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Autore: Impossible Prince    27/01/2016    2 recensioni
«Se dovessero mai scrivere una biografia su di me dovrebbero intitolarla "La Bibbia", o meglio, "La Bibbia del Potere". Perché nessuno meglio di me sa cosa sia il vero potere».
Giovanni Silviosi nasce nel 1955, a Smeraldopoli, in una Kanto povera, sconvolta dalla Seconda Guerra Mondiale e dalle dure sanzioni che i Paesi Alleati le hanno imposto a seguito della sua capitolazione. La povertà dilaga, il disagio è una pentola a pressione pronta ad esplodere e il vuoto, lasciato dalla politica, è ricoperto da un’inquietante organizzazione che si fa chiamare Team Rocket.
Per alcuni un criminale la cui potenza va oltre le solite inchieste giornalistiche, per altri un imprenditore brillante. La Bibbia del Potere è la storia dell’uomo che è riuscito a piegare un’intera nazione al suo cospetto.
Storia INCOMPLETA
Genere: Drammatico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Giovanni, N, Nuovo personaggio, Team Rocket
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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Nei precedenti capitoli de "La Bibbia del Potere": Erik Silviosi è un americano, pilota di aerei militari impegnato nei bombardamenti di Kanto. Durante una missione nelle fasi finali della Seconda Guerra Mondiale, dopo aver compiuto la missione di bombardare alcuni edifici di Azzurropoli, il suo aereo viene colpito dal sistema di difesa di Smeraldopoli e fatto precipitare. Corrono in suo aiuto, persone legate alla Resistenza di Kanto, combattenti contrari al regime fascista.

Genesi 1.2 – Predisposizioni e Virus
«Il vero errore di Adamo ed Eva andrebbe ricercato non nell’aver mangiato la Mela ma nell’aver creduto che Dio avesse creato un frutto da cui poter attingere al Suo potere. Il modo migliore per scovare i traditori è testare la loro voglia di sostituirti»

Dapprima le mani lo afferrarono alle spalle, poi l’avambraccio cominciò a circondargli il collo. Ai fianchi sentì il peso delle ginocchia del suo assalitore, mentre la nuca toccava contro il petto. Iniziò a gridare.
«Mamma! Giovanni continua a non lasciarmi stare!».
«Giovanni! Sta’ buono o chiamo tuo padre» gridò una voce femminile proveniente dalla cucina.
La mano destra di Giovanni, chiusa a pugno, cominciò a sfregare sulla testa di Riccardo, suo fratello.
«Mamma! – continuò a gridare Riccardo – Mamma, non mi lascia stare!».
La donna uscì dalla stanza e si avvicinò al tavolo della sala da pranzo dove si trovavano i due figli; lo fece con calma, con naturalezza, con un accenno di sorriso sul volto. Quel volto privo di qualsiasi trucco. Nessun mascara, ombretto, rossetto o cipria. Le rughe che descrivevano la sua fronte, che attanagliavano le sue palpebre inferiori erano sempre messe in evidenza, mai nascoste. Le labbra sottili, il naso con un accenno di piccola gobba, gli occhi castano scuro, le sopracciglia curate. Posò il mestolo di legno, ancora insaponato, e si tolse il grembiule asciugandovi le mani, appoggiandolo poi a fianco al cucchiaio.
Giovanni lasciò il fratello e comincio ad osservare la madre con fare sospettoso. Sempre con calma, sempre con naturalezza, sempre con un accenno di sorriso sul volto, la donna si legò i lunghi capelli neri, formando una coda di cavallo. I suoi abiti erano semplici: un leggero maglioncino nero e una gonna viola, con un paio di zoccoli di legno ai piedi. Riprese in mano il mestolo, e quel sorriso appena accennato si tramutò in una smorfia di rabbia, la bocca dalle labbra sottili si aprì a tal punto che avrebbe potuto essere benissimo la rappresentazione umana del Mightyena che mangiava Cappuccetto Rosso. Gli occhi si aprirono di colpo, quasi uscendo dalle orbite. Non importava che indossasse una gonna, non importavano gli zoccoli ai piedi, la sua agilità era tale da riuscire a correre verso Giovanni che cominciò a scappare.
«Hai rotto le palle, hai capito? Ora vediamo se continui a rompere i coglioni!» gridò lei, mentre Giovanni, dopo aver corso per un paio di volte attorno al tavolo, raggiunse a gran velocità il corridoio, aprì la porta d’ingresso, uscendo prima sul giardino e fuggì poi per strada.
«Torna qui, pagliaccio! Perché devi dare spettacolo in tutto il quartiere? Torna adesso e ti faccio la grazia, ti prendi solo le mestolate sul culo! Ma se tu torni oggi pomeriggio ti prenderai cucchiaio e mattarello!» sbraitò lei osservando il figlio che correva per strada.
«“Tornassi”, mamma!» urlò di risposta il figlio, correggendola divertito.
Una testa fece capolino dalla porta della casa affianco. Una donna in carne, con le guance e le labbra rosse, gli occhi azzurri e i capelli ricci, riccissimi, biondi: «Giovanni ti ha fatto ancora disperare, Anna?» domandò divertita.
«Un criminale, Elizabeth. Ho un figlio criminale» rispose, scuotendo la testa amareggiata e tornando in casa.

Giovanni continuò a correre per le strade di Smeraldopoli, sorridendo furbescamente ai vari passanti che incrociava per strada e che lo guardavano severi.
Le vie di Smeraldopoli erano generalmente molto ampie, dei veri vialoni e tendenzialmente in pessimo stato di manutenzione. Il governo centrale aveva infatti ridotto i già discreti trasferimenti, e l’amministrazione comunale dovette quindi sacrificare un aspetto della gestione cittadina per rientrare nel magro bilancio.
D’altra parte, un taglio ai trasporti pubblici, ai servizi scolastici o concernenti i Centri Pokémon, avrebbero comportato proteste e scioperi, riducendo la popolarità dei partiti della Giunta.
Nonostante Smeraldopoli fosse un’importante crocevia per Kanto, la situazione economica della città era tutt’altro che brillante. L’indotto generato dall’ottava Palestra, dal passaggio dei cittadini verso l’Altopiano Blu o verso la regione di Johto, aiutava i portafogli solo di un ristretto gruppo di persone. La maggioranza della popolazione non sbarcava il lunario; non era un fatto raro vedere le persone aspettare la fine della giornata per mettersi a cercare frutta, verdura e altri alimenti, che erano scartati dai venditori del mercato rionale. Era ormai la prassi, la consuetudine, nessuno si stupiva più, nessuno provava più compassione o indignazione. Il disagio era diventato un elemento caratterizzante Smeraldopoli, la normalità. Eppure, chi leggeva i giornali e chi seguiva i telegiornali, veniva a sapere che le performance del Paese, nonostante le importanti sanzioni chieste dagli Alleati per la guerra mondiale, erano tutt’altro che scadenti e il prodotto interno lordo era molto, molto alto.
Tutta questa serie di elementi aveva portato ad un fenomeno di migrazione cittadina che aveva assunto dimensioni importanti: negli ultimi dieci anni, il venticinque percento della popolazione tra i venti e i quarant’anni aveva lasciato la città. Chi partiva da Smerladopoli non faceva quasi mai ritorno. E quante volte si veniva a sapere “per sentito dire” che aveva fatto fortuna in città come Zafferanopoli o Aranciopoli. Sempre più giovani partivano, allora, alla ricerca di migliori condizioni di vita, schiantandosi contro la realtà che mostrava a loro come tutto mondo era paese, specialmente se per “mondo” si intendeva la medesima nazione.

Quando Giovanni sgattaiolava per strada con quel ghigno, significava che aveva mandato su tutte le furie sua madre Anna, una storia che si ripeteva abbastanza spesso.
Si avvicinò alla vetrina di un piccolo negozio, riuscì a specchiarsi. I capelli erano corti, così scuri da sembrar neri, con la riga sul lato destro e tenuti in ordine dalla lacca. Gli occhi vispi, il naso dritto, ma non alla francese e privo di una qualsiasi gobba, la bocca sottile, come quella della madre. Nato il primo aprile del 1955, dieci anni dopo la fine della guerra e quattro anni dopo il matrimonio di Erik Silviosi e Anna Martufelli, la figlia di Franco Martufelli, l’uomo che salvò il soldato italo-americano dopo lo schianto dell’aereo.
Era il 6 settembre 1964, la vigilia del quinto ed ultimo anno alla Scuola per Allenatori di Smeraldopoli, frequentata da Giovanni. Il settembre dell’anno successivo, compiuti i dieci anni, si sarebbe imbarcato per il suo viaggio come Allenatore di pokémon, con l’obiettivo di catturarli, sfidare le Palestre e ottenere le relative medaglie per tentare, infine, la scalata alla Lega Pokémon e diventarne il Campione. Assieme a lui c’erano altri cento bambini che avrebbero lasciato le loro case con l’ottica di entrare nella storia, di diventare qualcuno il cui nome sarebbe stato ricordato negli anni, nei lustri e nei decenni a venire.
Spinse la porta di vetro del negozio e ci infilò la testa: «Signora May, Phillip è qui?». La donna spense il phon con cui stava asciugando i capelli capelli ad una cliente e scosse la testa, guardando il ragazzino con faccia sorpresa: «No, Giovanni, Phillip è a casa a pranzare! Tu hai già mangiato?». Un flash mentale e Giovanni ricordò cosa lo stesse aspettando tra le mura domestiche: il Mightyena umano che brandiva in una mano un mestolo di legno e nell’altra un matterello, le grida, le punizioni e chissà quali altre piaghe d’Egitto avrebbe dovuto sopportare solo per aver dato un po’ di fastidio al fratello. Un brivido percorse la sua schiena, provò a sorridere anche se il suo sguardo era ricolmo di terrore: «Sì, ho già mangiato, ciao!».
Ricominciò a vagare per la città, saltellando sulle buche che caratterizzavano i marciapiedi e le strade, prive del passaggio delle automobili a quell’ora della giornata. Si tenne lontano dalla scuola. La visione di quel cancello di ferro gli avrebbe sicuramente provocato una sorta di irrequietezza, uno sconforto misto a disagio che non voleva percepire, non in quella condizione di clandestinità. Gli venne in mente la comunicazione ricevuta qualche settimana prima dalla segreteria scolastica: per contenere i costi, la nuova riforma dell’istruzione stabiliva che il diploma della Scuola per Allenatori non era condizione sufficiente per ricevere uno Squirtle, un Charmander o un Bulbasaur, ma i tre pokémon elementali sarebbero stati regalati agli studenti più meritevoli, agli altri spettava un pokémon come Rattata, Pidgey, Caterpie o Weedle. Il sogno di cominciare la sua avventura con un Charmander rischiava di infrangersi sugli scogli che avevano la forma di “valutazioni” delle materie scolastiche e della “buona condotta”, il vero tallone d’Achille di Giovanni. Sì, sin dal primo anno, il piccolo aveva dimostrato una certa tendenza nel rispondere agli adulti e nel vendicarsi con delle vere e proprie ritorsioni nei confronti dei coetanei che gli avevano fatto qualche torto.

Aprì la finestra che dava sul cortile. Una leggera brezza primaverile si insinuò all’interno della classe, passando tra i suoi capelli, sfiorando il suo viso, accarezzando le sue spalle e inoltrandosi nel resto dell’aula. Le mani si posarono sul davanzale, sporse in avanti la schiena e i suoi occhi cominciarono a cercare una persona in particolare, tra quelle che giocavano nel grande cortile che circondava l’istituto scolastico. Correvano, si rincorrevano, saltavano, si nascondevano dietro gli alberi. Gridavano divertiti, davano calci al pallone oppure improvvisavano avventure immaginarie dove erano degli allenatori alla ricerca dei misteriosi pokémon leggendari.
«Lugia! Distruggili!» e il bambino si chinava in avanti e con la bocca faceva un verso strano, imitando il pokémon Psico Volante in uno dei suoi oscuri e potenti attacchi.
«No!» gridarono in coro altri bambini che cominciarono a roteare, con le braccia ai lati, su loro stessi, allontanandosi dal Lugia immaginario.
Da un’altra parte giocavano a campana, saltellando su un piede solo all’interno delle caselle numerate: uno, due, tre, quattro... E poco distanti un gruppo di bambine era impegnato nel salto della corda scandendo, a ritmo, una vecchia filastrocca: «Charmander, Kakuna, Pachirisu, Combee, Snorunt, Jigglypuff...».
Lo vide, era seguito da Phillip.
«Hey, Giovanni, hey!».
Giovanni si fermò e guardò nella direzione da cui proveniva la voce che lo stava chiamando. Terzo piano, ultima finestra sulla destra, la sua classe. C’era Giulio alla finestra. Giulio era un suo compagno, i due non si erano mai sopportati: due caratteri forti tendono a prender fuoco facilmente, specialmente quando si è piccoli. La voglia di prevalere l’uno sull’altro era costante, e ogni qualvolta i due si trovano a pochi metri di distanza, nell’aria si avvertiva una sorta di elettricità, come quei momenti che precedono qualcosa di importante, di adrenalinico. Giovanni, negli ultimi tempi, aveva però tentato di cambiare atteggiamento: aveva deciso di lasciar correre, di non rispondere alle provocazioni e ai piccoli dispetti. Tutto con enorme fatica, perché la voglia di replicare e fargliela pagare era tanta, tantissima; ma si auspicava che nel profondo, questi comportamenti da parte dell’odiato compagno, sarebbero venuti meno in seguito ad una mancata attenzione.
Tutti i bambini, nel frattempo, si erano fermati ad osservare quello che voleva fare Giulio. «Giovanni, lo sai che tuo fratello è un bastardo? Lo sai, vero?» pronunciò mostrando un quaderno del rivale alla finestra. Lo aprì e cominciò a strappare le pagine, lanciandole per aria e facendole volare.
«Giovanni – gridò Phillip – ma è il tuo quaderno!»
«Già» rispose lui impassibile, osservando la carta che fluttuava per aria.
«Non farai niente neanche questa volta? Vallo a fermare, dillo alle maestre!».
Giovanni guardò l’amico e sorrise.
«Perché ridi? Sono sporco in faccia?» domandò cominciando a mettersi le mani sul volto, pulendolo da eventuali residui di cibo o di terra.
«No, non sei sporco, tranquillo. Però... – disse tornando ad osservare la finestra – questo Giulio mi sta proprio stancando...».
«Facciamo qualcosa, allora!».
Giovanni tornò a guardare l’amico. La misura era colma, i buffetti, le palline di carta bagnate con la saliva erano una cosa. Insultare il fratello e la propria famiglia facevano parte di un universo, di un mondo che nessuno doveva toccare, di cui nessuno poteva parlare. Sì, Phillip aveva ragione: bisognava fare qualcosa. Ed eccola lì, l’idea. Eccola che si stava formando in testa, eccola che la stava visualizzando. Lo prese per un braccio e lasciarono insieme quella zona, dirigendosi tra gli alberi e le siepi, tentando di trovare un posto isolato, mentre i fogli continuavano a fluttuare lentamente sul cortile, giungendo a terra e sporcandosi con il terriccio e la polvere sollevati dai piedi dei piccoli.
«Phillip, lo sai che dopo aver pulito i bagni, non controllano mai se ci sia qualcuno dentro?».
«No, non lo sapevo» rispose l’amico.
«E Phillip, sai che l’anno scorso si pensava che un bambino fosse scomparso e invece era semplicemente rimasto bloccato nei bagni? Ci era andato dopo la pulizia e... nessun bidello, prima di lasciare la scuola, passò a controllare se qualcuno avesse sporcato, fatto casini o fosse rimasto chiuso dentro».
«Giovanni… dove vuoi arrivare?» chiese l’amico perplesso, osservando quel ghigno malvagio che piano piano si forava sul volto di Giovanni.
«Phillip, da quella volta non hanno cambiato i controlli. Non tornano a verificare che sia tutto in ordine».

Scomparso. Il suo zaino era scomparso, così come i suoi libri, il suo astuccio e anche i quaderni. Tutto scomparso. Non poteva rivolgersi all’insegnante, era già andata via e anche il resto della classe. In tutto il piano, l’unico essere vivente, oltre a delle piccole piantine utilizzate durante le ore di scienze, era lui. Nonostante ciò, tornato dalla sua abituale visita ai servizi prima di tornare a casa, non aveva trovato più niente. Eppure glielo dicevano sempre i genitori che non doveva andare al bagno prima di uscire da scuola perché poteva essere pericoloso. Ma lui non dava mai ascolto, e ora era tutto scomparso. Si mise le mani tra i capelli, il respiro si fece più frequente, il panico invase la sua mente, gli occhi diventarono lucidi. Poi, tutto d’un tratto la porta dell’aula si chiuse e Giulio sobbalzò spaventato, correndo immediatamente ad aprirla. Lungo il corridoio erano ora sparsi in fila, sul pavimento, il quaderno blu, il diario per le comunicazioni scuola-famiglia, una penna, una matita, il righello. Portavano al bagno, lo stesso bagno da cui era appena uscito. La scia portava in una delle cabine che separava un water dall’altro. Ecco lì lo zaino, sopra una delle cassette dello scarico. Si addentrò per prenderlo. Appena ci mise piede, però, la porta di legno laccata di bianco si chiuse alle sue spalle. Provò a spingerla per uscire ma senza successo. Era bloccata dall’esterno.
«Aiuto! Fatemi uscire!» implorò con voce tremante.
«Giulio, Giulio, Giulio. Giulietto il giulivo, oggi hai fatto il cattivo» disse Giovanni osservando la porta bloccata con somma gioia, trattenendo la soddisfazione di aver portato a termine il suo piano.
«Silviosi fammi uscire! Muoviti» sbraitò il compagno, sempre più spazientito per la situazione in cui si stava trovando.
«Se no? Glielo dici alla mamma? Oh, e chi se ne frega?! Nessuno saprà che sei qui, per lo meno fino a domattina» continuò Giovanni pacatamente.
«Mi farai passare qui la notte?!» domandò Giulio terrorizzato.
«Certo, solo così potrai riflettere sugli errori».
Ci fu un istante di silenzio, si era forse arreso? Giovanni cominciò ad avviarsi verso l’uscita, quando la voce del compagno lo fermò un’altra volta: «Mi troveranno quando verranno a pulire i bagni».
«Ed è qui che ti sbagli: puliscono questi bagni poco prima della fine delle lezioni e non ci tornano. Tranquillo, so come si fanno i dispetti».
«Beh, ti scopriranno! E… e mio padre è un carabiniere» continuò Giulio sempre più nel panico.
«Tuo padre non è un carabiniere, Giulio, lavora come portinaio in un condominio. Comunque, mio fratello Riccardo, quello bastardo, mi proteggerà e Phillip dirà a tutti che ti ha visto uscire da scuola, non c’è ragione per cui ti vengano a cercare qui.
Ora, se non vuoi vedere tutte le tue cose bruciare ti conviene tacere, sai quanto sono bravo con i pokémon Fuoco!». Lasciò i bagni mentre Giulio gridava di farlo uscire, chiuse la porta che conduceva al salone, per ridurre al minimo la possibilità che lo sentissero e lasciò la scuola assicurandosi che nessuno lo vedesse.

Il campanello suonò. Erik posò il giornale sul tavolino di vetro, affianco alla poltrona su cui era seduto, e si diresse ad aprire la porta di casa.
Una donna in lacrime sostava davanti a lui. I capelli erano sciolti lungo il viso, tondo, e legati sopra con una piccola frangetta che le copriva la fronte.
«Signora Fedoreva, cosa succede?» chiese l’uomo preoccupato, «Prego, si accomodi pure».
La donna rifiutò, scuotendo la testa e ponendo le mani in avanti: «Giulio è scomparso. Non è tornato a casa questo pomeriggio da scuola».
Erik venne raggiunto da Anna che aveva sentito le parole della donna e ne era rimasta sconvolta.
«Non è che vostro figlio Giovanni lo ha visto?» continuò disperata Brigitte Fedoreva.
«Giovanni, Giovanni vieni qui presto» chiamò Anna, facendo alcuni passi e rientrando in casa, con la testa rivolta verso il piano superiore, dove si trovava suo figlio.
«Ci siamo intesi, quindi?» pronunciò sottovoce Giovanni osservando intensamente, quasi minacciosamente Riccardo, che annuì prontamente.
Dal piano di sopra si sentirono dei passi pesanti che si dirigevano verso le scale, ed ecco che Giovanni le scese, raggiungendo l’ingresso, simulando perfettamente uno sguardo curioso alla vista della madre di Giulio.
«Salve signora Fedoreva, cosa accade?» chiese candidamente.
«Giovanni, per favore. So che tu e Giulio avete problemi, ma ti prego aiutami. È scomparso da questo pomeriggio».
Il volto del bambino si illuminò di un’espressione sconvolta e rispose prontamente che era uscito immediatamente da scuola al suono della campanella e che con Phillip, sulla strada del ritorno, gli era parso di averlo visto per strada, ma non ne era certo.
La mattina dopo Giulio venne trovato, stremato e disperato, ma non fece il nome di Giovanni Silviosi. Era irreale, specie perché di prima mattina l’acerrimo rivale gli aveva aperto la porta, portandolo in classe e dicendo alla maestra, estasiato, di averlo trovato nei bagni. Avrebbe potuto certamente rivelare che era stato intrappolato da qualcuno, ma se erano già stati capaci di chiuderlo per un’intera notte, le minacce di dar fuoco ai suoi averi assumevano contorni sempre più reali e meno fantasiosi. Senza contare che rivolgersi agli adulti era vista come una debolezza, qualcosa che lo avrebbe escluso da tutti gli altri compagni, e con un viaggio da Allenatore alle porte bisognava evitare l’isolamento. Lo avrebbero sicuramente distrutto non appena avrebbe messo piede fuori Biancavilla. Decise di tacere. Decise anzi di unirsi al duo di Phillip e di Giovanni e di portare ai due una sorta di riverenza e rispetto.

Il Sole iniziò a tramontare, colorando d’arancione il cielo e illuminando di una luce calda i palazzi, le aiuole, i prati, gli scivoli, le altalene, le fontane e le panchine. I lampadari all’interno delle case cominciarono ad accendersi, le biciclette venivano legate ai grossi pali della luce mentre le automobili, posizionate ai lati della strada, si riposavano in vista del mattino successivo.
Giovanni girò la maniglia della porta di casa e vi entrò.
Le sue orecchie furono immediatamente colpite dalle urla della madre: «Eccolo, è arrivato, pensaci tu». Un brivido scese lungo la sua schiena e decise di correre verso le scale e salire al piano di sopra.
«Giovanni, dobbiamo parlare» pronunciò freddamente Erik. Il ragazzino chiuse gli occhi e lentamente si girò voltandosi verso il genitore.
«Di cosa?» chiese candidamente.
«Siediti, subito» disse indicando il divano.
Giovanni obbedì a testa bassa, sedendosi sul sofà di stoffa color magenta.
«Per quale motivo continui a non obbedire a tua madre? Devi portare rispetto».
«Ma papà, stava…» un cenno della mano di Erik lo fermò.
«Quando parlo devi stare in silenzio.
Quando tua madre ti dice di finirla tu la finisci, non è che continui come se nulla fosse. Quando tua mamma decide che ti meriti un ceffone, tu ti prendi il ceffone, perché sai perché te lo meriti. Non corri per la città facendo credere a tutti che siamo dei pessimi genitori e che tu sei un criminale. Ho combattuto i criminali in questo Paese e non permetterò che mio figlio diventi come loro. Per le prossime due giornate nonno Franco ti accompagnerà a scuola e ti verrà a prendere. Il tragitto sarà solo Scuola-casa, non potrai uscire a giocare con nessuno dei tuoi amici e non potrai usare neanche i tuoi giochi. Testa sui libri, anche se siamo all’inizio e non ci saranno molti compiti. Ci siamo intesi?» Gli occhi di ghiaccio penetravano dentro Giovanni, lo annichilivano, lo facevano sentire piccolo-piccolo. La voce del padre, così profonda e tagliente, lo feriva, procuravano in lui la sensazione che stesse precipitando tra i cuscini del divano.
«Ma papà…» provò a dissuaderlo lui.
«Niente “ma”. Ora va in camera tua fino all’ora di cena».

La sera scese rapida su Smeraldopoli. Giovanni e Riccardo erano ormai in camera loro, Anna e Erik erano nel salotto seduti sul divano l’uno a leggere il giornale l’altra a leggere un romanzo, “Vox”.
Alcuni fasci di luce cominciarono a posarsi sulle tende bianche che coprivano le finestre. Erano di forma sferica e si muovevano rapidamente su quel tessuto bianco. Poi, come apparvero, scomparvero.
«Erik, hai visto?» domandò la donna perplessa e sospettosa.
L’uomo si alzò e lentamente si avvicinò alla porta di casa, aprendola leggermente e osservando fuori.
Degli uomini vestiti di nero, accompagnati da dei Clefairy che stavano utilizzando la mossa Flash, si muovevano lentamente e infidi per strada.
«Chi sono?» chiese la donna avvicinandosi.
Sì, chi erano? Dietro di loro c’erano altri due uomini, anche loro vestiti di nero e anche loro accompagnati da dei Clefairy, con gli occhi illuminati dalla mossa Normale.
Uno di loro tossì leggermente, prese aria e poi cominciò a parlare ad alta voce: «Chiunque abbia visto Paolo Vertone ce lo segnali, ce lo venga a dire. Ha mancato di rispetto a Don Foster. Ripeto: chiunque abbia visto Paolo Vertone e abbia una qualsiasi informazione sul suo attuale nascondiglio, ce lo venga a dire. Chiunque lo nasconda se la vedrà direttamente con il Team Rocket. Consegnatecelo e non vi verrà fatto del male».
Bastarono quelle due parole, “Team Rocket”, per far sì che il cuore di Anna palpitasse più forte, come un tamburo all’interno del proprio petto. «Il Team Rocket? Ancora?! Erik presto, chiudi la porta e spegni le luci della cucina, ci vediamo al piano di sopra».
Il Team Rocket era una presunta organizzazione che aveva cominciato a svilupparsi a Smeraldopoli e Biancavilla nell’immediato secondo dopoguerra. Ufficialmente, si occupava di aiutare le persone che erano in difficoltà e non ricevevano alcun aiuto poiché invisibili agli occhi dello Stato. Secondo alcuni, i loro mezzi di aiuto erano contrari ai principi della legalità e spesso, chi si opponeva al loro cammino veniva fatto sparire. Ucciso o portato all’esilio con atti intimidatori e minacciosi. Per altri, questo Team Rocket, era qualcosa di cui non valeva la pena occuparsi.
Il capo di quest’organizzazione era tale James Foster, chiamato con l’appellativo di “Don”, per indicare il grande rispetto che le comunità di Smeraldopoli e Biancavilla avevano nei suoi confronti. Nonostante le sparizioni e i furti fossero aumentati da quando il Team Rocket aveva fatto la sua prima comparsa sulla scena, Foster non venne mai sospettato dalle forze di polizia, perché, ufficialmente, mancava sempre una qualsiasi prova che lo collegasse a quanto avvenuto.
Si muovevano sempre in gruppi di due-tre persone, vestivano sempre di nero e chiunque li incontrasse per strada era tenuto a salutarli. Era un comportamento automatico perché chi non lo faceva veniva tacciato di maleducazione e la popolazione locale smetteva di avere rapporti con chi si era macchiato di questo delitto.
«Papà! Il Team Rocket, papà!» gridò Giovanni scendendo rapidamente le scale facendo dei grossi tonfi per ogni passo che compieva sugli scalini.
«Fa’ silenzio, Giovanni – lo riprese il padre parlando a bassa voce – torna immediatamente in camera tua».
Ma non voleva andarsene, non ne voleva sapere. Era elettrizzato all’idea che potesse finalmente vedere il celeberrimo Team Rocket, quell’entità tra la realtà e la leggenda presente in alcuni discorsi degli adulti.
«Giovanni, muoviti» ripeté il padre andando a spegnere la luce della cucina come gli era stato ordinato dalla moglie.
Il ragazzino obbedì e raggiunse il piano superiore, infilandosi sotto le coperte nel buio della sua stanza.
Sulla moquette bianca della camera era proiettata l’immagine delle fessure della persiana chiusa. La luce proveniente dal lampione dall’altra parte della strada si insinuava tra gli piccoli spazi di legno che la costituivano. Suo fratello Riccardo dormiva profondamente, non aveva sentito niente di quello che era accaduto poco prima. Eppure, la mattina dopo si sarebbe mangiato le mani alla notizia che il misterioso gruppo si era materializzato poco lontano da casa senza che potesse vederlo.
La porta che dava sul corridoio si aprì leggermente e la luce, della plafoniera installata sul soffitto, colpì il viso di Giovanni che chiuse gli occhi con una smorfia di fastidio.
«Sei ancora sveglio...» pronunciò il padre sottovoce, chiudendosi alle spalle la porta.
«Sì» rispose Giovanni.
«Non era una domanda, era una constatazione – si avvicinò al letto e tastò la coperta, colpendo i piedi – spostati».
«Che c’è?».
«Non mi piace che tu abbia visto quella scena poco fa».
«Che scena, papà? – domandò lui tra il curioso e il sospettoso – quella degli uomini in nero per strada?»
Erik annuì: «Sì, non mi piace neanche tu sia così affascinato dal Team Rocket, ma lo capisco, è una cosa che ti terrorizza, è misterioso ed è per questo che ti interessa. Ma voglio che ti sia chiara una cosa. Non c’è nulla di affascinante in quello che fa il Team Rocket perché...» ma venne interrotto prontamente.
«Perché? Che cosa fa?».
«Sono dei criminali, Giovanni. Dei criminali in piena regola. Fanno tutto quello che non devono fare, si approfittano delle persone in difficoltà. Si fingono eroi ma non lo sono, Giovanni, non lo sono. Uccidono, rapiscono le persone e chissà che fine gli fanno fare. Non scherzare con il Team Rocket». Si alzò, gli diede un bacio sulla fronte e poi si avviò verso l’uscita.
«Papà, perché ci sono delle persone in difficoltà?».
L’uomo rimase sorpreso dalla domanda. Quanto era normale che un bambino di nove anni facesse pensieri simili? Erik si trovò in difficoltà. Non era un discorso che si faceva spesso con i bambini, come poteva abbassarlo al loro livello? Spiegare cos’era il Team Rocket calibrando attentamente le parole, senza riuscirci poi molto, fu una gran fatica. Questo, ai suoi occhi, sembrava pure peggio. Come poteva uscirne?
«Beh, vedi. Non tutte le mamme e i papà hanno un lavoro e senza lavoro non hai uno stipendio. Se non hai uno stipendio sei in difficoltà» cominciò, sedendosi nuovamente accanto al figlio.
«Anche la mamma non lavora. Siamo anche noi in difficoltà?».
«No, Giovanni, no. Io, fortunatamente, guadagno abbastanza da non aver bisogno che mamma lavori. Ma per tante persone non è così. Non tutti lavorano per l’esercito degli Stati Uniti e con la guerra lo stato ha dovuto pagare tante... punizioni. E per pagare le punizioni lo Stato chiede ai cittadini, a tutti i cittadini, di donare parte del loro stipendio per contribuire. Ma capisci, che se non hai uno stipendio non puoi contribuire, e quella famiglia si trova in grosse difficoltà. Allora si rivolgono a queste persone criminali, come il Team Rocket, che aiutano in un primo momento le persone che si trovano in situazioni di problematicità. Ma poi chiedono delle cose in cambio. È come se io ti regalassi una figurina del pokémon del tuo Campione preferito e poi te ne chiedessi quattro in cambio. Cosa ti sembra?».
«Qualcuno che ho rinchiuso in un bagno per una notte».
«Cosa?» domandò Erik con uno sguardo che si fece improvvisamente molto più severo.
«Niente. Mi sembra una persona cattiva, molto cattiva».
«Esatto... il Team Rocket è così. Ti regala una figurina ma in cambio vuole l’intero album completo».
«Ma allora lo Stato non potrebbe non chiedere a queste persone di non partecipare al pagamento delle punizioni? Così non ci sarebbero i criminali del Team Rocket, no?».
«Questa è una grande domanda, Giovanni. Ma purtroppo nessuno lo capisce ai piani alti. E quindi si creano le situazioni che ti ho detto».
«Beh, allora io quando sarò il capo di Kanto impedirò che le persone senza lavoro debbano pagare le punizioni della guerra».
Erik sorrise, diede un altro bacio sulla fronte del figlio e si alzò in piedi, imboccando le coperte.
«Spero che per quando tu sarai grande non ci saranno ancora queste “punizioni”. E poi, prima di diventare il capo di Kanto pensa a diventare allenatore con Charmander».
Il padre uscì dalla stanza, lasciando Giovanni solo con i suoi pensieri. Gli occhi continuavano a posarsi su ogni angolo della camera. Il suo corpo continuava a rotolarsi nel letto, che ormai era diventato una sorta di prigione. La schiena era intorpidita e il sonno lontano dal presentarsi.

Ci sono una serie di malattie che possono manifestarsi per una predisposizione genetica. Si fanno alcuni test e poi si agisce assumendo dei farmaci o intervenendo chirurgicamente, in modo da ridurre che quel determinato problema di salute si verifichi. In questo caso si dice che si ha una predisposizione per quella malattia.
Altre malattie invece si sviluppano perché si viene a contatto con certe sostanze o alcuni batteri che si infilano nel proprio corpo. E cellula dopo cellula si sviluppano, si evolvono e innescano la patologia. Molto spesso si tratta di un virus.
Eppure, predisposizione o virus che sia, in tutte le occasioni bisogna fermare il proliferare della malattia in tempo prima che degeneri, prima che si diffonda in tutto il corpo e contagi tutti gli organi. Prima che si arrivi al punto di non ritorno, prima che diventi metastasi.
Era stato un discorso così devastante quello sentito da Giovanni per portarlo a pensarci in continuazione nei giorni a venire? Era stato un discorso così sorprendente, così privo di anticipazioni che la sua mente non poteva far a meno di posarsi su quanto detto da Erik? Eppure da quella notte qualcosa gli si era formata dentro, o qualcosa che aveva sempre avuto gli si era semplicemente svegliato. Quella che assumeva la forma della classica cellula dell’antistato. Quel piccolo organismo che ti fa dubitare della bontà delle istituzioni, che ti rende indifferente davanti ai suoi coinvolgimenti politici. Sì, perché la vedi come qualcosa di negativo, qualcosa da combattere in qualche modo, sempre e comunque.
Era una predisposizione genetica? Era stato forse un virus trasmesso per via orale? Era sempre stato interessato alla politica, Giovanni, per quanto fosse giovane. Era una caratteristica piuttosto comune nella sua generazione, visto e considerato quanto era successo solo pochi anni prima. Prima di cena, era solito prendere il giornale e provare ad informarsi, cercare, in maniera molto blanda, di capire chi fosse chi e a cosa servisse il suo incarico. Eppure, da quella sera, cominciò a osservare la realtà delle cose che lo circondava con uno sguardo diverso, critico, in una forma di primordiale cinismo.
E l’interesse per il Team Rocket? Quello permase. Non poteva far a meno di cercare tra la folla di Smeraldopoli gente vestita di nero e fantasticare su chi fosse realmente, se appartenesse a quella banda che suo padre e suo nonno chiamavano “criminali”. Lo erano davvero? Non lo era anche lo Stato visto quanto raccontava suo papà?
My two cents

Mi prendo questo piccolo spazio, a fine capitolo, per alcune comunicazioni di servizio.
Prima di tutto vorrei ringraziare tutti coloro che hanno letto i primi due capitoli de “La Bibbia del Potere” e che ora hanno letto il terzo capitolo, aspettando due settimane.
Mi rendo conto che quindici giorni siano un’infinità di tempo, purtroppo, come ho ribadito in altre sedi, mi trovo schiacciato tra le priorità, come gli esami universitari, e le passioni. Devo giungere ad un compromesso.
Un altro ringraziamento, non meno importante del primo, va ovviamente a Davide e NomaiD che continuano con il loro lavoro, alle mie spalle, di correzione degli scritti. Volevo precisare che non prendo il vostro aiuto per scontato e vi sono davvero tanto, tanto, tanto grato.
E ora, veniamo alle novità succulente della settimana. Non sono sicuro di inserire questo spazio in ogni capitolo, anzi, magari è l’unica volta che questo accadrà. Però vorrei raccontarvi quello che è successo in questo lasso di tempo dall’ultima volta che ho aggiornato il lavoro.
Nelle due settimane trascorse è successo un po’ di tutto. Ho messo in correzione il capitolo sbagliato che tra l’altro non era neanche concluso e, rullo di tamburi, hanno anche tentato di copiarmi il lavoro! Ora a qualcuno lo avevo raccontato, mostrando messaggi privati, prove e dimostrazioni che non sono semplicemente paranoico.
Non parlo di ispirazioni. Parlo di gente il cui modus operandi era: copiare, incollare, sostituire i nomi dei personaggi e i riferimenti spaziali al mondo dei Pokémon e inserire riferimenti spaziali nel mondo del fandom di cui si era appena affiliato.
Fortunatamente, credo e spero, sono riuscito ad evitare che questo fenomeno riguardasse anche me. Ma, purtroppo, NoceAlVento è stato vittima di questo geniaccio.
Geniaccio che mise sotto osservazione anche il mio lavoro, chissà, magari per farlo diventare “La Bibbia dei Sith”, sostituendo Giovanni con Palpatine e chissà che altro.
A seguito di questi eventi ho quindi deciso di porre l’intera opera sotto licenza Creative Common, un atto di forza ma che risulta necessario, ringrazio, in tal proposito, MxY per avermi aiutato nella scelta della licenza. D’ora in poi seguirò attentamente la pubblicazione dei capitoli cercando, settimanalmente, frasi su Google, in modo da stanare questi copycat (perché questo soprannome si meritano) che non hanno neanche la dote di copiare.
Non è corretto che ci facciamo il culo (penso di parlare anche a nome di NoceAlVento) scrivendo trama, delineando i personaggi e le loro evoluzioni, creando storie complesse in cui crediamo tanto per poi venir derubati del nostro lavoro dal primo pirla che passa. Sono fanfiction, non lo metto in dubbio, non avranno alcuna valenza nella storia e non verranno studiate da nessuno. Non ci facciamo neanche soldi, su questi lavori. Ma non per questo allora il nostro impegno e il nostro sudore può essere calpestato da inetti senza arte né parte; tutto al fine di prendersi meriti e complimenti.
The truth is outhere” diceva il motto di X-Files. Ecco, cari Mulder e Scully, state attenti: lì fuori ci sono pure un sacco di stronzi.
   
 
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