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Autore: Cicatricicomericordo    24/01/2016    0 recensioni
"I fantasmi urlavano nella mia testa. I demoni uscivano attraverso le ferite. Mi stavo per arrendere. Stavo morendo. Loro guardavano me, ed io guardavo loro. Aspettavano. Aspettavano la mia morte. Erano li, in piedi. E mi guardavano morire."
Genere: Introspettivo, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate
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Ciao a tutti. Voi non mi conoscete, non sono una persona importante e conosciuta. Sono una persona qualsiasi. Il mio nome? Ha poca importanza, ma potete chiamarmi Sam. Piacere, sono Sam Wesson. Sono nato il 19 maggio del 1996. Questa è la mia autobiografia. Non la sto scrivendo perché qualcuno voglia sentirla, ma per far si che la mia vita venga scritta. Per far si che la mia anima non muoia e continui a vivere in queste parole. Mia madre era una brava donna. Casalinga, nata a Sassari da una famiglia povera. Rita, si chiamava. Donna forte e testarda, ma di animo buono e gentile. Mio padre? Un operaio stakanovista fissato con i soldi e con i buoni voti. Roberto, si chiamava. Figlio unico, sfortunatamente. Mi sarebbe sempre piaciuto avere un fratello più grande che mi aiutasse. Famiglia come le altre, ne ricca ne povera. Cambiavamo sempre casa per motivi di lavoro, e per questo motivo in tutte le scuole venivo escluso. Cosi per fare amicizia facevo l'idiota. E venivo etichettato ed isolato. Forse è per questo motivo che ho iniziato a sviluppare una sorta di empatia per le persone. Ho sempre avuto una sottospecie di attrazione verso la parte che ognuno di noi nasconde. Quella parte oscura che non mostriamo per paura. Quella parte dove vivono i nostri demoni più oscuri. Ne ero talmente tanto attratto da riuscire a far miei i demoni delle altre persone, alleggerendo il loro peso e aumentando il mio. All'inizio non erano un peso per me, erano i miei unici amici. Crebbi con loro. Mi seguivano ovunque andassi. Erano la mia ombra. Quando parlai di loro ai miei per la prima volta era il mio ottavo compleanno. Me lo ricordo perché mamma e papà mi portarono dall'analista. Quel giorno capii che dovevo tenerli nascosti, così li rinchiusi dentro di me. All'età di dodici anni feci una rissa con un bulletto più grosso. Nell'infermeria della scuola conobbi una ragazza, Ginevra. Bellissima, capelli neri, occhi marroni, alta. Da subito mi affezionai alla sua parte oscura. Aveva il mio stesso dono, lei. Glielo si leggeva negli occhi. Vidi dentro di lei i demoni degli altri, oltre ai suoi. Vidi la sua sofferenza segnata in quegli occhi spenti. E me ne innamorai. Parlavamo sempre e dovunque. Iniziai a trascurare i miei demoni. Loro si arrabbiarono molto ed iniziarono a nutrirsi della mia anima. Questa cosa la percepii molto bene i primi giorni di scuola delle superiori. Avevo solamente 14 anni. Ginevra ed io eravamo in classe assieme. Ultimamente stavamo spesso insieme. Una sera scrissi una cosa su un foglio: " La prima volta che mi sono innamorato. La stessa prima volta che m'hanno pestato. " Poi li sentii dentro. Li sentivo muoversi e agitarsi. Li sentivo strappare la mia anima a morsi e divorarla. Li sentivo urlare. Dovevo farli uscire, ma non sapevo come. Volevo solo farli smettere di urlare. Cosi presi un temperino, smontai la lametta, e mi tagliai orizzontalmente il polso sinistro, come se ci fosse una linea tratteggiata. Il sangue, denso, scuro e rosso, gocciolava, ed insieme ad esso gocciolarono fuori i demoni. Solo quel giorno mi accorsi di quanti demoni avevo tolto alle persone. Di quanto ebbi alleggerito il loro peso e di quanto mi fossi appesantito io. Sentii le loro paure, le loro ansie, le loro pressioni. Sentii le loro emozioni, i loro sogni, le loro delusioni. Sentii i loro cuori battere dentro di me. Sentii il peso delle persone sulle mie spalle. Faceva male. Molto male. Divenne cosi un rito. Due volte a settimana mi tagliavo i polsi per soffrire meno. Divenni così scuro, schivo alle amicizie ed iniziai, inconsciamente, ad allontanarmi da Ginevra, l'ultima persona dalla quale volessi allontanarmi. Sperai che riuscisse a capire come mi sentivo. Ma non gli dissi mai nulla, e lei non disse nulla a me. Pochi giorni dopo si trasferii e cambiò scuola. Non la rivederti più. Le ore passavano isolandomi sempre di più. Vivevo la mia vita in modo passivo. I giorni passavano e non mi rendevo conto che piano piano, pezzo dopo pezzo. La mia anima stava morendo. Qualche giorno dopo il mio diciottesimo compleanno, per la precisione il 25 Maggio, ricevetti una telefonata. Era la madre di Ginevra. Si era tolta la vita tagliandosi le vene nella vasca. Disse che aveva trovato il mio numero in un biglietto che aveva scritto prima di morire. Rimasi in silenzio. Andai al funerale. Fu come tutti i funerali, triste e malinconico. La madre mi porse una scatola con un bigliettino appiccicato sopra. Disse che Ginevra lo aveva lasciato per me. Lo aveva capito grazie al numero di telefono scritto su un biglietto attaccato alla chiave che apre la scatola. La chiave era nella sua mano, disse, assieme alla lametta con la quale si era tolta la vita. Finito il funerale feci le condoglianze ai parenti e me ne andai, con la scatola. Tornato a casa mi chiusi in camera e mi sedetti. Sulla scatola c’era un biglietto: "Vita saepe est pugnare." É latino. Significa: "La vita spesso è combattere." Aprii la scatola e iniziai a tremare. C'era una nove millimetri. Mi allontanai, spaventato. Poi mi avvicinai e la presi in mano. Era nera. I demoni uscirono ed iniziarono ad urlare. Mi ricordarono del mio dono, della mia solitudine. Mi ricordano di aver appena perso la persona che amavo. E mi ricordarono di avere in mano un modo per porre fine alle mie sofferenze. Così, mentre loro danzavano intorno a me, misi la pistola alla tempia. Ero pronto a farla finita. Non volevo più soffrire. Non volevo vivere nell’infelicità. Ma proprio mentre stavo per premere il grilletto, i demoni svanirono e apparse davanti a me Ginevra. Era pura e bella, come non lo era mai stata. Aveva un vestito lungo e nero. Si avvicinò e disse una frase:" Vita saepe est pugnare." E la sua immagine si dissolse. Le gambe cedettero e mi ritrovai in ginocchio. La mia mano tremava. Iniziai a piangere come un bambino. Poi alzai lo sguardo, mi asciugai le lacrime e sorrisi. Misi via la pistola. Capii che Ginevra voleva dirmi di non arrendermi e di continuare a lottare. Capii che voleva dirmi di far pace coi miei demoni. Capii che voleva dirmi di non fare il suo stesso errore e di rialzarmi. Che non importa quanto possa stare male o quanto possa essere dura la vita. Devo sempre trovare una ragione per rialzarmi e combattere.
   
 
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