Ti ho
voluto
bene veramente
Così
sono partito per un lungo viaggio
Lontano dagli errori e dagli sbagli che ho commesso
Michael.
Un secondo
prima il tuo nome era l’unica fonte della
mia gioia, un nettare al quale anelavo per sopravvivere. Ora tra le mie
labbra
diviene amaro e schiuma in gola come veleno.
Come hai
potuto?
Tu mi chiedi
scusa non una, ma cento volte. Ancora
prima che io reagisca, tu ti scusi.
Perché
mi hai ingannato e lo sai. Mi hai fatto credere
che la nostra fosse una semplice passeggiata sotto la pioggia, sapevi
bene che
sarebbe mutata nel più crudele dei delitti. Eppure hai
protratto sinora il tuo
inganno.
Con gli occhi
gravidi di pianto mi implori di restare.
Ma quanto piange il cielo in confronto a te, e se i tuoi occhi sono
lucidi, le tue
guance sono asciutte.
Non ti credo
più.
Come vetro il
mio cuore s’incrina, una crepa diviene
una ragnatela di fratture fino a esplodere in una cascata di frammenti.
Ormai
non ho più un cuore che batta per te, eppure sembra che i
suoi fragili pezzi
siano tutti protesi verso i tuoi occhi lucidi. Oh, no. Li
porterò via con me,
me ne andrò. Fuggirò da te, perché mi
sento ancora troppo tuo per starti
accanto.
Ho
visitato luoghi per non
doverti rivedere
E
più mi allontanavo e più sentivo di star bene
Che tu sia dannato,
Michael.
Il produttore batté le
mani.
«Bene, vedo che ci siamo tutti. Bando alle ciance: dobbiamo
ripensare lo spot
pubblicitario daccapo, soprattutto adesso che Mengoni sostituisce Lucia
e
credetemi sulla parola se vi dico che due persone tanto diverse non
esistono in
tutto il mondo.»
Degli sproloqui del signor
Fastidio –il cui nome era peraltro ancora sconosciuto ai
più– Marco non ascoltò
una parola, troppo concentrato sugli occhi consapevoli di Michael.
Occhi che
scrutavano, occhi che sapevano e scavavano affondo. Occhi che
parlavano. Occhi
che perfino sorridevano.
Sapeva perfettamente che
Marco non si aspettava di trovarlo lì, conosceva le sue
intenzioni, ossia
quelle di non rivederlo mai più. Lo aveva incastrato per
bene, messo nel sacco.
Marco ormai non poteva più scindere il contratto, a malapena
i dirigenti lo
avevano ritirato a Federico, per ragioni del tutto straordinarie.
Già
immaginava l’entusiasmo del target al quale X Factor puntava
–ragazzine,
ragazzini e madri lavoratrici– quando avessero rivelato i
nomi dei giudici.
Strano a dirsi, le cinquantenni con velleità artistiche e le
nonnine arzille
stravedevano per Marco come le ragazzine delle medie, mentre Michael
conquistava adolescenti, genitori single appena trentenni e zie in
sovrappeso. Mossa
astuta quella di unire entrambi in un unico programma: avrebbero
conquistato il
mondo.
Peccato che a Marco, di
conquistare il mondo con Michael, non importasse un fico secco.
L’unica cosa
che desiderava in quel momento era la fuga, forse per questo
l’altro sorrideva
in quel modo soddisfatto e al contempo irritante. Marco non poteva
andare da
nessuna parte, per questo prima lo aveva apostrofato come scappatore, per sottolineare
l’impossibilità di sottrarsi non solo
a quell’incontro, ma a tutti i provini e le puntate di X
Factor, nonché per
l’ExtraFactor. Sarebbero stati gomito a gomito sempre, in
ogni secondo.
Marco era fottuto.
E
nevicava molto però io
camminavo
A
volte ho acceso un fuoco per il freddo e ti
pensavo
Si
accasciò, ancora incredulo,
sulla sedia, tra il produttore e Irene, di fronte a lui c’era
Elio e Michael
era proprio accanto. L’espressione furbetta del suo viso
lasciava presagire un
piano studiato nel dettaglio. Marco era convinto che fosse tornato
lì per lui,
non per stargli accanto, quanto piuttosto per torturarlo, per
possederlo, per
ricordargli ogni minuto della sua vita che lui, sì, proprio
lui era suo e di
nessun altro.
Per tutta la
durata
dell’incontro, Marco digrignò i denti per
l’indignazione, mentre gli altri
commentavano, sorridevano, facevano cose.
Lo spot per
annunciare
l’inizio del programma sarebbe stato girato tre giorni dopo:
ciascuno dei
giudici si sarebbe presentato da solo su un palcoscenico vuoto. Avrebbe
detto
il proprio nome, la provenienza, il ruolo che la musica ricopriva nella
propria
vita, poi avrebbe cantato (si era optato di comune accordo per dei meri
vocalizzi, onde evitare di autocelebrarsi o di incorrere in sgradevoli
inconvenienti di copyright), poi tutti assieme sarebbero stati filmati
come una
band; dei ragazzi presenti al primo giorno di audizioni sarebbero stati
filmati
mentre urlavano, dicevano o cantavano un grande
“sì” a favore dei giudici. Una
specie di audizione al contrario, quello spot, per celebrare la decima
stagione
del talent. L’idea piacque a tutti, perfino Marco ne fu
colpito: chiaramente,
non era farina del sacco del fastidioso produttore.
Quest’ultimo
descrisse nel
dettaglio il compito di Marco per quell’edizione: nonostante
non fosse più un
ragazzo, bensì un uomo, era comunque il giudice
più giovane e quella sarebbe
stata la sua parola d’ordine. L’abbigliamento, il
modo di parlare e di
interagire con giudici e concorrenti, perfino le sue scelte musicali
avrebbero
dovuto essere giovani, fresche e moderne. Il suo punto debole, invece,
sarebbe
stato un’eccessiva difesa dei propri gusti, dei propri
concorrenti, una sorta
di gelosia infantile. Per come la vedeva Marco, era tutto fin troppo
studiato:
non poteva certo comportarsi come un ragazzo in tempesta ormonale,
quella farsa
per farlo sembrare appena un teenager sarebbe risultata sgradita e
falsa agli
occhi del pubblico e, per carità, nulla sarebbe stato
più ridicolo di un uomo
con barba e capelli bianchi che butta a caso frasi come
«Bella zio».
Non avrebbe
mai funzionato.
Eppure Marco,
troppo timido
ed educato per controbattere, fece di sì con la testa
continuamente, senza neppure
accennare al proprio parere. In quello fu davvero impeccabile.
A ciascuno
venne dato quel
tipo di direttiva, ma Marco ormai aveva smesso di ascoltare da un
pezzo. Dopo
qualche altra comunicazione e aver stabilito luogo e ora del prossimo
appuntamento, vennero tutti congedati.
Marco
praticamente schizzò
fuori dalla sala, al fine di evitare Michael, ma la sorte gli fu
avversa,
poiché nell’estrarre dalla tasca dei pantaloni il
suo consueto pacchetto di
sigarette, queste gli volarono di mano e molte andarono a spargersi sul
pavimento. Si chinò e le raccolse nervosamente, ma non fu
abbastanza svelto:
due mani, grandi e forti quanto le sue, si avvicinarono per aiutarlo.
Le sue mani. Odiava quelle
mani.
«Lascia,
faccio io.»
«No,
grazie» ribatté Marco,
piccato. «Ho fatto.»
Si rimise in
piedi in un
batter d’occhio, guardando Michael dall’alto in
basso. Egli gli sorrise con gli
occhioni divertiti. Poi si alzò anche lui da terra,
porgendogli le sigarette
che aveva preso. Marco le afferrò di malavoglia e se le
ficcò tutte in tasca.
Poi lo osservò.
Sognando
ad occhi aperti sul
ponte di un traghetto
Credevo
di vedere dentro il mare il tuo riflesso
I riccioli di Michael erano
leggermente
arruffati quel giorno, indossava dei jeans aderenti e una maglia
bianca, dove
si intravedeva una macchia violacea che sembrava marmellata, proprio
vicino al
fianco sinistro. In quel modo sembrava un bambino dispettoso che si era
svegliato tardi e aveva consumato la colazione in fretta e furia per
arrivare
puntuale a scuola. Un gran bambinone come al solito. Strano come tutto
ciò che
un tempo aveva trovato tenero, ora gli paresse irritante e lo urtasse.
No, non era affatto vero. Era
ancora tenero ai suoi occhi. Ma la cosa non aveva più
importanza.
«Marco, ciao» gli fece,
spontaneo. «Quanto tempo noi non vediamo. È
da...»
«Dall’Irlanda, sì» lo
precedette, per evitare che lo dicesse lui. Tutt’a un tratto
il sorriso di
Michael si affievolì, il suo volto divenne più
serio, quasi infelice. Ma era
ovviamente impossibile, si disse, perché un uomo nella sua
condizione non può
essere infelice.
«Senti, io ha voluto tanto
parlare a te, ma io ho voluto lasciare tuoi spazi. Sono passati tre
mesi, noi
deviamo parlare.»
Marco scosse la testa. Doveva
essere un incubo, un orribile e grottesco incubo dal quale si sarebbe
svegliato. Si rifiutava di parlare di quel giorno. «Non
è né il momento né il
luogo. Ti pare?»
«Prima o poi sarà» rispose,
quasi profetico. «E noi ci diremo tante cose.»
Scuotendo la testa, cercò di
raccogliere il coraggio. Aveva immaginato tante volte quella
conversazione
nella sua mente, ma ora le parole svanivano come vento tra le dita e
non ne
aveva di buone da usare. Infine, cauto, replicò:
«Io credo che non abbiamo
niente da dirci.»
Fu lì che Michael sorrise.
Sì, sorrise proprio con una faccia da schiaffi.
«Io vado via, così tu non agiti
e non sei triste, ok? Ma poi noi ci vediamo in tre giorni.
Così tu hai tempo
per pensare se è momento e luogo.»
Le
luci dentro al porto
sembravano lontane
Ed
io che mi sentivo felice di approdare
Mentre si allontanava,
Marco
si sentì ribollire di rabbia: pensava che andandosene
avrebbe fatto un favore a
lui? Tutt’al
più, lo avrebbe fatto a
se stesso, evitando una situazione imbarazzante in cui
l’altra persona non
aveva nulla da dirgli. Marco stava benissimo senza Michael.
Non gli
avrebbe detto una
parola di più del dovuto.
Questo
pensò, guardandolo andar
via. Lasciò andare il respiro, neppure si era reso conto di
averlo trattenuto.
E
mi cambiava il volto e la barba
mi cresceva
Trascorsi
giorni interi senza dire una parola
Se era lontano, odiare
Michael era molto, molto più facile.
Il giorno dello spot era
arrivato.
Marco decise, una volta tanto,
di contravvenire alle istruzioni che gli erano state fornite. Una
canottiera
scollata e dei pantaloni corti e colorati non erano nel suo stile,
decisamente.
Visto il caldo optò per una t-shirt nera e dei pantaloncini
bianchi di lino.
Anelli, bracciali e il rosario che sua madre gli aveva regalato
avrebbero
compensato la sua mancanza di colore la quale, a sua volta, serviva per
compensare la mancanza dei caratteristici tatuaggi di Fedez. Visto che
non
riusciva a farsi valere con le parole, lo avrebbe fatto con le azioni.
Il luogo d’incontro era un
teatro, piccolo e sperduto, nella periferia milanese. Gli era chiaro
ciò che avrebbe
dovuto fare: camminare con passo incerto sul palcoscenico, posizionarsi
al
centro e recitare la sua battuta: «Sono Marco Mengoni, vengo
da Ronciglione e la
musica è il mio riflesso». Sembrava abbastanza
facile.
Ma lì ci sarebbe stato anche
Michael, e con lui nulla era mai stato facile.
Arrivò lì in circa tre quarti
d’ora, colpa del traffico mattutino. Quando entrò
dalla porta già spalancata,
gli sembrò di assistere a uno spettacolo in miniatura: le
luci e le videocamere,
tutto era stato studiato e orchestrato per far sembrare quello un
teatro
abbandonato e fatiscente, in cui alcuni fori nel soffitto lasciavano
trapelare
dei piccoli fari luminosi.
Michael era lì in piedi.
Stavano filmando la sua parte della pubblicità. Gli altri
giudici lo guardavano
con un sorriso stampato in volto, probabilmente dopo aver girato
ciascuno la
propria scena.
Lui aveva un completo beige
con sotto una camicia bordeaux e cravatta ricca di elaborati ghirigori
beige e
panna. Sembrava un principe, dominava quel piccolo palco con la sua
sola
presenza, senza però essere ingombrante. Era a casa sua.
«Sono Michael Holbrook
Penniman Junior» iniziò, la sua voce sprizzava
vivacità e voglia di cantare.
«Vengo da Londra e il canto è il mio primo
amore.»
Marco storse il naso. Aveva
pronunciato Michael all’inglese, come gli avevano suggerito
di fare per
rendersi più internazionale, mentre Marco sapeva
perfettamente che si
pronunciava così come si scriveva, con l’accento
posto sulla “e”. Anche se
diceva di venire da Londra, la sua casa effettiva, era un fatto
risaputo che
fosse nato a Beirut. Per quanto riguardava il suo primo amore, sapeva
per certo
che da piccolo giocasse a fare lo sposo con sua sorella Zuleika, con le
altre
due sorelle a fare da damigelle e il papà che faceva da
prete. Quindi, per
quanto eloquente, ogni singola parola della sua presentazione era una
bugia.
Glielo avrebbe rinfacciato.
«Taglia!» urlò il regista, un
ometto basso e tarchiato, con un pizzetto sale e pepe e un gran paio di
occhialoni rotondi. Questi si voltò verso Marco e gli fece
cenno di
avvicinarsi.
Michael balzò giù dal palco e
lo salutò con un cenno della mano. A quel gesto, Marco
tirò dritto di
proposito, fingendo che la risatina che udì di seguito fosse
frutto della sua
immaginazione. Salutò cordialmente il regista, il quale lo
squadrò con disgusto,
ma sorvolò circa il suo abbigliamento completamente
sbagliato. Gli comunicò ciò
che avrebbe dovuto fare: raggiungere il centro del palco come fosse
spaesato,
giungere al centro, esibirsi prima con i vocalizzi e poi registrare la
sua
battuta. Tutto chiaro.
Dopo una breve sistemata
presso la sezione trucco e parrucco, fu pronto per girare. Non fu
affatto
complicato, il tutto durò all’incirca un minuto e
mezzo, pause e tagli esclusi.
Finì ancora prima di rendersene conto e quello sì
che fu un grande sollievo.
Il regista gli disse di
restare sul palco mentre, sotto gli occhi stupefatti di Marco, a
velocità
supersonica i tecnici portarono una batteria, una chitarra elettrica,
un
pianoforte e un autentico microfono vintage. Sentì la risata
di Elio alle sue
spalle, probabilmente per via della sua bocca spalancata di fronte a
quella
piccola magia. Presto tutti e quattro i giudici salirono sul palco.
Elio prese
posto alla batteria, Michael si sedette al piano e Irene
afferrò la chitarra.
Marco afferrò quel microfono pazzesco e, quando dalle casse
venne sprigionata
una musica energica e palesemente pre-registrata, tutti finsero di
suonare e
iniziarono a divertirsi come dei pazzi. Marco scoppiò a
ridere, perché se da
una parte le casse battevano al ritmo di quella musica incalzante, sul
palco
ognuno suonava quello che voleva ed era davvero atroce, ma nulla che
una buona
dose di umorismo non potesse riparare. Iniziò a giocare con
l’asta del
microfono, ballare e fare quelle mosse che tanto facevano piacere alle
ragazzine e tanto facevano ridere i loro fidanzati.
A un certo punto, proprio
mentre si stava divertendo, Michael gli si affiancò. Si mise
accanto a lui come
un vecchio amico e finse di rubargli il microfono di mano.
Ma come si era permesso?
Marco cercò di tirare il
microfono verso di sé, scatenando
l’ilarità generale: sembravano due vocalist
in competizione per il ruolo di leader. Se lo contesero, Marco
seriamente
irritato e Michael che invece rideva come un bambino. Presto quel gioco
coinvolse tutti e anche Elio e Irene cercarono di rubare il microfono a
Marco.
Quando il regista urlò il suo «Stop!»,
anche lui stava ridendo. Avrebbe tenuto
quella ripresa improvvisata, poco ma sicuro.
Marco scese dal palco senza
voltarsi indietro, suscitando un coro sdegnato da parte dei suoi
colleghi, che
si chiesero perché Marco dovesse fare il guastafeste.
Neppure fece in tempo a
uscire dal teatro per farsi una sigaretta, che subito sentì
la voce di Michael
dietro di sé che tutto pimpante annunciò:
«Ecco lo scappatore!»
E
quanto avrei voluto in
quell’istante che ci fossi
Si voltò, tutti
sorridevano
pensando a uno scherzo.
Certo che lo pensavano.
Nessuno di loro sapeva per quale motivo Marco ce l’avesse con
Michael tanto che
ogni suo gesto risultava quanto mai provocatorio, non era certo colpa
loro.
Così, di malavoglia, finse di ridere e tornò tra
di loro, con somma
soddisfazione di Michael.
Forse a lui non dava fastidio
fingere che fossero amici come prima, ma a Marco sì,
parecchio. Borbottò un
blando: «Comunque sei un falso.»
«Perché dice questo?»
Non la piantava neanche un
secondo di sorridere. Marco avrebbe dato qualunque cosa per togliergli
quel
ghigno dalla faccia: per colpa sua, non sorrideva da mesi, come faceva
lui
invece a essere così felice?
Ah, giusto. Si era liberato di Marco.
Si schiarì la voce. «Sai, non
sei di Londra, il tuo nome non si pronuncia Michael
all’inglese e... sì, hai
giurato amore eterno a tua sorella Zuleika. Quindi hai detto una bugia
dietro
l’altra nella registrazione.»
Il sorriso di Michael si
ampliò fin quasi a raggiungere le orecchie. «Tu ti
ricordi tutte queste cose?»
Marco si morse le labbra.
Quanto era stato stupido!
Sperava di zittirlo una volta per tutte, invece gli aveva dato
l’ennesima scusa
per rimarcare il proprio dominio su di lui. Si sentì un
idiota di prima
categoria.
«Tu ti ricordi» constatò
nuovamente, colmo di gioia per chissà cosa. «Wow,
che grande memoria! Invece io
volevo di dire a Irene il nome di tua madre e non lo ricordavo...
è Sofia?»
«Nadia.»
Quella fu la sua unica
risposta.
Era troppo, perfino per lui.
Era stato meschino da parte
sua sottolineare come Marco ricordasse ancora ogni cosa di loro, mentre
Michael
neppure aveva azzeccato il nome di sua madre. Dovette incassare anche
quel
colpo, dopo tutti i rospi che aveva già dovuto ingoiare a
causa sua.
Fu lì, negli sguardi
impietositi dei suoi colleghi, che Marco capì che loro
sapevano. Forse non ne
erano certi, ma di sicuro lo avevano intuito, forse proprio per colpa
dell’ostinazione di Marco. Ottimo, non poteva andare peggio
di così.
Tirò su col naso per
trattenere le lacrime: «Beh, è evidente che i
dettagli te li sei scordati.
Pazienza, ce ne faremo una ragione.»
Michael gli tirò
scherzosamente un finto pugno sulla spalla. «Non essere
arrabbiato, Marco! Io
ho memoria di merda, per questo non ricordavo.»
Rise, ma la sua risata aveva
poco a che fare con il divertimento. «E chi si arrabbia? Io
no.»
La tempesta sembrò evitata e
tutti sorrisero di sollievo, poi si misero a discutere delle audizioni,
che
sarebbero cominciate il 26 giugno, ossia tra dieci giorni appena. Irene
era
seccata per via dell’abbigliamento che le avevano imposto:
invece dei suoi
soliti abiti hippie e al contempo eleganti, l’avrebbero
agghindata come una
jazzista di secondo ordine. Elio rise, ribattendo che, se voleva
decidere lei
per se stessa, avrebbe dovuto per lo meno vincere
quell’edizione al primo
colpo.
Tra quelle chiacchiere tanto
amichevoli, Marco non si sentì a suo agio. Prese una
sigaretta e annunciò la
“pausa ciminiera”, giusto perché
ridessero un po’. Poi volò giù dal
palco e
uscì dal teatro, indossò degli occhiali da sole e
si poggiò al muro. Sigaretta
accesa tra le dita, un profondo respiro, nicotina in circolo, un
sospiro
soddisfatto e grigio di fumo.
Finalmente una meritata
pausa.
«Marco.»
Aveva parlato troppo presto.
Perché
ti voglio bene veramente
E
non esiste un luogo dove non mi torni in mente
«Sai, noi
stavamo pensando»
si poggiò affianco a lui «di arrivare a le
audizioni a cavallo! Ti piace?»
Marco
annuì. «Bello.»
Rimasero per
un po’ in
silenzio, l’uno cercando di capire cosa pensasse
l’altro. Come prevedibile, fu
Michael a rompere il silenzio.
«Ora
è momento e luogo?»
«No.»
«Perché
non vuoi parlare?»
Marco si
voltò e vide che
finalmente aveva smesso di sorridere. Stavolta toccò a lui
sogghignare. «Hai
parlato abbastanza tu per tutti e due. Prima, sul palco» e
indicò l’ingresso
del teatro con un cenno della mano.
Sbuffò
sonoramente. «Solo
perché io non mi è ricordato il nome di tua
madre.»
«O
forse perché mi hai fatto
fare la figura del disperato» sbottò, incapace di
trattenersi oltre.
«Questa
è una sciocchezza»
fece, sembrando addirittura offeso. «Io volevo solo dire che
tu hai memoria
molto grande e io no.»
Marco
gettò la sigaretta a
terra e la calpestò. Tanto valeva giocare a carte scoperte,
anche se sapeva che
avrebbe versato calde lacrime per tutta la notte, ma meglio che tenersi
tutto
dentro fino alla fine.
Avrei
voluto averti veramente
E
non sentirmi dire che non posso farci niente
«Ora ti dico
com’è andata la
cosa» soffiò l’ultima nuvola di fumo.
«Io non ne ho più voluto sapere di te
dopo l’Irlanda, a ragione direi. Pensavi che sarei tornato
strisciando da te ma
non l’ho fatto, quindi hai pensato bene di venire a X Factor
e fare di nuovo il
giudice, giusto per darmi il tormento e vedere come stavo di merda
senza di te
e poterti divertire a mie spese. Allora, ci ho visto giusto?»
Sorrise, quasi per dispetto.
Michael, invece, sembrò un
bambino al quale avevano tirato uno schiaffo. Provò una
rabbia contenuta.
Scosse la testa impercettibilmente, quasi più per se stesso
che per Marco.
«Tu sei un pazzo» sentenziò,
infine. «Non sai quello che dici.»
«Io credo di saperlo,
invece.»
Avrei
trovato molte più risposte
Se
avessi chiesto a te ma non fa niente
Si
grattò la testa, le sue
mani affondate nei propri, folti riccioli. Sospirò,
accennò brevi sorrisi amari
e scrollò le spalle. Sembrava non sapere nemmeno cosa fare,
o cosa dire, forse
per la prima volta da quando si erano conosciuti.
Marco si sentì
momentaneamente meglio: in realtà, di dire a Michael la
verità, non gli
importava affatto, voleva solo fargli del male. E ci era riuscito.
Poteva
essere contento.
«I decided to came back, but it was a mistake.» Ho
deciso di
tornare, ma è stato uno sbaglio.
Detto questo,
tornò nel
teatro, lasciando Marco a crogiolarsi nella sua stagnante, malsana
felicità.
Finalmente anche Michael soffriva come aveva sofferto lui. Si potevano
forse
dire pari? Questo non lo sapeva.
L’unica
cosa che sapeva era
che, quando aveva immaginato il momento in cui gli avrebbe rinfacciato
tutto,
aveva pensato di sentirsi meglio di così.
Non sarebbe
mai stato così
semplice, vero?
In quei dieci giorni,
i
quattro giudici si videro quasi ogni mattina. I veterani diedero a
Marco e a Irene dei
preziosi consigli su come essere un giudice giusto e, nel frattempo, un
personaggio televisivo di portata non indifferente. Elio fu un mentore
eccezionale, fece sentire Marco sempre più convinto della
propria decisione:
comprese finalmente che il suo scopo in quanto giudice non era di fare
bella
figura o di mettersi alla prova, ma di forgiare talenti. Il pensiero di
aiutare
dei ragazzi a scoprire il fattore X che c’era in loro
aiutò Marco a ritrovare
un entusiasmo che credeva perduto. Poteva dirsi finalmente soddisfatto,
nonostante il nervosismo che gli scuoteva le vene e i polsi al pensiero
di
parlare di fronte a pubblico e concorrenti.
Con Michael,
invece, i
rapporti erano diventati puramente professionali. Una volta per tutte,
aveva
capito che erano solamente colleghi e in quanto tali si erano scambiati
tutt’al
più consigli e opinioni, nulla di più. Forse,
pensò Marco, le cose stavano
iniziando ad andare per il verso giusto.
Allora
perché non si sentiva
del tutto felice?
Mi
sentirei di dirti che il
viaggio cambia un uomo
E
il punto di partenza sembra ormai così lontano
Forse era stato per il modo
in cui si era rivolto a Michael. In Irlanda lo aveva ferito, ma non
voleva dire
che si meritasse un trattamento come quello che Marco gli aveva
riservato. Si
sarebbe sentito meglio, magari, se si fosse scusato.
Decise che non lo avrebbe
fatto. D’altronde, si era già umiliato abbastanza
per lui. Doveva rammentare
che da colleghi avrebbero finto di essere pappa e ciccia. Ma come ex,
non
avrebbe avuto pietà.
Pur ignorando un piccolo nodo
che sentiva nella gola.
La mattina del 26 di giugno,
Marco si recò in una specie di hangar utilizzato per tenere
i cavalli sui quali
i giudici si sarebbero presentati sul tappeto rosso (sì,
alla fine
quell’assurda idea era stata approvata). Indossava una
camicia bianca, un gilet
nero e pantaloni neri, scelta che gli venne nuovamente criticata per
non essere
abbastanza “giovane”. Mentre una stagista era
lì a fargli la predica, con la
coda dell’occhio scorse Michael, fasciato in un elegantissimo
tartan verde
smeraldo. Questi andò verso di lui e, come una falena
attratta dalla sua fiamma,
involontariamente Marco lo raggiunse.
La
meta non è un posto ma è
quello che proviamo
E
non sappiamo dove né quando ci arriviamo
Michael lo
osservò con un
tenue sorriso. Marco si maledisse, era sicuro che avesse già
compreso quell’inspiegabile
magnetismo che li aveva fatti avvicinare. Dannazione.
«Ciao
Marco» lo salutò come se il giorno prima non fosse
mai esistito. «Questi stallioni sono
fantastici.»
Marco
si voltò: un imponente pezzato con una folta criniera
cercò di montare, proprio
in quel momento, una giumenta bianca che sembrava uscita da una fiaba.
Un
fantino li separò, tra lo sgomento e
l’ilarità generale.
Non
poté fare a meno di
sorridere. «Al mio cavallo piace la tua puledra»
constatò in tutta ingenuità.
Poi
all’improvviso Michael lo
attirò a sé e lo abbracciò.
Trascorsi
giorni interi senza
dire una parola
Credevo
che fossi davvero lontano
Non andava bene. Non
andava
affatto bene.
Lo aveva
praticamente
imprigionato tra le sue braccia, con le mani premute sulle sue scapole.
Il
volto di Marco andò letteralmente a fuoco. Perché
lo stava abbracciando, lì di
fronte a tutti, poi? E in quel modo? Lo aveva insultato ieri, aveva
fatto delle
insinuazioni pesanti. Non c’era motivo di abbracciarlo. Marco
pensò di
divincolarsi.
Sospirò.
Era stanco di essere
lo scappatore.
Michael
parlò piano, quasi
per timore di rompere l’incanto. «Io non sono qui
perché voglio tormentare. Io
sono qui perché mancavi tu.»
Sapessimo
prima di quando
partiamo
Che
il senso del viaggio e la meta è il richiamo
Marco chiuse gli occhi
e
scosse la testa. Una parte di lui avrebbe voluto lasciarsi andare nel
suo
abbraccio e alle sue parole, ma sapeva perfettamente cosa lo aspettava
se
avesse ceduto.
«Non
manco io» replicò, senza
staccarsi. «Non possiamo cambiare le cose. O, almeno, io non
posso.»
«Io
non posso» disse,
aggrappandosi al suo gilet.
Marco era
migliore di così.
Non sarebbe stato più ciò che era prima, per il
bene di tutti. Poteva aver
sbagliato in passato senza che questo influenzasse il suo presente.
Fece per
staccarsi, ma
Michael lo tenne più forte. «No, no, non essere
arrabbiato. Io non posso fare
nulla per io e te. Ma questo non è che non ti voglio
bene.»
Perché
ti voglio bene veramente
E
non esiste un luogo dove non mi torni in mente
In quel momento, Marco
capì
che qualcosa tra loro era rimasto in sospeso, ma era bene che rimanesse
tale.
Era pericoloso, in quella situazione. Non avrebbero dovuto.
Così,
per quanto doloroso
fosse, Marco dovette dirgli quello che poi gli disse.
«Anche
io ti ho voluto bene,
veramente.»
Avrei
voluto averti veramente
E
non sentirmi dire che non posso farci niente
Non ci fu bisogno di dire
altro. Michael sciolse il loro abbraccio con un sorriso sghembo, forse
accontentandosi, forse pensando che fosse meglio di niente.
In quel momento, Marco capì
che le cose erano tornate al loro posto, che così doveva
essere. Ma una parte
di lui avrebbe voluto cambiare le parole e quel tempo volgerlo al
presente
perché, sì, gli voleva bene veramente, nonostante
tutto. Ma cosa avrebbe potuto farci Michael,
con il suo affetto? Assolutamente niente.
Avrei
trovato molte più risposte
Se
avessi chiesto a te ma non fa niente
Non
posso farlo ora che sei così lontano
Era troppo tardi.
Non
posso farlo ora.
La
soffitta
dell’autrice:
Eccomi qua, sono
tornata! Con un capitolo un po’
crudele per i miei standard ma, beh, vorrei vedere voi a essere feriti
come è
stato ferito Marco. Chissà che gli avrà fatto
Mika di tanto grave da allontanarlo
per sempre (?). Lo scoprirete solo leggendo! Ringrazio come sempre la
mia beta,
la pazzesca comeunangeloallinferno94. Per lei la mia fanfic non ha
segreti!
Chicca del capitolo: ero io a credere che la mamma di Marco si
chiamasse Sofia, anziché Nadia.
Un
bacio.