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Autore: Silvar tales    07/01/2016    1 recensioni
Qui segue il racconto di Thranduil e Filigod.

Un piccolo tentativo di conciliare film e canone tolkieniano.
Genere: Fantasy, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Legolas, Nuovo personaggio, Thranduil
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Eryn Lasgalen








Dei camminamenti e delle passerelle di legno che si sfilavano come liane tra gli alti faggi centenari non rimanevano che carboni e assi nere abbandonati sul terreno arso. Mozziconi ancora fumanti, ciò che rimaneva dei rami e delle piattaforme arboricole, sibilavano e scoppiettavano, minacciosi ormai quanto i lamenti di una bestia in agonia.
Il Re dei Silvani si aggirava tra ciò che restava del suo Regno: sul suo volto era dipinto un profondo dolore, assieme a un barlume di consunta serenità. Ad ogni passo sollevava uno sbuffo di ceneri, che turbinavano per un po' presso il suolo per poi tornare a posarsi a terra. La cenere pioveva anche dall'alto, dalle chiome dei faggi divorate dalle fiamme, tant'è pareva che cadesse una grigia neve insalubre. Dove il terreno non era cosparso di cenere, vi erano delle grosse pozzanghere di fango, residui di una pioggia breve e intensa.
Morte e guerra infine li avevano raggiunti. Alcuni Orchi avevano camminato di albero in albero, veloci e silenziosi come ladruncoli, ma la maggior parte dell'armata aveva forzato l'intricato sottobosco, fendendo e calpestando senza alcun riguardo edere, liane e rovi, bruciando ciò che non riuscivano ad abbattere con il ferro. Finché erano giunti alle porte di Re Thranduil, dando inizio all'assedio della Fortezza. Tuttavia, essa era rimasta inviolata, e al suo interno i Silvani che non potevano combattere avevano trovato un sicuro rifugio. La battaglia si era consumata all'esterno, sotto le fronde degli alberi. Dovunque zampillavano focolai appiccati dai malvagi servi di Mordor, in ogni dove sibilavano frecce infuocate, e ben presto divampò un grande incendio. Ma infine, dopo gravi perdite, i Nandor prevalsero, e lentamente le fiamme morirono, soffocate da una pioggia provvidenziale.
Thranduil, che aveva guidato la resistenza combattendo davanti a tutti gli altri, ora guardava i cadaveri dei suoi soldati come se cercasse di scrutare attraverso una coltre nebbiosa: essi giacevano indegnamente assieme ai corpi degli Orchi che avevano abbattuto a costo della loro vita. Alcuni erano carbonizzati, altri mutilati, altri ancora trafitti da lance e frecce, e il medesimo destino era stato riservato sia agli Elfi che ai loro nemici.
La pioggia ora si era quietata, lasciando il posto ad un grigio vento gonfio di polvere.
«È finita, dunque». Una voce che ben conosceva lo colse alle spalle. Feren il Leale, provato dalla carneficina ma ancora vigile, con il volto sporco di polvere e i capelli in disordine, guardava il suo Re con fierezza, tenendo alta la testa, e nonostante le gravi perdite subite vi era una luce nei suoi occhi, una luce che Thranduil non vedeva da tempo immemore. «Lo senti, mio Signore?»
«Che cosa, mio buon Feren?» Domandò Thranduil con stanchezza, non dando troppa importanza alle sue parole. Nel frattempo distolse lo sguardo, e cercò di riconoscere il volto di un Silvano che riposava riverso tra cespi di grosse felci. Il suo era un viso giovane, apparteneva forse ai nati del Lungo Inverno: un breve periodo aveva passato su questo mondo, e non certo il più luminoso.
Feren ispirò a fondo, benché l'aria fosse ruvida e malsana. Saltò su un masso e guardò verso Ovest, benché gli alberi impedissero alla sua vista di spaziare.
«Il rumore del mare», disse soltanto. Allorché Thranduil venne colto da paura e vertigine, laddove vi sarebbe dovuto essere soltanto serenità e desiderio. Non sentiva il rumore del mare, ma il boato del crollo di un'Era, il rumore delle pietre che cozzavano l'una sull'altra, che si ergevano sino al cielo per costruirne una nuova.
«Sì, è finita dunque».



*





Aprile era ormai iniziato, eppure quella mattina le chiome degli alberi erano incrostate di una patina ghiacciata. Thranduil del Reame Boscoso e Celeborn di Lothlórien si incontrarono in un'ampia radura, nel cuore della foresta. La piana era attraversata da numerosi allegri rigagnoli, le piante di mirtillo crescevano ove il terreno non era interrotto da grosse lastre naturali di pietra, ricoperte di muschio rosso e verde. Solitari pini nani spuntavano timidamente qua e là, ma quando si infittivano troppo i Silvani li trapiantavano in altri luoghi, mantenendo il prato sgombro da alberi.
Sire Celeborn giunse a piedi nel luogo d'incontro, assieme ad alcuni guerrieri che più si erano distinti nel conflitto appena trascorso. Oltre a questi vi erano Rúmil fratello di Haldir, i comandanti delle sentinelle del Nimrodel e dell'Argentaroggia, e infine il capo degli Arcieri Esploratori del confine orientale. Erano una ventina in tutto, e tutti quanti combattenti, venuti a testimoniare il loro coraggio nell'aver difeso i confini della loro terra dal morbo nero dell'Est.
Sire Thranduil giunse invece sul dorso di una puledra, il cui manto era del colore delle ghiande. Le forti zampe dai possenti zoccoli facevano di lei una nobile bestia, altera nel passo e intelligente nello sguardo. Berut era il suo nome, e il Re la cavalcava con la fierezza ritrovata di ciò che era stato un tempo: il Signore di Eryn Galen. Feren il Leale camminava al suo fianco, e assieme a lui vi erano Lendêr, Suilannen, Lagorhen il capo-vedetta, il giovane capitano delle guardie, e pochi altri Elfi che erano avvezzi condividere il desco con il loro Re.
«Benincontrato, mio Signore, in questo felice giorno!»
«Salute a te, Sire Celeborn. Il viaggio è stato agevole? Ho portato otri del nostro miglior vino per rinfrancarti».
«Non c'è niente che più mi rinfranchi ora di queste fronde verdi e di queste nuove gemme, e quale gioia incontrarci in amicizia! Voglio chiamarti amico, con sincerità. Lasciamoci alle spalle ogni dissapore, salutiamo insieme, concordemente, questa rinascita».
«Amico lo sei sempre stato, Celeborn», sorrise Thranduil, e fece cenno di disporre cibo e bevande su un semicerchio di vecchi ceppi d'abete.
«Faren», disse, e un esploratore dagli occhi foschi e dai corti capelli neri si fece avanti. Portava un arco a tracolla, e un grigio corno pendeva dalla sua cintola, assieme a un grappolo di fischietti, di molte misure e vari materiali. I suoi vestiti erano logori, intessuti di mille aghi di pino rossi verdi e neri. Non era giunto nella radura assieme a Thranduil, eppure era improvvisamente comparso tra loro senza che nessuno l'avesse visto arrivare. Si pose in mezzo ai due Re senza inchinarsi e senza mostrare reverenza, e iniziò a parlare con voce ruvida e sguardo truce: «anche se i segni della malattia sono ancora visibili, e sempre lo saranno, Bosco Atro sta lentamente guarendo. I vecchi alberi avvizziti cadono e muoiono, lasciando posto ai giovani virgulti. I cervi della foresta hanno fatto ritorno nella Radura Orientale e nelle zone attorno Amon Lanc, così come le altre bestie che si erano incattivite, volpi, tordi, civette, orsi e mufloni: esse non sono più ostili né a noi né alla Foresta, lasciano che gli alberi crescano invece che rosicchiarne le radici, e scavano tane ai loro piedi, poiché li sentono come rifugio e non più come minaccia.
In molte cavità di tronchi malati vi erano nidi immondi, un nauseante brulicare di vermi e insetti, ma ora i ragni malvagi giacciono come intorpiditi dal gelo, a zampe all'aria, in agonia.
L'aria del sottobosco diventa ogni giorno più leggera, liane ed edere infestanti si sfilacciano verso il terreno, e non corrodono più gli alberi giovani, mentre contribuiscono a soffocare quelli irrimediabilmente malati. La Foresta non è più così cupa, in molte parti ora i raggi del sole si fanno strada fino al terreno. Presto questi luoghi saranno risanati, parola mia».
«Ci porti buone notizie, ti ringrazio», disse Thranduil, permettendo all'esploratore di congedarsi. Egli si inchinò brevemente, poi si dileguò ratto nel folto della Foresta: pareva non aspettasse altro.
«Faren non fa parte del mio Regno. Egli vive nel bosco, in solitudine, e conosce queste terre meglio di tutti i miei esploratori. A Ovest è in rapporti di amicizia con i Beorniani, a Sud con gli sparuti uomini delle Terre Brune, ma a Nord diffida degli Uomini del Lago, poiché a suo dire essi sono più affini all'acqua e al commercio che non agli alberi. È difficile mettersi in contatto con lui, poiché si muove come una scura ombra e cammina sui rami degli alberi senza fare rumore, e conosce inoltre tane, anfratti e nascondigli che molti ignorano. Il Nero Cacciatore, è così che molti lo chiamano, e spesso egli viene scambiato per un uomo ramingo. Ma egli fa parte dei Silvani, e credimi se ti dico che spesso ci ha aiutati a nostra insaputa, soffiando avvertimenti e bonificando covi malvagi». Mentre parlava, Thranduil versò da bere per sé e per il Signore di Lothlórien.
«Ci sono stati molti Neri Cacciatori nel conflitto appena trascorso, Thranduil figlio di Oropher. Uomini e donne che hanno combattuto contro l'oscurità, senza che nessuno sapesse i loro nomi», rispose Celeborn, accettando volentieri il calice che Thranduil gli offriva. Gli Elfi erano soliti festeggiare la fine di un anno e l'inizio di un altro con musiche e canti, ma quel giorno la gioia che essi provavano era sobria e bisognosa di rispetto e silenzio. I Silvani a seguito dei loro Signori stavano ritti in piedi come sentinelle, la maggior parte di loro; alcuni invece si aggiravano per i confini della radura, toccando con mano i rami gonfi di gemme, e le fronde cariche di tenere foglie.
«Ci ho riflettuto a lungo, Celeborn, e ho infine preso la decisione di ritirarmi definitivamente a Nord. In realtà è da molto che la mia gente ha abbandonato il meridione del bosco, per mio volere, non lo nego. Resta il fatto che mi è impossibile controllare il Meridione senza creare un nuovo avamposto, e ormai è troppo tardi per questo. Presto anche noi inizieremo a lasciare la Terra di Mezzo, e io sono spossato. Preferisco preservare la mia casa, piuttosto che crearne una nuova. Con la tua approvazione, quindi, lascio a te i territori a Sud dei Monti della Notte», disse Thranduil, e fissò con insistenza Celeborn, quasi che temesse un suo rifiuto.
«La tua è davvero un'offerta generosa, Thranduil, ma penso di accontentarmi degli alberi a Sud di Corto Bosco, là dove la pianura mangia la Foresta a Est e Ovest, e la fa più stretta che in ogni altro punto. Quello, se vorrai, sarà il mio dominio, e lo chiamerò semplicemente Est Lothlórien. Infatti anche io non sento il bisogno di creare nuove dimore e affondare più in basso le mie radici, giacché il Mare chiama tutti noi. Penso invece che sia giusto lasciare che gli Uomini di Beorn occupino la terra di nessuno, ciò che rimane tra i Monti e lo Stretto, e che ne dispongano come meglio credano: essi hanno infatti sofferto troppo, e guadagnato troppo poco dalle loro sofferenze. Dimmi dunque, sei d'accordo?» Chiese Celeborn.
«Se questo è il tuo volere, così sia», rispose Thranduil, «è probabile infine che gli Uomini dei Boschi governeranno su queste terre più a lungo di tutti noi».
Giunse infine il tramonto, e con esso il momento che tutti i Silvani avevano intimamente atteso: il nome di Bosco Atro venne obliato, Thranduil e Celeborn ribattezzarono la Foresta con il nome di Eryn Lasgalen, il Bosco di Foglieverdi. Un nome che tempo addietro Thranduil e Filigod avevano dato al loro primogenito, instillando in lui quell'esile scintilla di speranza per un futuro ora divenuto realtà.

Nel viaggio di ritorno verso casa, Thranduil ebbe modo di parlare con Lendêr, ed egli gli rivelò il suo desiderio di partire il prima possibile verso Ovest, verso i Porti Grigi, assieme alla moglie e alla figlia. Di nuovo, un sentimento di malinconia colse Thranduil, una malinconia inadeguata a un giorno tanto lieto. Si limitò ad annuire, continuando a guardare dritto davanti a sé, benché fosse raccolto nel suo manto d'argento e le sue spalle fossero leggermente chine. Così, in quella posizione arrendevole, pareva davvero stanco. Stanco di tutte le cose che aveva visto, stanco di tutto gli anni che aveva vissuto, stanco del dolore e stanco delle gioie. Con le mani teneva le redini, ma più per sostenersi che per guidare la sua cavalla: essa conosceva infatti la strada del ritorno, ed era abbastanza intelligente da evitare, senza bisogno di essere guidata, i rami bassi e le insidiose buche del terreno nascoste sotto il muschio.
«Ti farò preparare un carro, che vi aspetti al limitare della foresta. Manderò con voi dei guerrieri e delle provviste», disse infine, e Lendêr piegò rispettosamente la testa, in segno di ringraziamento. Thranduil rimase silenzioso per tutto il resto del viaggio.

Varcarono nuovamente le Porte della Fortezza quando ormai la notte cedeva il passo ai timidi bagliori dell'alba. I rami contorti degli alberi emergevano su un cielo ogni minuto più chiaro, e un'umida striscia di nebbia aleggiava presso il terreno, donando ad ogni cosa la parvenza del sogno. Eryn Lasgalen nasceva avvolto dalle brume, ma presto il sole sarebbe giunto a rivelare tutto il suo rinnovato splendore.
Thranduil lasciò Berut alle cure di Daroch, il mastro stalliere, seppure le stalle non erano ancora state ricostruite dopo il Grande Incendio, e di esse rimanevano solo i basamenti e le colonne di pietra. Il vecchio Daroch mise a riposare la nobile cavalcatura del Re sotto un gazebo di giunchi verdi, colti laddove le fiamme non erano arrivate. Le diede acqua e cibo in abbondanza, e la liberò della sella e dei finimenti. Ma Thranduil non ebbe neppure il tempo di ringraziarlo, giacché si diresse speditamente verso la torretta di guardia interna alla fortezza, là dove alloggiavano i suoi messaggeri ed esploratori. Salì numerose serpeggianti rampe di scale, e più saliva più esse si attorcigliavano su loro stesse, e i gradini si restringevano e divenivano sempre più alti. Le pareti erano intervallate da numerose nicchie nelle quali riposava una tenue luce, ma che servivano anche ad arieggiare quel luogo angusto tramite condotti nascosti.
Una volta raggiunta la cima, l'ambiente diveniva assai più spazioso e luminoso. La sala principale, la più ampia, era rettangolare e sgombra al centro, mentre ai suoi lati vi erano innumerevoli scaffali occupati perlopiù da calami e pergamene. La scala da cui Thranduil era salito sbucava al centro del pavimento, mentre sui quattro lati della stanza vi erano due arcate, nelle pareti Est e Ovest, e due porte, nelle pareti Nord e Sud. Le arcate si aprivano sull'armeria e sulla sala da pranzo, mentre le porte conducevano agli alloggi e a una seconda uscita, la quale sfociava direttamente nella foresta senza passare per le porte principali. Il Re si diresse senza indugio alla sua destra, dove vi erano le dispense e i tavoli adibiti alla consumazione dei pasti. Vi trovò come previsto Rûdûr, il capo esploratore, seduto davanti a una ricca colazione assieme alla sua compagnia. Non appena lo vide entrare, l'Elfo veterano scattò in piedi, e tutti i presenti fecero altrettanto. Ma Thranduil li tranquillizzò con un cenno della mano.
«Sedete e continuate a mangiare, oggi è un giorno di festa, anche se è difficile ricordarlo. Rûdûr, ti prego dimmi, dov'è Amrodil? Quali notizie porta da Gondor?»
Rûdûr indugiò un momento, poi fece un cenno di diniego. «Non è ancora tornato, mio Re. So che doveva essere di ritorno ieri, ma forse si è trattenuto un giorno di più, forse la guerra ha interrotto strade e ponti. Non so dirvi, ma vedrete che presto sarà di ritorno».
Thranduil rimase in silenzio per alcuni secondi, non sapendo come replicare. Infine disse: «capisco. Ma mi aspettavo più celerità e obbedienza da parte del tuo primo messaggero. Avevo ordinato che tornasse qui immediatamente, e so per certo che la guerra è finita. Spero che saprà trovare scuse abbastanza fantasiose, che almeno sappiano farmi ridere».
Il Re prese dunque congedo, anche se subito si pentì di aver rimproverato Rûdûr, con cui era sempre stato in rapporti di amicizia. Tuttavia, la tentazione di prendere egli stesso un cavallo e galoppare verso sud era sempre più forte.

La sera diede al suo maggiordomo il permesso di organizzare un banchetto festoso, per salutare l'inizio dell'anno e la rifioritura del Bosco, nonché per gioire della caduta della Torre Oscura. La chiamarono la Festa di Verdifoglie, e le sale della Fortezza furono addobbate con rami rigogliosi, profumate frasche di pino e ghirlande intrecciate con foglie d'edera e bacche rosse. Si aveva quasi l'illusione che, all'esterno, la Foresta non fosse ridotta a uno scheletro nero ammantato di ceneri e carboni.
Nonostante il banchetto fosse assai invitante, e le musiche tentassero di essere gioiose e spensierate, Thranduil presenziò solo fino alle prime due portate, senza tuttavia mangiare nulla.
Ben presto, si dileguò nei propri alloggi, in silenzio, senza proferire parola con nessuno. Impiegò ore per riuscire ad addormentarsi, e quando finalmente il sonno lo colse, lo colsero anche gli incubi.
Sognò di nuovo le fiamme, la polvere e il turbine della battaglia, ma questa volta non vi era nessun barlume di speranza, nessuna possibilità di vittoria. Le nuvole gravide di cenere e avide di oscurità nerivano il sole, oscuravano le stelle e la luna, soffocavano ogni luce. D'improvviso, un boato assordante squassò la terra. Thranduil alzò una mano a pararsi gli occhi, costringendosi ad alzare la testa e guardare verso l'alto, benché la cenere lo facesse lacrimare.
Un vulcano si ergeva dinnanzi a lui, e dalla sua bocca uscivano accecanti fontane di lava e mostruose colonne di fumo; un lento fiume magmatico scivolava minaccioso lungo i pendii della montagna, e ogni minuto che passava sempre più si avvicinava, divorando la terra e arroventando l'aria. Fu allora che Thranduil si rese conto, con terrore, di non trovarsi dinnanzi alle porte del suo Reame, bensì a Gorgoroth, due Ere addietro. Vedeva a stento gli Ered Lithui emergere dalla spessa cortina di nebbia velenosa, e alle sue spalle i Morgai chiudevano l'altopiano, raccogliendo alla stregua di un catino le bollenti nubi dense di polveri. Thranduil respirava a stento, ma avanzò comunque tra i cadaveri della sua gente confusi tra quelli degli Orchi, annaspò tra il pianto dei morenti e le grida di chi ancora stava combattendo, finché non trovò il corpo di suo padre. I lunghi capelli biondi erano incrostati di sangue, e la faccia riversa nella cenere. Thranduil vi si inginocchiò a fianco e lo voltò, a fatica, dato il peso ormai inutile dell'armatura. Ma non fu il volto di suo padre, quello che vide.

La mattina seguente, Rûdûr si recò di persona negli alloggi del Re. Recava Amrodil con sé, ed entrambi camminavano speditamente. Il messaggero era stravolto, come se avesse corso per miglia e miglia senza concedersi un momento di riposo. Nonostante ciò, continuava ad incedere con urgenza, ansioso di arrivare al cospetto di Thranduil e di liberarsi dal peso delle notizie che recava.
«Signore, sono qua, Amrodil è tornato, aprite subito ve ne prego», disse Rûdûr, una volta che furono dinnanzi alle porte di quercia.
«Dunque? Quali notizie?» Chiese il Re, non appena apparve sulla soglia. Un'ombra di terrore gli oscurò la mente per un momento, ma fu solo un'ombra, come il sogno della notte appena trascorsa era stato un'ombra, come il passato era ormai nulla più che un'ombra. Finalmente, Amrodil parlò:
«Vostro figlio è vivo, mio Re. Ha combattuto con coraggio sui Campi di Cormallen e ne è uscito vittorioso».
«Certo che è vivo», rispose Thranduil dopo qualche momento, «egli è figlio del Bosco, e il Bosco è rinato. Vai ora, Amrodil. Riposa. Ero adirato con te ma ora vedo dal tuo viso che hai fatto il possibile per arrivare in tempo. Non è forse vero?»
«Ma certo mio Signore!» balbettò il messaggero, arrossendo. «Il cavallo ha fatto anche l'impossibile».

Thranduil si richiuse la porta alle spalle.
«Nostro figlio è vivo, è vivo», mormorò, appoggiandosi alla testiera del letto, d'un tratto incapace di reggersi in piedi. Si chiuse le guance tra i denti come dovesse arginare un immenso dolore. Il suo viso era contratto e il suo cuore pareva essersi fermato. Si concesse un attimo per piangere e ridere insieme, per sfogare le poche lacrime che non poteva mostrare quando la corona pesava sul suo capo. Si portò una mano alla gola, e seppur gli sembrasse di soffocare sentì finalmente la tensione sciogliersi.
«Legolas ha vinto dove noi abbiamo fallito. Ha visto la speranza ove noi eravamo ciechi. Legolas è vivo, è vivo».



*





Il giorno seguente Lomewen venne da lui, trafelata. Era avvolta in un mantello di velluto dai colori cangianti, e sotto di esso indossava un'umile veste da viaggio. Entrò nelle stanze reali senza chiedere permesso, e dopo aver attraversato numerose porte trovò Thranduil immerso nelle chiare acque della sua vasca da bagno, ricavata in una buca naturale scavata nella pietra giallastra del pavimento. Quand'egli la vide apparire sulla soglia, la accolse con stupore. La guardò in viso, e notò le guance un poco imporporite e la chioma leggermente in disordine, il suo petto palpitava, come se avesse corso. Lesse nei suoi occhi un insieme di paura, rabbia e risentimento.
«Lomewen, non ti aspettavo», disse allora, issandosi in piedi sulla sponda della vasca. Pigre ondicelle si allungarono sul pavimento, che si guazzò inoltre dell'acqua che gocciolava dai suoi lunghi capelli. «Dammi quel telo, per favore», le chiese con garbo, indicando la pila di asciugamani poggiata sul mobile accanto all'ingresso. Lomewen prese il telo, ma invece che avvicinarsi e porgerglielo lo strinse in pugno, lo alzò sopra la testa e glielo scagliò contro.
Thranduil, anche se preso alla sprovvista, riuscì ad afferrarlo evitando che gli finisse malamente in faccia.
«Grazie tante», disse con ironia, senza però sembrare maggiormente turbato da quel gesto. D'altro canto, Lomewen non sembrava esserne affatto pentita, anzi, insisteva a fissarlo negli occhi con impertinenza. Thranduil sostenne il suo sguardo per qualche secondo, poi si annodò l'asciugamano in vita e si volse altrove, dedicando la propria attenzione allo specchio.
«Credevo fossi prossima a partire. Cosa vi ha trattenuto?»
«Lo sono infatti», rispose Lomewen, «anche se contro la mia volontà».
«Cosa vuoi dire? Forse non desideri vedere il mare, seguire la tua famiglia? Hai solo iniziato a vedere, Lomewen, non hai motivo di essere affezionata a questo luogo», ribatté Thranduil.
Dopo aver frizionato le punte umide dei capelli indossò una veste di seta grigia, lucida come ghiaccio. Sopra di essa mise l'elegante tunica primaverile, e man mano che si abbigliava diveniva sempre più distante.
«Tu verrai? Anche tu attraverserai il grande mare?» Domandò allora la giovane, e il tono con cui pose quella domanda era talmente ingenuo e speranzoso che Thranduil sorrise tra sé del suo candore. Poggiò la corona sul proprio capo, ordinando al contempo i capelli con un pettine. Dunque si voltò nuovamente a guardarla ed ora, con la testa incoronata, appariva lontanissimo, come quando sedeva sul trono.
«Giacché si mormora che il nostro tempo è finito, e giacché il Mare chiama tutti noi, sì, verrò, un giorno».
«Un giorno, ma non ora».
«Non ora, no».
Lomewen allora rifuggì il suo sguardo, così penetrante e assoluto, e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Si lanciò verso di lui e gli abbracciò disperatamente la vita, cercando conforto nelle sue labbra. Ma Thranduil le donò invece un bacio sulla fronte, e la tenne stretta contro di sé, cercando di arginare il suo pianto nelle proprie vesti.
«Lomewen, tu non hai motivo di legarti a me, né a questa terra. Hai appena iniziato ad aprire gli occhi sul mondo, non hai niente da ricordare, devi solo iniziare a vivere i tuoi ricordi. Segui tuo padre, prendi la nave per le Terre che sono di là. Tu hai avuto il privilegio di iniziare a vivere in un'Era rinnovata, non pretendere né fingere di voler condividere con me il peso e il dolore di tante cose sepolte, ormai, sotto l'acqua e sotto la cenere. Cose che non conosci né mai conoscerai. Questa Foresta è la mia casa da troppo tempo, e non la prima che perderò. Puoi capire perché non ho desiderio di abbandonarla?» Così le parlò, con sincerità, stringendola a sé non più come un amante, ma come un padre.
«Ora va', Lomewen, va'. Lasciami solo. Non ho più nulla da darti, né tu hai nulla da dare a me».



***





Quando l'autunno era ormai morente, il Re di Eryn Lasgalen si incamminò sulla Via Silvana, per l'ultima volta. Attraversò la Foresta, vestita di un caldo manto rosso e dorato, finché non giunse ai margini occidentali. Lì, già da molti anni, vi era un piccolo avamposto della sua gente, costruito con la pietra verde di Erebor e il duro legno delle querce del bosco. Un tempo vi erano uno stalliere, un maniscalco e un manipolo di esploratori silvani, che continuamente mantenevano sicura la via verso Ovest dalle bestie selvagge, la pulivano dagli arbusti e ne ricalcavano il tracciato. Ma ormai non rimaneva più nessuno ad attendere coloro che intraprendevano il Viaggio. La Fortezza del Re era vuota ed echeggiante, non brillava più alcuna luce nelle caverne del Reame Boscoso. Soltanto la luce stellare avrebbe continuato a chiarire le Aule di Cúran, le notti in cui il cielo era sgombro dalle nuvole.
Era con cuore amaro che Thranduil aveva detto addio alle Sale della Luna. Ivi aveva indugiato per lunghe ore, abbandonandosi a pensieri di cose trascorse. Aveva guardato nelle limpide acque dello stagno, ma non vi aveva scorto quello che vi scorgeva in passato: la beltà del cielo di sopra, il solenne specchio notturno che dominava le perdute foreste di Neldoreth, gli occhi di Filigod. Seppe dunque che era giunta l'ora di dire addio.
Decise di prendere con sé il corno di un cervo bianco, che aveva trovato abbandonato nel muschio. Tranciò anche un ramoscello di un abete rosso, e ve lo intrecciò attorno. In cambio, lasciò la propria corona in riva alle acque, sotto le fronde dell'albero più vecchio e maestoso.
Essa non avrebbe avuto più alcun significato, oltre il mare.

«I cavalli sono pronti, Feren?»
«Sì Thranduil, cavalcheranno lesti».
«Di questo non mi importa. Voglio osservare, durante il mio ultimo Viaggio. Ma non voglio voltarmi indietro», disse Thranduil, sorridendo al vecchio amico, e issandosi sul dorso della sua cavalla grigia. Essa era della stirpe di Berut, ed era nobile e fiera come lo era stata la sua capostipite. Legato alla sua sella vi era il corno di cervo che Thranduil aveva preso dalle Sale della Luna, uno dei pochi ricordi che avrebbe conservato.
«Círdan ha lasciato le sponde del Lindon tempo addietro, ma i suoi ultimi naviganti hanno costruito una grigia nave per il Re di Eryn Lasgalen», disse Feren, parlando più a sé stesso che al suo Re. «Ci attenderanno».
Egli spronò dunque il suo destriero, credendo che Thranduil fosse infine pronto a partire. Ma dopo aver fatto pochi metri, il Re si fermò bruscamente, e si voltò un'ultima volta verso i cancelli del bosco.

«Addio, addio bella Foresta. Quanto mi addolora lasciarti in una terra che si oscura e decade, mentre io che sono il tuo Signore vado a trovare la Luce. Addio alle acque del fiume, addio alle grigie montagne, addio alle querce e agli abeti, addio ai faggi che sono stati la nostra casa. Abbiamo camminato per questi luoghi, abbiamo dato un nome agli animali, ai dirupi, ai ruscelli. Abbiamo amato questa terra e in essa abbiamo amato. Ma presto nessuno lo ricorderà più».

Dopo aver pronunciato le ultime frasi di saluto, gli sembrò di scorgere un guizzo luminoso nelle brume del sottobosco. Affilò la vista, colto un momento da curiosità, ma niente più si mosse.
Allora non vi diede altra importanza, e si volse una volta per tutte verso Ovest, spronando la sua puledra verso il sole calante.
Solo allora, un Cervo Bianco incoronato da un maestoso palco di corna avanzò con solennità.
Si fermò sotto i cancelli di Eryn Lasgalen, e lì rimase, seguendolo con lo sguardo.







Addio a Eryn Lasgalen



*



L'Incanto dell'Alba

A serpent lights the ancient sky,
A threat of tainted stars.
Evil stirs and in its wake,
The souls of mortals sway.

Sorrow reigns,
Over fields of red.
Spirits pace,
Through the shadows cast by their graves.

These are days and nights of venom and blood,
Heroes will rise as the anchors fall.
Brave the strife, reclaim every soul
That belongs to the Beauty of Dawn.

Darkness strives to blind the strong
But Faith will guide our swords.
Loyal hearts we'll stand as one
And fight with shields of Hope.

Pride fuels the deadly fire
That devours our tower of gold.
The drums of war will rage and roar
‘Til the sun burns bright once more.

These are days and nights of venom and blood,
Heroes will rise as the anchors fall.
Brave the strife, reclaim every soul,
That belongs to the Beauty of Dawn.



Thranduil e Filigod
© fox king

   
 
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