Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: Sofyflora98    07/01/2016    2 recensioni
Dal primo capitolo:
"Tutto era iniziato con un cadavere. Un uomo sui cinquanta, vedovo, che faceva una vita abbastanza tranquilla, senza avvenimenti degni di nota. Un bel giorno, di punto in bianco, era morto. L'avevano trovato riverso sui gradini di fronte alla porta di casa. Quando avevano cercato di identificare la causa del decesso, i dottori erano rimasti allibiti. Non c'era una causa. Niente che potesse spiegare come mai un uomo di mezza età perfettamente in salute fosse all'improvviso crollato a terra. Come se tutto il suo organismo si fosse fermato dolcemente, e basta.
Fino a che non colsero sul fatto l'assassino. Quello che fu presto chiarito era che non si trattava di un essere umano. Non del tutto perlomeno. Mangiava e respirava e dormiva. Solo che a volte assorbiva la vita dagli altri."
****
Johnlock
Genere: Drammatico, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jim Moriarty, John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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John avrebbe voluto avere molti più chiarimenti riguardo al caso del tassista. Aveva provato più volte a chiedere a Sherlock come avesse fatto a capire che si trattava di una Creatura, e soprattutto cosa lo distingueva da un essere umano, dato che lui non aveva notato niente di fuori dalla norma nell’uomo di mezza età a cui aveva sparato. Sherlock era restio a parlargliene. Si rinchiudeva in un guscio ogni volta che John tirava fuori l’argomento, borbottando che era meglio per lui se ne fosse rimasto all’oscuro.
C’era una cosa, però, che John desiderava sapere ancora di più. Riguardava la notte in cui aveva trovato Sherlock rannicchiato sul divano delirante per la febbre. Quando il detective aveva tirato a sé la mano del soldato, lui non si era mosso. Aveva finito per addormentarsi seduto sul pavimento, con la testa appoggiata al sedile del divano. Il giorno dopo il suo collo aveva protestato aspramente, ma non si era pentito di averlo fatto. Aveva sentito che non sarebbe stato buono allontanarsi dal coinquilino. Non era riuscito a togliersi dalla mente le lacrime che gli rigavano il viso quando gli aveva stretto repentinamente il polso. Le mani gli stavano tremando, e la sua presa era ferrea e disperata, il viso sofferente e sconvolto. E allora un pensiero aveva preso a turbarlo: cosa gli era accaduto?
Perché aveva visto molti pianti, e di ogni tipo, molti dei quali proprio sui volti dei soldati che erano stati con lui in Afghanistan, e sapeva bene cosa significava quell’espressione. Non era semplice tristezza, non era un comune incubo. La febbre doveva avergli fatti rivivere qualcosa, qualche avvenimento, un episodio molto significativo e importante per lui, che doveva averlo segnato. Probabilmente la stessa cosa che lo aveva spinto a diventare freddo e solitario.
Ma dopo diverso tempo, ancora non aveva ricevuto una risposta.
Col passare delle settimane, si era creata una sorta di stramba routine, per i due. Sherlock era sempre il primo ad alzarsi, sempre ammesso che fosse andato a dormire, ma mai si degnava di preparare la colazione, o di fare qualunque lavoro che fosse anche solo lontanamente casalingo. Di fare la spesa neanche se ne parlava, la polvere era come se non esistesse per lui. La signora Hudson era un vero e proprio miracolo per Watson. Non sapeva come avrebbe fatto quel pazzo a sopravvivere senza loro due. Persino farlo mangiare era un'impresa che non sempre riusciva.
E poi c'erano i casi. Di solito era Greg a chiedere l'aiuto di Sherlock, altrimenti si trattava di investigazioni per clienti privati, di cui la maggior parte già conoscevano il detective, anche se nessuno di loro poteva ammettere di essere suo amico. John seguiva sempre Sherlock, nei casi. Succedeva, lo faceva e basta. Sherlock non glielo aveva chiesto apertamente, ma dopo quello della donna in rosa, il medico aveva preso ad accompagnarlo e a fargli da assistente. E anche se, come già detto, l'investigatore non gli aveva domandato di farlo, era impossibile non fare caso allo sguardo che gli lanciava ogni volta che si presentava un nuovo mistero da risolvere, e lo scintillio furbo che animava quelle bellissime iridi quando John regolarmente si alzava dalla poltrona o dalla sedia per infilare la giacca ed andare con lui sulla scena del crimine.
Ogni tanto gli saltava alla mente il fatto che non era per niente normale. Chi si sarebbe gettato di sua iniziativa ad inseguire dei serial killer per le vie di Londra, assieme ad un investigatore un po’ folle e del tutto sconsiderato? E ogni volta finiva per rispondersi sempre allo stesso modo: lui; un ex soldato che si annoiava a morte ed era tremendamente attratto dal pericolo.
Un altro piccolo fatto, poi lo spingeva ad apprezzare ogni giorno di più Sherlock Holmes e i suoi esperimenti (perché sì, faceva anche esperimenti in casa, alcuni davvero disgustosi): ad un certo punto si era semplicemente accorto di non avere il bastone con sé, e di avere comunque camminato e corso tutto il giorno senza provare alcun dolore alla gamba. Inutile chiedersi cosa avesse fatto sparire il problema psicosomatico che si trascinava dietro da anni.
Col tempo, i clienti erano aumentati. John aveva iniziato a scrivere un blog, in cui raccontava delle loro avventure, dei misteri che risolvevano e dei criminali che facevano arrestare. Fu subito chiaro che molta più gente di quanto non avesse osato sperare aveva iniziato a leggerlo, per cui sempre più persone venivano a richiedere la consulenza di Sherlock Holmes. Si rivelò piuttosto imbarazzante quando scoprì che l’intera Scotland Yard leggeva il blog, grazie a Lestrade: i commenti acidi di Anderson e le rispostacce sarcastiche di Sherlock erano ormai un’abitudine ben più radicata che dover andare a prendere il latte per entrambi.
Quel nuovo modo di vivere gli piaceva, e gli piaceva Sherlock Holmes. Nonostante i suoi comportamenti assurdi, nonostante il carattere più che difficile, nonostante tutto quanto. Stava bene a vivere con lui. Stava bene ad averlo intorno. Tutto qui, nessuna malizia, nessun secondo fine.
Fu in questo modo che diventarono Holmes e Watson, il super detective e il suo assistente, che mai andavano sulla scena di un crimine l’uno senza l’altro. Come personaggi di un film, pensava spesso John.
Fatta eccezione per qualche episodio in cui Sherlock si rinchiudeva in camera o in bagno, per restarci delle ore senza dargli una spiegazione, non gli sembrava che ci fossero problemi. Anzi, non ce n’erano proprio. Andava tutto bene. La loro vita si era stabilizzata, e si erano adattati a vivere l’uno con l’altro.
Questo fino al mattino in cui, qualche mese dopo il loro incontro, arrivò la lettera.
 
Erano le otto del mattino, in uno dei rari giorni in cui si ritrovavano svegli alla stessa ora, a causa di un caso che aveva fatto crollare anche il consulente investigativo. Si erano alzati da poco, e John era nel atto del mettere l’acqua nel bollitore, quando un forte tonfo distolse la sua attenzione dal fornello. Sperando di non trovarsi ancora una volta davanti a qualche esperimento rivoltante, cercò Sherlock, che ovviamente neanche aveva pensato ad aiutarlo a preparare la colazione. Lo trovò vicino all’ingresso, e gli dava le spalle. Sulla moquette un mucchio non ben distinto di “robaccia caduta a terra”.
- Sherlock, cosa stai facendo? – lo apostrofò, scavalcando il piccolo mucchio.
Si bloccò quando vide lo sguardo del più giovane. Aveva gli occhi sbarrati, spalancati, e gli tremava il labbro inferiore. Aveva in mano delle buste, che John riconobbe come una bolletta e un paio di altri documenti, oltre che il quotidiano, e sopra ad esse ce n’era una in carta nera con indirizzo e destinatario scritti in bianco. Non c’era il nome del mittente.
Lasciò cadere tutte le altre, e tornò a passo svelto in salotto, affondando nella sua poltrona pesantemente, senza mai smettere di fissare quella misteriosa lettera.
John sbuffò, raccolse le buste a terra e lo raggiunse. Sherlock aveva gli occhi sbarrati, fissi su quel involucro di carta nera, ma non sembrava intenzionato ad aprirlo. – Vuoi leggerla, o restare a fissarla tutto il giorno? – disse seccamente.
Sherlock sembrò svegliarsi all’improvviso, sbattendo rapidamente le palpebre, prima di mormorare un “sì” basso e fievole, e aprire la lettera. Ne estrasse una fotografia a colori, e un bigliettino sempre nero. Lesse prima quest’ultimo. Vi erano scritti un’orario e il nome di un canale televisivo.
- John, che ore sono? –
- Le otto e dieci, Sherlock. Ora, se puoi spiegarmi… -
Il detective scattò in piedi e afferrò il telecomando. Accese il televisore sul canale scritto nel biglietto, accucciandosi davanti all’apparecchio vigile come un felino. Stavano dando il telegiornale del mattino. John lo fissò a bocca aperta, ben sapendo che per quanto molti dei suoi comportamenti fossero bizzarri, non l’aveva mai visto agitarsi così per una lettera, anche se in effetti lui non sapeva cosa essa significasse o chi l’aveva spedita.
I giornalisti stavano commentando il recente drastico calo delle morti inspiegabili attribuite alle Creature, in quel momento. Nulla degno di nota, a giudicare dalle occhiate impazienti del detective, ma che per John erano molto rilevanti.
Era la verità: i cadaveri trovati senza ferite e tracce di veleno stavano diminuendo. Ovviamente ne spuntavano fuori ancora, ma non come negli ultimi quattro anni. In compenso parevano aumentati gli omicidi violenti.
Sherlock si fece più attento alla notizia successiva. Riguardava la scomparsa di un vecchio ricercatore universitario, che aveva continuato a sviluppare i suoi studi, anche dopo la pensione, in un istituto lì nella capitale. Era sparito nel nulla, e i suoi assistenti non sapevano spiegarsi come fosse successo. Cercavano di scoprire se se ne fosse andato spontaneamente o se gli fosse accaduto qualcosa, ma non c’erano indizi che potessero aiutare la polizia. Nella sua casa non c’erano tracce di lotta, e niente sembrava mancare. Come le vittime delle Creature morivano e basta, l’uomo si era dileguato semplicemente.
Il nome dell’uomo era Jack Stapleton, e a sentire i giornalisti aveva lavorato a Londra solo negli ultimi vent’anni, mentre per la maggior parte della sua vita aveva diretto un suo laboratorio di ricerche a Baskerville, nel Dartmoor.
John aveva ascoltato la notizia con il tipico stato d’animo di moderato interesse di chi ascolta il notiziario ogni giorno, ma con la coda dell’occhio vide che al sentire il nome di quell’uomo, Sherlock era sbiancato.
Spense il televisore senza degnarlo di un altro sguardo, e afferrò la fotografia che era nella busta assieme al bigliettino. Quella raffigurata sembrava una stanza di una vecchia casa disabitata, a giudicare dalla poca mobilia rovinata che si vedeva nell’immagine e dalla carta da parati ammuffita e di vecchio gusto.
Gli occhi di ghiaccio del consulente investigativo parvero farsi ancora più taglienti e nervosi. L’unica altra volta che John gli aveva visto un’espressione simile, era stata la notte dopo la “cattura” del tassista, quando Sherlock non aveva aperto più bocca per ore intere, rimanendo a fissare il vuoto con gli occhi sbarrati. Iniziò a preoccuparsi seriamente. Un conto era vedere l’ansia delle persone che finivano coinvolte nei loro casi, tutt’altro era invece vederla in Sherlock Holmes.
- Sherlock…? – tentò John, avvicinandoglisi cautamente, per paura di innescare qualche sua improvvisa reazione.
Sherlock si voltò verso di lui di scatto, e scattò in piedi. – Esco – disse sbrigativamente, andando in cerca dei vestiti e del cappotto.
- Dove vai? – gli domandò il più vecchio, indicandogli dove l’aveva lasciato la sera prima, quando erano rientrati barcollanti dopo ore di indagini senza pause. – Aspetta: se vai a cercare la stanza in quella foto, non pensare nemmeno di  andarci da solo! Questa faccenda mi puzza di criminalità… mi stai ascoltando?! –
Fu costretto a vestirsi in fretta e furia per riuscire a non farsi lasciare indietro. Mentre scendevano le scale, provò a domandargli se nella foto c’era qualche indizio che lo aiutasse a capire di che luogo si trattasse, ma Sherlock sembrava sapere già esattamente dove fosse. Non gli rispose nemmeno, in realtà, ma fermò un taxi e disse l’indirizzo dove recarsi senza un istante di esitazione.
Furono condotti in una strada nell’East End, e il viaggio non fu proprio breve. Sherlock pagò il conducente senza dire una parola, e di nuovo John dovette affrettare il passo. Era come in trance, non sembrava rendersi realmente conto di essere schizzato via la mattina presto, per andare in una stradina sporca e malmessa, e di avere qualcuno che tentava di stargli dietro.
Dopo una breve osservazione del luogo, si diresse a passo deciso verso una schiera di case, che dalla sicurezza con cui superò per approssimarsi all’uscio di una delle ultime doveva conoscere molto bene. Quella che aveva attirato la sua attenzione aveva una porta in legno verniciato di blu scuro, scrostato dal tempo e dalle intemperie. Da più vicino, John poté notare che c’erano dei graffi attorno alla serratura, e dei tagli profondi sulla sua superficie, come se l’avessero colpita con una piccola accetta, senza però romperla sul serio. Solo intaccandola.
Sherlock la spinse, trovandola già aperta. La spalancò, ed entrò nell’ambiente scuro e stretto. Dopo un breve corridoio, si entrava nel soggiorno, che a sua volta era abbastanza piccolo. John riconobbe in esso la stanza raffigurata nella foto. L’aria era difficile da respirare a causa della polvere accumulata in chissà quanto tempo, che impregnava la mobilia e che pareva essersi fusa con lo scarso ossigeno che filtrava.
Gran parte degli oggetti e dei mobili erano rovesciato o rotti. C’era una poltrona la cui fodera era stata squarciata da qualcosa. Un profondo strappo ne dilaniava lo schienale, e l’imbottitura fuoriusciva in parte. Il tavolino di fronte ad essa era stato violentemente privato di una gamba, che giaceva pochi metri più in là, anch’essa in pessime condizioni, come se un grosso felino ci si fosse affilato le unghie. Quasi pestò i frantumi di quello che doveva essere stato un servizio da tè bianco.
John si sentì inquieto, a quella vista. Era un luogo tetro, che doveva essere stato abitato da diverse persone, a giudicare dalla quantità di sedie, materassi e cuscini che erano stati ammucchiati in altre due stanze anguste. Ci avevano vissuto molte più persone di quelle che era stata costruita per ospitare. E dovevano aver avuto degli animali, a giudicare da quegli immensi graffi, degli animali molto grossi. Oppure avevano avuto l'abitudine di prendere a coltellate la mobilia.
- Che posto è, Sherlock? -
- Qui ci viveva qualcuno che ora non ci vive più –
John alzò gli occhi al cielo. - Fin qui c'ero arrivato anch'io, grazie. Ma tu sai chi ci viveva? Perché se hai riconosciuto il luogo solo da una foto, allora devi conoscerlo bene -
Sherlock esitò prima di rispondere. - È  così, lo conosco. Non ci venivo da moltissimo tempo, ma una volta ero qui molto spesso. Se qualcuno mi ha mandato una foto di questa casa, deve trattarsi di una delle persone che la frequentavano all'epoca. Nessuno vive qui da più di quindici anni. Aiutami a vedere se c’è qualcosa di insolito, dei messaggi scritti o degli oggetti bizzarri -
Le parole “più di quindici anni” continuarono a guizzare tra un pensiero a l'altro del dottore. Se era passato così tanto tempo, allora quando Sherlock aveva frequentato quella casa doveva essere stato un ragazzino. John si era domandato spesso, tra le varie altre cose, come fosse stata l'infanzia di Sherlock, perché se era cresciuto in quel modo non doveva essere stata per nulla ordinaria. Da quando l'aveva visto in preda alle allucinazione della febbre, l'ipotesi di un trauma infantile si era fatta molto probabile.
Scavalcò una bambola a cui era stata mozzata la testa, rischiando di inciampare su un oggetto talmente martoriato che non seppe riconoscere cosa fosse.
Un mobiletto scuro attirò la sua attenzione. Una serie di coltellini arrugginiti era conficcata sulla sua superficie, a formare una linea in ordine di dimensioni. Aprì un cassetto socchiuso, con una certa difficoltà dato che era così sporco da essere quasi appiccicoso, e tendente ad incastrarsi. Ne tirò fuori un pacco di fogli ingialliti e ritagli di giornale. C’erano liste di nomi, con dei cerchi vuoti o anneriti a fianco, alcuni cancellati con una riga orizzontale. Altri sembravano dei documenti d’ufficio, delle tabelle sempre fitte di nomi, e dei termini come “Artigli”, o “Coda”, e delle crocette associavano ogni nome ad una o più di queste categorie. John non capì a cosa si riferissero, ma notò che alcuni termini come ad esempio “Occhi” e “Orecchie” avevano molte meno crocette, mentre “Ali” e “Zampe di ragno” non ne avevano proprio, in nessuna delle tabelle.
Continuò a sfogliare quelle carte. I ritagli più vecchi riguardavano un incidente avvenuto in un laboratorio sperimentale di biochimica, a Baskerville. Ripensò al telegiornale, al ricercatore di cui era stata annunciata la scomparsa. Avevano detto che aveva diretto un laboratorio in quel posto, anni prima.
Pareva che ci fosse stata una fuga di gas, o qualcosa del genere, e quasi tutte le persone che stavano lavorando nei laboratori in quel momento erano state trovate morte. Una vera e propria tragedia. Continuando a leggere vide che c’era stato un unico sopravvissuto: il professor Jack Stapleton, per l’appunto. Forse chi ci ha mandato quella lettera anonima voleva farci notare questo professore pensò John.
Il resto degli articoli riguardavano perlopiù strane morti, individui che avevano perso la vita senza un’apparente ragione. Esattamente come la vittime delle Creature. Leggendo di che giornali si trattava, però, vide che erano tutti quotidiani di paese, quindi notizie che non avevano suscitato grande scalpore e non avevano dato nell’occhio. Ma perché un abitante di Londra dovesse comprare giornali di villaggio proprio non riuscì a spiegarselo.
Un tonfo ed un’imprecazione del detective gli fecero alzare lo sguardo. – Trovato qualcosa? – gli chiese, alzando la voce perché lo sentisse da una delle altre stanze.
- Non ancora – rispose Sherlock. Ci stava mettendo molto più del solito, si disse John. Raramente gli servivano più di cinque minuti per vedere se c’era qualche indizio.
Stava tentando di rimettere quelle carte a posto e raggiungere l’amico, quando un paio di fotografie scivolarono a terra. Si chinò a raccoglierle, ed ebbe un sussulto. La prima rappresentava un gruppo di cinque persone. Quattro ragazzini, raggruppati attorno ad uno più grande. Proprio a fianco di quest’ultimo, c’era un fanciullo più magro e gracile degli altri, sebbene fossero tutti parecchio sottili. Pallido, quasi privo di colore, con due enormi occhi di un colore indefinibile tra l’azzurro e il verde ed una folta massa di riccioli scuri. Doveva essere molto vecchia, ma ciononostante era impossibile non riconoscere il consulente investigativo in quel bambino di bellezza inquietante.
Avevo un’espressione vuota, lo sguardo fisso. E non solo lui: nessuna delle persone ritratte aveva uno straccio di sorriso. Erano fin troppo seri per essere così giovani. Addirittura, quello con gli occhi neri aveva una punta malvagità in essi, una sorta di cattiveria celata. E il più grande, così severo, sembrava un adulto maturo piuttosto che un giovane. John dopo una seconda occhiata lo riconobbe come Mycroft.
- John, vieni qui! - lo chiamò Sherlock. D'istinto John afferrò tutti i fogli e li infilò nella giacca.
Il detective era in una delle due camere da letto. A differenza delle altre stanze, era stata riordinata di recente. Tutti i materassi erano stati accatastati l'uno sull'altro, ad un lato, per liberare il pavimento. La polvere sui mobili era stata spostata, non era spessa come nel resto della casa. Anzi, si vedevano pure delle ditate che l'avevano rimossa. Il pavimento era stato pulito in gran parte, e il parquet era lucido.
Proprio quel pavimento aveva catalizzato l'attenzione del consulente investigativo. Lì, dove era pulito, qualcuno aveva fatto un disegno con dei gessetti colorati. Anche quello doveva essere recente, a giudicare dalla vivacità dei colori e dalla nitidezza del tratto.
Erano figure antropomorfe, appena abbozzate, in modo molto semplice. Erano più o meno disposte in circolo. Al centro stava una figura bianca a cui erano state disegnate un paio di ali da libellula e due occhi azzurri. Con il colore viola, ad un'altra erano state aggiunte delle linee spezzate dalla schiena, che John proprio non capiva a cosa dovessero somigliare, ed una linea ondulata che gli parve una specie di coda. Queste due figure avevano le teste voltate a guardarsi, e addirittura la seconda aveva le braccia rivolte in un segno di aggressività. La prima invece sembrava pararsi tra questa e un'altra al lato opposto del cerchio, avente anch'essa disegnati gli occhi di blu. Le altre sagome erano più difficili da interpretare. Una non aveva nulla di fuori dalla norma, una semplice stilizzazione di un umano, ma attraversata da delle linee rosse. Le altre due erano un po' confuse, ma avevano comunque segni scarlatti a spezzarle.
Inquietante, trovò John. In particolare il disegno viola con le linee spezzate, gli metteva i brividi.
- Hai idea di cosa sia? - domandò all'investigatore. Sperava quasi di sentirsi dire un no, ed un'incitazione a risolvere il mistero, ma Sherlock annuì, ed aveva le sopracciglia aggrottate le palpebre spalancate.
- Una minaccia. Da un individuo altamente pericoloso che ho avuto la sfortuna di contrariare. Ce ne andiamo -
 
Fu mentre erano sul taxi che li stava riportando a Baker Street, che John disse a Sherlock di ciò che aveva trovato nel cassetto del soggiorno, in quella abitazione abbandonata.
- Sherlock – lo chiamò a circa metà del tragitto, decidendo che, anche se temeva di ottenere altri rifiuti di risposta, era il caso di metterlo al corrente della sua scoperta. Sempre che di scoperta si potesse parlare, visto che non ci aveva capito quasi nulla. L'altro, che era rimasto stranamente vigile da quando erano usciti da quell'edificio, si voltò subito.
- Ah, ecco... ho trovato delle cose in quella casa. Le ho portate con me, prima mi sembravi troppo preoccupato per ascoltare. Con questo non voglio dire che tu... ah, non importa. Sono dei documenti bizzarri ed un paio di foto – li estrasse dal giubbotto, e glieli porse. Sherlock li sfogliò rapidamente, e da come li osservava John intuì che ci capiva qualcosa eccome, a differenza sua. Degnò agli articoli di giornale poco più di uno sguardo, ma invece si soffermò di più sulle due fotografie. Sfiorò con il pollice l'immagine del fanciullo pallido che John aveva identificato come lui stesso, ma bloccò il gesto quando stava per avvicinarsi a quella del bambino dagli occhi neri.
- Immagino tu abbia capito che questi siamo io e mio fratello – mormorò, indicando il ragazzo più grande.
- Sì, ecco... sì. Difficile non riconoscervi. Avevate già i lineamenti definiti -
- Fin troppo riconoscibili, purtroppo – guardò la seconda foto, che John non aveva fatto in tempo ad osservare prima. Era un collage di fototessere. Tra le varie, John notò una considerevolmente più giovane signora Hudson. Sotto ad ogni persona era disegnato un simbolo. Un pallino pieno o vuoto, come nei documenti con le tabelle. Quello della donna era vuoto, un semplice cerchietto nero.
- Immagino siano qualcosa di estremamente importante e significativo di cui tu vuoi tenermi all'oscuro, vero? E non mi dirai assolutamente nulla di preciso riguardo ciò che abbiamo visto oggi -
Sherlock stette in silenzio. Lo vide soppesare le sue parole, come indeciso sul da farsi.
- Non dirai niente neanche alla polizia? -
- No, la polizia non può far nulla – rispose Sherlock, tornando a sfogliare i documenti.
John alzò gli occhi al cielo. - Ma hai detto che era una minaccia! Potrebbero almeno cercare di trovare il mittente prima che ti succeda qualcosa! - esclamò esasperato. Non era certo la prima volta che Sherlock preferiva agire per conto proprio piuttosto che chiamare perlomeno Lestrade. Una volta ci era mancato un soffio che la sua avventatezza non lo portasse a farsi uccidere.
- Scotland Yard non può fare nulla ad uno come lui. È insospettabile come cittadino, trovare prove a suo sfavore è impossibile. Credimi, lo conosco da tanto tempo. È molto, molto pericoloso ed insidioso -
Quindi non si trattava di un criminale da quattro soldi, ma di un pezzo grosso. L'idea che un individuo del genere ce l'avesse con Sherlock non era poi così strana. Un investigatore abile come lui non poteva non avere dei nemici tra i malviventi. Questo era logico. Quello che continuava a restare un mistero era... beh, quasi tutto il resto. Se Sherlock lo conosceva da molto tempo, allora forse si riferiva all'epoca in cui erano state scattate quelle fotografie. E magari era tra le persone ritratte, anche. Pure questo sembrava avere un senso.
John fece mentalmente un riassunto delle informazioni accumulate. Un pericoloso criminale, che Sherlock conosceva da molto tempo, aveva inviato un invito a recarsi in quella vecchia casa, che Sherlock diceva di aver frequentato sempre diversi anni prima. In quella casa avevano trovato un disegno che il detective aveva interpretato come una minaccia, una serie di documenti incomprensibili, articoli di giornale che parlavano di un incidente in un laboratorio di ricerca, e due foto in cui apparivano lo stesso Sherlock, suo fratello, ed altre persone più o meno della stessa età del più giovane. John non poté evitare di ripensare al bambino dagli occhi neri che era al fianco di Mycroft non occupato da Sherlock.
- John, siamo arrivati –
 
Erano rientrati nell'appartamento silenziosamente. Sherlock si era seduto sul divano, probabilmente pronto a rinchiudersi nel suo Palazzo Mentale e fare ordine e pulizia tra le informazioni nuove che aveva appena assimilato. John, dopo aver preparato un pranzo che Sherlock non aveva toccato, aprì il laptop per procedere con la scrittura del suo blog. Doveva ancora finire il racconto del loro ultimo caso, che aveva implicato un serial killer, una scatola di cipolline agrodolci (a sentir Sherlock, erano state fondamentali per scoprire il colpevole) e diverse forchette usate come armi improprie. Era ancora indeciso su che titolo dare a quell'avventura.
Ad un certo punto, il più giovane si era alzato, ed aveva iniziato a digitare furiosamente una lunga serie di messaggini con il cellulare. A giudicare dalla rapidità con cui riceveva le risposte, doveva trattarsi di suo fratello. Dopo quindici minuti passati in quel modo, gli aveva telefonato direttamente, e si era chiuso in camera propria, forse per non fargli sentire la loro conversazione. Cosa rara, dato che solitamente Sherlock sbraitava senza alcuna preoccupazione qualsiasi cosa gli passasse per la testa.
Restò lì dentro per molte ore, e nessun suono giunse dalla stanza. John decise che era meglio lasciarlo in pace. In quei mesi aveva capito che c'erano dei momenti in cui il detective aveva la necessità di isolarsi, specie quando accadeva qualcosa che lo scuoteva. In quei momenti non era il caso di disturbarlo: poteva andarne della sua incolumità. Comunque, per assicurarsi che non si facesse del male mentre lui non poteva vederlo, non appena restava solo in casa perquisiva l'armadio di Sherlock, e qualsiasi angolo dell'appartamento dove si potesse nascondere qualcosa. Era stato Mycroft a consigliarglielo, accennando a qualche brutta faccenda degli anni precedenti che si sarebbe potuta evitare se qualcuno avesse badato al suo fratello minore. Cosa intendesse era stato abbastanza chiaro.
Sherlock uscì dalla sua stanza solo la sera, mentre John era seduto sul divano, una coperta di pile avvolta attorno alle gambe, intento a guardare la televisione. John lo vide con la coda dell'occhio, ed accennò ad un sorriso. Non gli chiese neanche se avesse intenzione di mangiare: conosceva già la risposta, sebbene non gli piacesse affatto.
La figura sottile del suo coinquilino si appressò al sofà un passetto alla volta. Alla fine, quando fu con le gambe contro il bracciolo, si sedette sull'angolo, stringendosi le ginocchia tra le braccia. Voltò il capo verso John, e rimase immobile a fissarlo.
- Finalmente sei uscito dalla tana –
Dal detective non giunse nessuna risposta. Era lì, fermo. E lo guardava intensamente, come se si stesse arrovellando per prendere una decisione importante.
- Sherlock, stai bene? - chiese John allarmato, quando vide quanto rigide fossero le sue membra e quanto stesse stringendo le mani attorno alle gambe. Sherlock, a quella domanda, sembrò risvegliarsi di colpo, e sbatté ripetutamente le ciglia, come se lo stesse mettendo a fuoco.
- Sì, sto bene... - mormorò.
John alzò gli occhi al cielo. - Vieni qui, vuoi? - indicò il sedile del divano, vicino a lui. Sherlock esitò dapprima, ma alla fine cedette e gli si sedette accanto. John aprì del tutto la coperta, e la gettò anche addosso al coinquilino. Provò di nuovo quella sensazione. Era una sensazione che aveva avvertito già diverse volte, che in realtà sentiva quasi tutti i giorni. Una specie di istinto a proteggere quell'uomo, in realtà così fragile dentro, dal mondo esterno. A volte gli sembrava che tutto ciò che si trovava al di fuori del loro appartamento in Baker Street fosse lì solo per fargli del male. Gli sembrava di essere il solo a vedere quali reazioni scatenavano le parole fredde che venivano rivolte a Holmes. Questo faceva di ogni altro individuo un potenziale pericolo. Ed ecco che giungeva l'impulso a fare da scudo tra gli altri e lui, chiunque gli altri fossero. Nessuno doveva toccarlo.
- John – l'interpellato non lo fece aspettare per avere la sua attenzione. - Io vorrei dirtele, quelle cose che mi chiedi sempre -
John sollevò le sopracciglia. Sherlock aveva chiuso gli occhi, la testa abbandonata sullo schienale.
- So che muori dalla voglia di sapere come faccio a conoscere tutte quelle informazioni sulle Creature, che cosa le differenzia dagli esseri umani, eccetera. E anche chi mi ha dedicato quel messaggio minaccioso, e cosa mi lega a lui e a quella casa nell'East End. Ma non è semplice. L'ultima volta che l'ho raccontato a qualcuno, quella persona non ha reagito bene -
John si schiarì la gola, improvvisamente colto da un senso di disagio. - Sherlock, davvero, se dirmi queste cose ti creerebbe problemi, preferisco restarne all'oscuro. Tutti hanno dei segreti -
Sentì il peso del coinquilino farsi più vicino. Ora le loro spalle si toccavano. Sherlock aveva il viso rivolto verso di lui.
- No, se continueremo ad essere coinquilini, devi saperlo. Aspetta solo un altro po'. Poco soltanto, per favore. E dovrai promettermi anche una cosa. Dovrai promettermi di restare calmo fino a che non ti sarà spiegato tutto. Devo avvertirti adesso. L'ultima volta è andata davvero male, John... -
La sua voce era diventata un sussurro. John sperava che l’improvviso contatto che Sherlock aveva creato tra le loro braccia fosse del tutto privo di significato. Ciononostante, gli sembrava di sentirselo sempre più addosso. E non la piantava di guardarlo con quegli occhi…
Quando la lieve brezza del suo respiro gli sfiorò la guancia, per un istante gli girò la testa.
- D’accordo, Sherlock. Come vuoi tu – riuscì biascicare nel tentativo di restare cosciente e attento.
Sentì Sherlock rilassarsi. Gli parve persino di percepire un leggero sospiro di sollievo, ma di questo non era sicuro.
Non riusciva a capacitarsi di quella piccola tempesta di emozioni contrastanti causata dal suo coinquilino. Okay, non era la prima volta che gli accadeva una cosa del genere, ma questo non attenuava la confusione in cui era finito in ognuna di queste. C’era qualcosa in Sherlock.
Si ripeté, per quella che forse era la millesima volta, di non essere assolutamente gay. Ma questo non cambiava il fatto che quella persona lo sconvolgeva.
Dio, John! Non fare l’idiota, sei solo affezionato a lui! Ed è naturale, vivete insieme da mesi! Questo è solo… affetto.
Con queste parole riuscì quasi (per l’appunto, quasi) a convincersi. Azzardò un’altra occhiata al proprio fianco. Sherlock era ancora appoggiato a lui, ma aveva la testa chinata verso il pavimento. Pallido, pallidissimo, gli occhi lucidi e persi, i riccioli scuri che gli ricadevano morbidamente sulla fronte, le labbra semi dischiuse, e diamine quanto avrebbe voluto affondare le dita tra quelle soffici volute corvine sulla sua testa!
Sei messo veramente male! si disse
- Dovresti dormire –
- Non sei la mia bambinaia, John –
- Hai paura? – quelle parole fecero irrigidire immediatamente il corpo del consulente investigativo.
Non gli rispose, ma lo sguardo che gli rivolse fu più che sufficiente a far capire comunque ciò che c’era da capire sul suo stato d’animo. Non aveva paura, era atterrito e colmo d’ansia, ma non voleva lasciarsi comandare da questo. E gli stava chiedendo di restare con lui, aiutarlo a non lasciarsi andare. Questo vide John nel suo sguardo, questo ed anche un’infinità di altre emozioni che non seppe distinguere.
Dapprima esitante, fece scivolare discretamente un braccio attorno alle sue spalle, cercando di rassicurarlo. In fondo, se non l’avesse fatto lui chi altro avrebbe potuto farlo? Sperò che il messaggio giungesse al detective, che capisse le sue intenzioni. E lui lo capì, lo capì bene.
- Grazie – sussurrò infatti.
Alla fine ci riuscì, a dormire.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*****
 
Note: Immagino ci sia già qualcuno pronto a fucilarmi per la lentezza con cui ho scritto questo capitolo. Se  è così, pregherei chiunque abbia già imbracciato le armi di lasciarmi prima finire la storia, ma a quel punto avrebbe tutto il diritto di condannarmi a morte. Il periodo verso la fine dell’anno, però, è sempre uno dei più zeppi di impegni di ogni sorta. Spero che almeno questo faccia ammorbidire la sentenza dei giudici!
Un profondo ringraziamento a chi legge, segue o recensisce!
Kisses
Sofyflora98

 
   
 
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