Fanfic su artisti musicali > Mika
Segui la storia  |       
Autore: _Even    10/01/2016    3 recensioni
«Se una storia è finita, se un'amicizia si è rotta, è meglio evitarsi per ricucire le ferite. Solo così ci risparmiamo altro inutile dolore.»
E se non tutto il dolore fosse inutile?
E se evitarsi non fosse possibile?
E se una storia non fosse del tutto finita?
X Factor 10. Due giudici. Una storia finita nel peggiore dei modi. Un album che ne percorre il destino.
[Mirco]
Genere: Malinconico, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Elio, Marco Mengoni, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Ti ho voluto bene veramente
 

Così sono partito per un lungo viaggio
Lontano dagli errori e dagli sbagli che ho commesso

Michael.
Un secondo prima il tuo nome era l’unica fonte della mia gioia, un nettare al quale anelavo per sopravvivere. Ora tra le mie labbra diviene amaro e schiuma in gola come veleno.
Come hai potuto?
Tu mi chiedi scusa non una, ma cento volte. Ancora prima che io reagisca, tu ti scusi.
Perché mi hai ingannato e lo sai. Mi hai fatto credere che la nostra fosse una semplice passeggiata sotto la pioggia, sapevi bene che sarebbe mutata nel più crudele dei delitti. Eppure hai protratto sinora il tuo inganno.
Con gli occhi gravidi di pianto mi implori di restare. Ma quanto piange il cielo in confronto a te, e se i tuoi occhi sono lucidi, le tue guance sono asciutte.
Non ti credo più.
Come vetro il mio cuore s’incrina, una crepa diviene una ragnatela di fratture fino a esplodere in una cascata di frammenti. Ormai non ho più un cuore che batta per te, eppure sembra che i suoi fragili pezzi siano tutti protesi verso i tuoi occhi lucidi. Oh, no. Li porterò via con me, me ne andrò. Fuggirò da te, perché mi sento ancora troppo tuo per starti accanto.
 

Ho visitato luoghi per non doverti rivedere
E più mi allontanavo e più sentivo di star bene

Che tu sia dannato, Michael.
 

Il produttore batté le mani. «Bene, vedo che ci siamo tutti. Bando alle ciance: dobbiamo ripensare lo spot pubblicitario daccapo, soprattutto adesso che Mengoni sostituisce Lucia e credetemi sulla parola se vi dico che due persone tanto diverse non esistono in tutto il mondo.»
Degli sproloqui del signor Fastidio –il cui nome era peraltro ancora sconosciuto ai più– Marco non ascoltò una parola, troppo concentrato sugli occhi consapevoli di Michael. Occhi che scrutavano, occhi che sapevano e scavavano affondo. Occhi che parlavano. Occhi che perfino sorridevano.
Sapeva perfettamente che Marco non si aspettava di trovarlo lì, conosceva le sue intenzioni, ossia quelle di non rivederlo mai più. Lo aveva incastrato per bene, messo nel sacco. Marco ormai non poteva più scindere il contratto, a malapena i dirigenti lo avevano ritirato a Federico, per ragioni del tutto straordinarie. Già immaginava l’entusiasmo del target al quale X Factor puntava –ragazzine, ragazzini e madri lavoratrici– quando avessero rivelato i nomi dei giudici. Strano a dirsi, le cinquantenni con velleità artistiche e le nonnine arzille stravedevano per Marco come le ragazzine delle medie, mentre Michael conquistava adolescenti, genitori single appena trentenni e zie in sovrappeso. Mossa astuta quella di unire entrambi in un unico programma: avrebbero conquistato il mondo.
Peccato che a Marco, di conquistare il mondo con Michael, non importasse un fico secco. L’unica cosa che desiderava in quel momento era la fuga, forse per questo l’altro sorrideva in quel modo soddisfatto e al contempo irritante. Marco non poteva andare da nessuna parte, per questo prima lo aveva apostrofato come scappatore, per sottolineare l’impossibilità di sottrarsi non solo a quell’incontro, ma a tutti i provini e le puntate di X Factor, nonché per l’ExtraFactor. Sarebbero stati gomito a gomito sempre, in ogni secondo.
Marco era fottuto.

 

E nevicava molto però io camminavo
A volte ho acceso un fuoco per il freddo e ti pensavo

Si accasciò, ancora incredulo, sulla sedia, tra il produttore e Irene, di fronte a lui c’era Elio e Michael era proprio accanto. L’espressione furbetta del suo viso lasciava presagire un piano studiato nel dettaglio. Marco era convinto che fosse tornato lì per lui, non per stargli accanto, quanto piuttosto per torturarlo, per possederlo, per ricordargli ogni minuto della sua vita che lui, sì, proprio lui era suo e di nessun altro.
Per tutta la durata dell’incontro, Marco digrignò i denti per l’indignazione, mentre gli altri commentavano, sorridevano, facevano cose.
Lo spot per annunciare l’inizio del programma sarebbe stato girato tre giorni dopo: ciascuno dei giudici si sarebbe presentato da solo su un palcoscenico vuoto. Avrebbe detto il proprio nome, la provenienza, il ruolo che la musica ricopriva nella propria vita, poi avrebbe cantato (si era optato di comune accordo per dei meri vocalizzi, onde evitare di autocelebrarsi o di incorrere in sgradevoli inconvenienti di copyright), poi tutti assieme sarebbero stati filmati come una band; dei ragazzi presenti al primo giorno di audizioni sarebbero stati filmati mentre urlavano, dicevano o cantavano un grande “sì” a favore dei giudici. Una specie di audizione al contrario, quello spot, per celebrare la decima stagione del talent. L’idea piacque a tutti, perfino Marco ne fu colpito: chiaramente, non era farina del sacco del fastidioso produttore.
Quest’ultimo descrisse nel dettaglio il compito di Marco per quell’edizione: nonostante non fosse più un ragazzo, bensì un uomo, era comunque il giudice più giovane e quella sarebbe stata la sua parola d’ordine. L’abbigliamento, il modo di parlare e di interagire con giudici e concorrenti, perfino le sue scelte musicali avrebbero dovuto essere giovani, fresche e moderne. Il suo punto debole, invece, sarebbe stato un’eccessiva difesa dei propri gusti, dei propri concorrenti, una sorta di gelosia infantile. Per come la vedeva Marco, era tutto fin troppo studiato: non poteva certo comportarsi come un ragazzo in tempesta ormonale, quella farsa per farlo sembrare appena un teenager sarebbe risultata sgradita e falsa agli occhi del pubblico e, per carità, nulla sarebbe stato più ridicolo di un uomo con barba e capelli bianchi che butta a caso frasi come «Bella zio».
Non avrebbe mai funzionato.
Eppure Marco, troppo timido ed educato per controbattere, fece di sì con la testa continuamente, senza neppure accennare al proprio parere. In quello fu davvero impeccabile.
A ciascuno venne dato quel tipo di direttiva, ma Marco ormai aveva smesso di ascoltare da un pezzo. Dopo qualche altra comunicazione e aver stabilito luogo e ora del prossimo appuntamento, vennero tutti congedati.
Marco praticamente schizzò fuori dalla sala, al fine di evitare Michael, ma la sorte gli fu avversa, poiché nell’estrarre dalla tasca dei pantaloni il suo consueto pacchetto di sigarette, queste gli volarono di mano e molte andarono a spargersi sul pavimento. Si chinò e le raccolse nervosamente, ma non fu abbastanza svelto: due mani, grandi e forti quanto le sue, si avvicinarono per aiutarlo. Le sue mani. Odiava quelle mani.
«Lascia, faccio io.»
«No, grazie» ribatté Marco, piccato. «Ho fatto.»
Si rimise in piedi in un batter d’occhio, guardando Michael dall’alto in basso. Egli gli sorrise con gli occhioni divertiti. Poi si alzò anche lui da terra, porgendogli le sigarette che aveva preso. Marco le afferrò di malavoglia e se le ficcò tutte in tasca. Poi lo osservò.
 

Sognando ad occhi aperti sul ponte di un traghetto
Credevo di vedere dentro il mare il tuo riflesso

I riccioli di Michael erano leggermente arruffati quel giorno, indossava dei jeans aderenti e una maglia bianca, dove si intravedeva una macchia violacea che sembrava marmellata, proprio vicino al fianco sinistro. In quel modo sembrava un bambino dispettoso che si era svegliato tardi e aveva consumato la colazione in fretta e furia per arrivare puntuale a scuola. Un gran bambinone come al solito. Strano come tutto ciò che un tempo aveva trovato tenero, ora gli paresse irritante e lo urtasse.
No, non era affatto vero. Era ancora tenero ai suoi occhi. Ma la cosa non aveva più importanza.
«Marco, ciao» gli fece, spontaneo. «Quanto tempo noi non vediamo. È da...»
«Dall’Irlanda, sì» lo precedette, per evitare che lo dicesse lui. Tutt’a un tratto il sorriso di Michael si affievolì, il suo volto divenne più serio, quasi infelice. Ma era ovviamente impossibile, si disse, perché un uomo nella sua condizione non può essere infelice.
«Senti, io ha voluto tanto parlare a te, ma io ho voluto lasciare tuoi spazi. Sono passati tre mesi, noi deviamo parlare.»
Marco scosse la testa. Doveva essere un incubo, un orribile e grottesco incubo dal quale si sarebbe svegliato. Si rifiutava di parlare di quel giorno. «Non è né il momento né il luogo. Ti pare?»
«Prima o poi sarà» rispose, quasi profetico. «E noi ci diremo tante cose.»
Scuotendo la testa, cercò di raccogliere il coraggio. Aveva immaginato tante volte quella conversazione nella sua mente, ma ora le parole svanivano come vento tra le dita e non ne aveva di buone da usare. Infine, cauto, replicò: «Io credo che non abbiamo niente da dirci.»
Fu lì che Michael sorrise. Sì, sorrise proprio con una faccia da schiaffi. «Io vado via, così tu non agiti e non sei triste, ok? Ma poi noi ci vediamo in tre giorni. Così tu hai tempo per pensare se è momento e luogo.» 

Le luci dentro al porto sembravano lontane
Ed io che mi sentivo felice di approdare

Mentre si allontanava, Marco si sentì ribollire di rabbia: pensava che andandosene avrebbe fatto un favore a lui? Tutt’al più, lo avrebbe fatto a se stesso, evitando una situazione imbarazzante in cui l’altra persona non aveva nulla da dirgli. Marco stava benissimo senza Michael.
Non gli avrebbe detto una parola di più del dovuto.
Questo pensò, guardandolo andar via. Lasciò andare il respiro, neppure si era reso conto di averlo trattenuto.
 

E mi cambiava il volto e la barba mi cresceva
Trascorsi giorni interi senza dire una parola

Se era lontano, odiare Michael era molto, molto più facile.
 

Il giorno dello spot era arrivato.
Marco decise, una volta tanto, di contravvenire alle istruzioni che gli erano state fornite. Una canottiera scollata e dei pantaloni corti e colorati non erano nel suo stile, decisamente. Visto il caldo optò per una t-shirt nera e dei pantaloncini bianchi di lino. Anelli, bracciali e il rosario che sua madre gli aveva regalato avrebbero compensato la sua mancanza di colore la quale, a sua volta, serviva per compensare la mancanza dei caratteristici tatuaggi di Fedez. Visto che non riusciva a farsi valere con le parole, lo avrebbe fatto con le azioni.
Il luogo d’incontro era un teatro, piccolo e sperduto, nella periferia milanese. Gli era chiaro ciò che avrebbe dovuto fare: camminare con passo incerto sul palcoscenico, posizionarsi al centro e recitare la sua battuta: «Sono Marco Mengoni, vengo da Ronciglione e la musica è il mio riflesso». Sembrava abbastanza facile.
Ma lì ci sarebbe stato anche Michael, e con lui nulla era mai stato facile.
Arrivò lì in circa tre quarti d’ora, colpa del traffico mattutino. Quando entrò dalla porta già spalancata, gli sembrò di assistere a uno spettacolo in miniatura: le luci e le videocamere, tutto era stato studiato e orchestrato per far sembrare quello un teatro abbandonato e fatiscente, in cui alcuni fori nel soffitto lasciavano trapelare dei piccoli fari luminosi.
Michael era lì in piedi. Stavano filmando la sua parte della pubblicità. Gli altri giudici lo guardavano con un sorriso stampato in volto, probabilmente dopo aver girato ciascuno la propria scena.
Lui aveva un completo beige con sotto una camicia bordeaux e cravatta ricca di elaborati ghirigori beige e panna. Sembrava un principe, dominava quel piccolo palco con la sua sola presenza, senza però essere ingombrante. Era a casa sua.
«Sono Michael Holbrook Penniman Junior» iniziò, la sua voce sprizzava vivacità e voglia di cantare. «Vengo da Londra e il canto è il mio primo amore.»
Marco storse il naso. Aveva pronunciato Michael all’inglese, come gli avevano suggerito di fare per rendersi più internazionale, mentre Marco sapeva perfettamente che si pronunciava così come si scriveva, con l’accento posto sulla “e”. Anche se diceva di venire da Londra, la sua casa effettiva, era un fatto risaputo che fosse nato a Beirut. Per quanto riguardava il suo primo amore, sapeva per certo che da piccolo giocasse a fare lo sposo con sua sorella Zuleika, con le altre due sorelle a fare da damigelle e il papà che faceva da prete. Quindi, per quanto eloquente, ogni singola parola della sua presentazione era una bugia. Glielo avrebbe rinfacciato.
«Taglia!» urlò il regista, un ometto basso e tarchiato, con un pizzetto sale e pepe e un gran paio di occhialoni rotondi. Questi si voltò verso Marco e gli fece cenno di avvicinarsi.
Michael balzò giù dal palco e lo salutò con un cenno della mano. A quel gesto, Marco tirò dritto di proposito, fingendo che la risatina che udì di seguito fosse frutto della sua immaginazione. Salutò cordialmente il regista, il quale lo squadrò con disgusto, ma sorvolò circa il suo abbigliamento completamente sbagliato. Gli comunicò ciò che avrebbe dovuto fare: raggiungere il centro del palco come fosse spaesato, giungere al centro, esibirsi prima con i vocalizzi e poi registrare la sua battuta. Tutto chiaro.
Dopo una breve sistemata presso la sezione trucco e parrucco, fu pronto per girare. Non fu affatto complicato, il tutto durò all’incirca un minuto e mezzo, pause e tagli esclusi. Finì ancora prima di rendersene conto e quello sì che fu un grande sollievo.
Il regista gli disse di restare sul palco mentre, sotto gli occhi stupefatti di Marco, a velocità supersonica i tecnici portarono una batteria, una chitarra elettrica, un pianoforte e un autentico microfono vintage. Sentì la risata di Elio alle sue spalle, probabilmente per via della sua bocca spalancata di fronte a quella piccola magia. Presto tutti e quattro i giudici salirono sul palco. Elio prese posto alla batteria, Michael si sedette al piano e Irene afferrò la chitarra. Marco afferrò quel microfono pazzesco e, quando dalle casse venne sprigionata una musica energica e palesemente pre-registrata, tutti finsero di suonare e iniziarono a divertirsi come dei pazzi. Marco scoppiò a ridere, perché se da una parte le casse battevano al ritmo di quella musica incalzante, sul palco ognuno suonava quello che voleva ed era davvero atroce, ma nulla che una buona dose di umorismo non potesse riparare. Iniziò a giocare con l’asta del microfono, ballare e fare quelle mosse che tanto facevano piacere alle ragazzine e tanto facevano ridere i loro fidanzati.
A un certo punto, proprio mentre si stava divertendo, Michael gli si affiancò. Si mise accanto a lui come un vecchio amico e finse di rubargli il microfono di mano.
Ma come si era permesso?
Marco cercò di tirare il microfono verso di sé, scatenando l’ilarità generale: sembravano due vocalist in competizione per il ruolo di leader. Se lo contesero, Marco seriamente irritato e Michael che invece rideva come un bambino. Presto quel gioco coinvolse tutti e anche Elio e Irene cercarono di rubare il microfono a Marco. Quando il regista urlò il suo «Stop!», anche lui stava ridendo. Avrebbe tenuto quella ripresa improvvisata, poco ma sicuro.
Marco scese dal palco senza voltarsi indietro, suscitando un coro sdegnato da parte dei suoi colleghi, che si chiesero perché Marco dovesse fare il guastafeste. Neppure fece in tempo a uscire dal teatro per farsi una sigaretta, che subito sentì la voce di Michael dietro di sé che tutto pimpante annunciò:
«Ecco lo scappatore
 

E quanto avrei voluto in quell’istante che ci fossi

Si voltò, tutti sorridevano pensando a uno scherzo.
Certo che lo pensavano. Nessuno di loro sapeva per quale motivo Marco ce l’avesse con Michael tanto che ogni suo gesto risultava quanto mai provocatorio, non era certo colpa loro. Così, di malavoglia, finse di ridere e tornò tra di loro, con somma soddisfazione di Michael.
Forse a lui non dava fastidio fingere che fossero amici come prima, ma a Marco sì, parecchio. Borbottò un blando: «Comunque sei un falso.»
«Perché dice questo?»
Non la piantava neanche un secondo di sorridere. Marco avrebbe dato qualunque cosa per togliergli quel ghigno dalla faccia: per colpa sua, non sorrideva da mesi, come faceva lui invece a essere così felice?
Ah, giusto. Si era liberato di Marco.
Si schiarì la voce. «Sai, non sei di Londra, il tuo nome non si pronuncia Michael all’inglese e... sì, hai giurato amore eterno a tua sorella Zuleika. Quindi hai detto una bugia dietro l’altra nella registrazione.»
Il sorriso di Michael si ampliò fin quasi a raggiungere le orecchie. «Tu ti ricordi tutte queste cose?»
Marco si morse le labbra.
Quanto era stato stupido! Sperava di zittirlo una volta per tutte, invece gli aveva dato l’ennesima scusa per rimarcare il proprio dominio su di lui. Si sentì un idiota di prima categoria.
«Tu ti ricordi» constatò nuovamente, colmo di gioia per chissà cosa. «Wow, che grande memoria! Invece io volevo di dire a Irene il nome di tua madre e non lo ricordavo... è Sofia?»
«Nadia.»
Quella fu la sua unica risposta.
Era troppo, perfino per lui.
Era stato meschino da parte sua sottolineare come Marco ricordasse ancora ogni cosa di loro, mentre Michael neppure aveva azzeccato il nome di sua madre. Dovette incassare anche quel colpo, dopo tutti i rospi che aveva già dovuto ingoiare a causa sua.
Fu lì, negli sguardi impietositi dei suoi colleghi, che Marco capì che loro sapevano. Forse non ne erano certi, ma di sicuro lo avevano intuito, forse proprio per colpa dell’ostinazione di Marco. Ottimo, non poteva andare peggio di così.
Tirò su col naso per trattenere le lacrime: «Beh, è evidente che i dettagli te li sei scordati. Pazienza, ce ne faremo una ragione.»
Michael gli tirò scherzosamente un finto pugno sulla spalla. «Non essere arrabbiato, Marco! Io ho memoria di merda, per questo non ricordavo.»
Rise, ma la sua risata aveva poco a che fare con il divertimento. «E chi si arrabbia? Io no.»
La tempesta sembrò evitata e tutti sorrisero di sollievo, poi si misero a discutere delle audizioni, che sarebbero cominciate il 26 giugno, ossia tra dieci giorni appena. Irene era seccata per via dell’abbigliamento che le avevano imposto: invece dei suoi soliti abiti hippie e al contempo eleganti, l’avrebbero agghindata come una jazzista di secondo ordine. Elio rise, ribattendo che, se voleva decidere lei per se stessa, avrebbe dovuto per lo meno vincere quell’edizione al primo colpo.
Tra quelle chiacchiere tanto amichevoli, Marco non si sentì a suo agio. Prese una sigaretta e annunciò la “pausa ciminiera”, giusto perché ridessero un po’. Poi volò giù dal palco e uscì dal teatro, indossò degli occhiali da sole e si poggiò al muro. Sigaretta accesa tra le dita, un profondo respiro, nicotina in circolo, un sospiro soddisfatto e grigio di fumo.
Finalmente una meritata pausa.
«Marco.»
Aveva parlato troppo presto.
 

Perché ti voglio bene veramente
E non esiste un luogo dove non mi torni in mente

«Sai, noi stavamo pensando» si poggiò affianco a lui «di arrivare a le audizioni a cavallo! Ti piace?»
Marco annuì. «Bello.»
Rimasero per un po’ in silenzio, l’uno cercando di capire cosa pensasse l’altro. Come prevedibile, fu Michael a rompere il silenzio.
«Ora è momento e luogo?»
«No.»
«Perché non vuoi parlare?»
Marco si voltò e vide che finalmente aveva smesso di sorridere. Stavolta toccò a lui sogghignare. «Hai parlato abbastanza tu per tutti e due. Prima, sul palco» e indicò l’ingresso del teatro con un cenno della mano.
Sbuffò sonoramente. «Solo perché io non mi è ricordato il nome di tua madre.»
«O forse perché mi hai fatto fare la figura del disperato» sbottò, incapace di trattenersi oltre.
«Questa è una sciocchezza» fece, sembrando addirittura offeso. «Io volevo solo dire che tu hai memoria molto grande e io no.»
Marco gettò la sigaretta a terra e la calpestò. Tanto valeva giocare a carte scoperte, anche se sapeva che avrebbe versato calde lacrime per tutta la notte, ma meglio che tenersi tutto dentro fino alla fine.
 

Avrei voluto averti veramente
E non sentirmi dire che non posso farci niente

«Ora ti dico com’è andata la cosa» soffiò l’ultima nuvola di fumo. «Io non ne ho più voluto sapere di te dopo l’Irlanda, a ragione direi. Pensavi che sarei tornato strisciando da te ma non l’ho fatto, quindi hai pensato bene di venire a X Factor e fare di nuovo il giudice, giusto per darmi il tormento e vedere come stavo di merda senza di te e poterti divertire a mie spese. Allora, ci ho visto giusto?»
Sorrise, quasi per dispetto.
Michael, invece, sembrò un bambino al quale avevano tirato uno schiaffo. Provò una rabbia contenuta. Scosse la testa impercettibilmente, quasi più per se stesso che per Marco.
«Tu sei un pazzo» sentenziò, infine. «Non sai quello che dici.»
«Io credo di saperlo, invece.»
 

Avrei trovato molte più risposte
Se avessi chiesto a te ma non fa niente

Si grattò la testa, le sue mani affondate nei propri, folti riccioli. Sospirò, accennò brevi sorrisi amari e scrollò le spalle. Sembrava non sapere nemmeno cosa fare, o cosa dire, forse per la prima volta da quando si erano conosciuti.
Marco si sentì momentaneamente meglio: in realtà, di dire a Michael la verità, non gli importava affatto, voleva solo fargli del male. E ci era riuscito. Poteva essere contento.
«I decided to came back, but it was a mistake.»
Ho deciso di tornare, ma è stato uno sbaglio.

 Non posso farlo ora che sei così lontano

Detto questo, tornò nel teatro, lasciando Marco a crogiolarsi nella sua stagnante, malsana felicità. Finalmente anche Michael soffriva come aveva sofferto lui. Si potevano forse dire pari? Questo non lo sapeva.
L’unica cosa che sapeva era che, quando aveva immaginato il momento in cui gli avrebbe rinfacciato tutto, aveva pensato di sentirsi meglio di così.
Non sarebbe mai stato così semplice, vero?
 

In quei dieci giorni, i quattro giudici si videro quasi ogni mattina. I veterani diedero a Marco e a Irene dei preziosi consigli su come essere un giudice giusto e, nel frattempo, un personaggio televisivo di portata non indifferente. Elio fu un mentore eccezionale, fece sentire Marco sempre più convinto della propria decisione: comprese finalmente che il suo scopo in quanto giudice non era di fare bella figura o di mettersi alla prova, ma di forgiare talenti. Il pensiero di aiutare dei ragazzi a scoprire il fattore X che c’era in loro aiutò Marco a ritrovare un entusiasmo che credeva perduto. Poteva dirsi finalmente soddisfatto, nonostante il nervosismo che gli scuoteva le vene e i polsi al pensiero di parlare di fronte a pubblico e concorrenti.
Con Michael, invece, i rapporti erano diventati puramente professionali. Una volta per tutte, aveva capito che erano solamente colleghi e in quanto tali si erano scambiati tutt’al più consigli e opinioni, nulla di più. Forse, pensò Marco, le cose stavano iniziando ad andare per il verso giusto.
Allora perché non si sentiva del tutto felice?
 

Mi sentirei di dirti che il viaggio cambia un uomo
E il punto di partenza sembra ormai così lontano

Forse era stato per il modo in cui si era rivolto a Michael. In Irlanda lo aveva ferito, ma non voleva dire che si meritasse un trattamento come quello che Marco gli aveva riservato. Si sarebbe sentito meglio, magari, se si fosse scusato.
Decise che non lo avrebbe fatto. D’altronde, si era già umiliato abbastanza per lui. Doveva rammentare che da colleghi avrebbero finto di essere pappa e ciccia. Ma come ex, non avrebbe avuto pietà.
Pur ignorando un piccolo nodo che sentiva nella gola.
La mattina del 26 di giugno, Marco si recò in una specie di hangar utilizzato per tenere i cavalli sui quali i giudici si sarebbero presentati sul tappeto rosso (sì, alla fine quell’assurda idea era stata approvata). Indossava una camicia bianca, un gilet nero e pantaloni neri, scelta che gli venne nuovamente criticata per non essere abbastanza “giovane”. Mentre una stagista era lì a fargli la predica, con la coda dell’occhio scorse Michael, fasciato in un elegantissimo tartan verde smeraldo. Questi andò verso di lui e, come una falena attratta dalla sua fiamma, involontariamente Marco lo raggiunse.
 

La meta non è un posto ma è quello che proviamo
E non sappiamo dove né quando ci arriviamo

Michael lo osservò con un tenue sorriso. Marco si maledisse, era sicuro che avesse già compreso quell’inspiegabile magnetismo che li aveva fatti avvicinare. Dannazione.
«Ciao Marco» lo salutò come se il giorno prima non fosse mai esistito. «Questi stallioni sono fantastici.»
Marco si voltò: un imponente pezzato con una folta criniera cercò di montare, proprio in quel momento, una giumenta bianca che sembrava uscita da una fiaba. Un fantino li separò, tra lo sgomento e l’ilarità generale.
Non poté fare a meno di sorridere. «Al mio cavallo piace la tua puledra» constatò in tutta ingenuità.
Poi all’improvviso Michael lo attirò a sé e lo abbracciò.
 

Trascorsi giorni interi senza dire una parola
Credevo che fossi davvero lontano

Non andava bene. Non andava affatto bene.
Lo aveva praticamente imprigionato tra le sue braccia, con le mani premute sulle sue scapole. Il volto di Marco andò letteralmente a fuoco. Perché lo stava abbracciando, lì di fronte a tutti, poi? E in quel modo? Lo aveva insultato ieri, aveva fatto delle insinuazioni pesanti. Non c’era motivo di abbracciarlo. Marco pensò di divincolarsi.
Sospirò. Era stanco di essere lo scappatore.
Michael parlò piano, quasi per timore di rompere l’incanto. «Io non sono qui perché voglio tormentare. Io sono qui perché mancavi tu.»
 

Sapessimo prima di quando partiamo
Che il senso del viaggio e la meta è il richiamo

Marco chiuse gli occhi e scosse la testa. Una parte di lui avrebbe voluto lasciarsi andare nel suo abbraccio e alle sue parole, ma sapeva perfettamente cosa lo aspettava se avesse ceduto.
«Non manco io» replicò, senza staccarsi. «Non possiamo cambiare le cose. O, almeno, io non posso.»
«Io non posso» disse, aggrappandosi al suo gilet.
Marco era migliore di così. Non sarebbe stato più ciò che era prima, per il bene di tutti. Poteva aver sbagliato in passato senza che questo influenzasse il suo presente.
Fece per staccarsi, ma Michael lo tenne più forte. «No, no, non essere arrabbiato. Io non posso fare nulla per io e te. Ma questo non è che non ti voglio bene.»
 

Perché ti voglio bene veramente
E non esiste un luogo dove non mi torni in mente

In quel momento, Marco capì che qualcosa tra loro era rimasto in sospeso, ma era bene che rimanesse tale. Era pericoloso, in quella situazione. Non avrebbero dovuto.
Così, per quanto doloroso fosse, Marco dovette dirgli quello che poi gli disse.
«Anche io ti ho voluto bene, veramente.»
 

Avrei voluto averti veramente
E non sentirmi dire che non posso farci niente

Non ci fu bisogno di dire altro. Michael sciolse il loro abbraccio con un sorriso sghembo, forse accontentandosi, forse pensando che fosse meglio di niente.
In quel momento, Marco capì che le cose erano tornate al loro posto, che così doveva essere. Ma una parte di lui avrebbe voluto cambiare le parole e quel tempo volgerlo al presente perché, sì, gli voleva bene veramente, nonostante tutto. Ma cosa avrebbe potuto farci Michael, con il suo affetto? Assolutamente niente.
 

Avrei trovato molte più risposte
Se avessi chiesto a te ma non fa niente
Non posso farlo ora che sei così lontano

Era troppo tardi.

 

Non posso farlo ora.
 

 

 

La soffitta dell’autrice:
Eccomi qua, sono tornata! Con un capitolo un po’ crudele per i miei standard ma, beh, vorrei vedere voi a essere feriti come è stato ferito Marco. Chissà che gli avrà fatto Mika di tanto grave da allontanarlo per sempre (?). Lo scoprirete solo leggendo! Ringrazio come sempre la mia beta, la pazzesca comeunangeloallinferno94. Per lei la mia fanfic non ha segreti!
Chicca del capitolo: ero io a credere che la mamma di Marco si chiamasse Sofia, anziché Nadia.

Un bacio.

  
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Mika / Vai alla pagina dell'autore: _Even