente.
Chiudo gli occhi, mentre esce, e aspetto, il freddo sulla pelle, fin dentro il cuore.

Non ho idea di quanto tempo sia trascorso, da quando sono rimasta sola.
Adesso non ho nemmeno la forza di formulare un pensiero coerente, ma appena sarò in grado, dovrò capire... capire cosa è successo, nella vasca, prima.
Che cosa sto diventando... che cosa sono.
Da dove è uscita tutta quella forza che non conoscevo, che cos'è questa capacità di governare l'acqua, cosa questa empatia che mi fa vedere le emozioni altrui. Se sono una macchina da guerra più mortale di quanto pensassero, e se rischio di esplodergli letteralmente tra le mani, al Capitano e alla dottoressa.
Loro rappresentano il potere qui sulla Motherhead. Sono loro che prendono decisioni. Loro che danno ordini.
Ho apprezzato la premura di Pete, la sua prontezza.
E' in gamba, non potrebbe essere altrimenti. Non per un pilota come lui, intendo.
Se la dottoressa venisse a sapere cosa ho combinato mi sottoporrebbe di nuovo a tutta una serie di analisi e di esami... sarei davvero felice se potessi evitarli.

Sento la voce di Pete. E del Capitano.
- Che cosa è successo? Dov'è Mina?
- Mina è nella sua stanza, Capitano. Hanno cercato di aggredirla, ma sono intervenuto in tempo.
- Tu? ... Mina sa difendersi da sola, cosa diavolo è successo qui Pete?
- Quello che ho detto. Non le ho dato il tempo di reagire, sono intervenuto prima io. Era in pericolo e non ho riflettuto, ho agito, come deve fare un soldato.
- Sono morti, Capitano. (Una voce che non conosco, forse un addetto alla sicurezza)
- Pete sei sicuro di star dicendo la verità?
- Sono comandato all'obbedienza, non potrei mai mentire, Capitano.
(Silenzio. Mi par quasi di vederli, fronteggiarsi, gli occhi scuri del Capitano, inamovibili, in quelli fieri e coraggiosi di Pete).
- Lei... sta bene? (Ha la voce meno ferma rispetto a poco fa).
- Sì, un poco scossa per l'accaduto, ma sta bene. Non so come possano averla raggiunta nella vasca, quei due, io...
- Predisporrò delle indagini. Tu continua ad occuparti di lei. Lo sbarco dura fino a stasera, se volete... Avvertitemi se scendete.
- Sì, capitano, sarà fatto.

- Mina... -
.
Non esito a dare l'ordine alla porta di aprirsi, ho bisogno di lui, qui con me. Ora che so che quei due uomini sono morti, ora che so che li ho uccisi.
- Mina, come stai? -.
Mi raggiunge al bordo del letto, non sto bene, affatto. Mi chiama, ancora più sottovoce. Sto piangendo, sono lacrime quelle che sento attraversare le ciglia, e scavalcare il naso, solleticando un po' la pelle, prima di scivolare oltre la guancia, nel cuscino.
- Sono morti, Pete -, ripeto, dentro di me e poi a lui.
Mi guarda un po' sorpreso, non era una domanda la mia.
- Ti ho sentito, mentre parlavi con il capitano. Non chiedermi perché, Pete, io non so più nulla di quello che sono... eravate distanti, nel corridoio, ma vi ho sentito, come fossi lì con voi -.
Apre la bocca quasi a chiedere oltre, ma poi tace. E lo ringrazio, di nuovo, per la sua accortezza.
Per il suo non indagare, non voler sapere. Per il suo esserci, semplicemente, qui, per me.
- Non ti sei affatto scaldata, però, maledizione -. E' quasi un'imprecazione.
- Senti Mina, forse non ti piacerà, e non so come altro dirtelo, ma c'è un unico modo per provare ad alzare la tua temperatura corporea... Se hai un'idea migliore, se vuoi che ti chiami la dottoressa, dimmelo... Ma ci hanno insegnato che in caso di ipotermia, se la tuta va in tilt per qualche motivo, bisogna scaldarsi pelle a pelle -.
Lo guardo, muta. Ho capito perfettamente cosa intende, e so anche io, che forse è l'unico modo.
La tuta che indosso non riesce a scaldarmi, la temperatura tropicale della stanza neanche.
Il gelo lo sento dentro, come se per difendermi avessi dato fondo a tutte le mie energie, come se quello che ho percepito (le brutture, il male che ho sentito in quegli uomini) mi avesse spento, consumato... e invece la presenza di Pete mi rassicura, mi fido di lui.
Sorrido... mia madre diceva sempre che l'affetto scalda il cuore... non aveva idea di quanto fosse vero.


Pete sta ancora aspettando una risposta. Ha il volto tirato, e nessun'ombra dentro di lui.
Alzo il lenzuolo, con un sorriso incerto, la mano mi trema per il freddo, è un invito.
Chiudo gli occhi, il rumore degli stivali sul pavimento, e poi sguscia accanto a me quasi senza sfiorarmi, non ancora.
Ho dormito tante volte con Jody. Non è la stessa cosa. Ma so cosa significa stare in due sotto lo stesso lenzuolo.
Il suo braccio, nudo, mi cinge una spalla, e mi stringe a sé, e una gamba si fa spazio tra le mie ginocchia, serrate, si insinua, e la lascio passare. Un incastro perfetto, stretta contro il suo torace. Non dice nulla e aspetta.
Ha determinazione, penso, e autocontrollo, o forse solo una sconfinata irragionevolezza.
E quando lascio che la tuta scivoli via, che sparisca, lentamente, come dissolta, è finalmente il suo corpo che percepisco.
Trattiene il fiato, mi stringe di più. Ed è il suo calore che mi pervade piano, che si fa strada, come il sole quando sorge da dietro una collina, che man mano irradia tutto, della sua luce, e allunga le ombre e le ritira e le fa sue, e tutto colora, e tutto prende forma, lentamente, e sempre di più.
E forse questa luce è solo amore.
E Pete è questa luce. E Pete è questo amore.
E io sono di nuovo un corpo, caldo, che vive e che ama, e che riluce. Per lui.



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Carissimi tutti, in tempo per gli auguri per il nuovo anno!!
Capitolo un po' romantico, lo so... ogni tanto ci vuole ...
Resta da vedere cosa sta facendo Jody ... Questa volta aggiungo e disvelo poco ... ma prima o poi tutto quadrerà.
Un abbraccio a chi legge, segue, e lascia una traccia negli spazi siderali ;) Amantea
   
 
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