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Autore: Kimmy_90    28/01/2016    1 recensioni
La Regio è salda da millenni, sostenuta da una forte e solida gerarchia meritocratica: in cima, i Philosophi, sotto, la Gens. In mezzo v'è la colla della Regio, i Custodes, a guida delle milizie. Vestiti di nero, hanno il volto scuro e le mani chiarissime. Puliti, alti, statuari.
I bambini li chiamano Ombre.
Le Ombre prendono i bambini.
E mentre la società rimane ferma, inamovibile, la tecnologia avanza – tanto lenta quanto inesorabile, fino al punto di non ritorno.
Il rinculo.
Ecco cosa significava davvero.
La spalla che sussulta. La presa che sembra sfuggire.
L’impulso.
Odore di bruciato, e di metallo rovente.
Saeb lasciò che lo guardassero, mentre si calmavano. Un rumore del genere non lo avevano mai sentito, se non durante un temporale. Ma quella era la natura.
Miran, invece, fra le mani serrava un oggetto puramente umano. Preciso e geometrico come solo l’ingegneria della Regio sapeva fare.
“Questo.” disse poi il Rector, facendosi sentire da ognuno di loro “Era uno sparo.”
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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5. Bambini




Miran non fu nemmeno accompagnato alla saletta delle punizioni: gli dissero di portare le sue cose in camera e di andarci da solo, immediatamente – maggiore il ritardo, peggiore la pena. Corse.

Arriv senza fiato davanti alla porta, anonima ma ormai pi che nota, dove lo avevano portato ancora prima dell’inizio delle lezioni.

Buss.

Fu Isia ad aprire la porta: il bambino lo guardò con vago stupore, riconoscendolo. Poi gli venne in mente la donna bionda con la tunica bianca – che ora sapeva essere un Medicus – e… Isia. Quel Nomen gli si fece strada in testa come un’eco: era sicuro di non averlo mai pronunciato, e che nessun Magister avesse mai esplicitato il proprio Nomen.

Doveva essere stata la donna bionda a dirlo.

Sì.

Ora ricordava.

Senti, vai a chiamare Isia – aveva detto la Medicus a un Custos, allora.

Poco dopo quell’uomo era comparso in ambulatorio, e lo aveva portato nello stanzino delle punizioni. Gli aveva fatto conoscere il gatto.

E anche se dal gatto ci era ritornato un paio di volte, non lo aveva più incontrato.

Miran sorrise, beota, compiaciuto della sua memoria. Era come se l’aver riconosciuto Alir avesse risvegliato in lui tutta una serie di ricordi e di eventi che, non avendo evidentemente dimenticato, doveva aver considerato poco rilevanti. Sino ad allora.

Gli fece cenno di entrare, e prima che potesse dirgli qualcosa Miran si stava già togliendo di dosso maglione e camicia.

“Ti do un consiglio –” disse il Magister, andando a recuperare i bracciali.

Miran s’immobilizzò a guardarlo, senza nascondere la sua curiosità.

“– dato che sei al secondo anno... Miran?”

Il bambino annuì.

“Non metterti la camicia, dopo. Solo la canottiera e la sopravveste. Non sono facili da lavare, le camicie.” Gli mise i bracciali ai polsi.

“Va bene, Isia.”

L’uomo s’irrigidì, quasi colto alla sprovvista nel sentire il suo nome pronunciato da uno studente. Era parecchio che non gli succedeva. Sfrontatezza era un termine eufemistico, per un atteggiamento del genere.

Attaccò il moschettone e lo issò.

“Te ne prendi una in più, per questo – agricola. Porta rispetto.”


Tornato dolorante in camera, Miran si sistemò e prese a cucire le sue cose. Trovò sul materasso un foglietto con le istruzioni per il resto della giornata: doveva scendere nuovamente al pian terreno a ritirare la biancheria e altre cose per la stanza, cenare e andare a dormire. Il tutto entro il coprifuoco – e non aveva la pi pallida idea di quando fosse. Era il caso di sbrigarsi, dato che il sole minacciava di tramontare da un momento all’altro. Prima, però, ricontrollò tre volte di stare cucendo le stelle e la striscia colorata alle maniche giuste – ci mancava solo un’altra punizione nello stesso giorno.

Il Magister che trovò come responsabile del dormitorio era piuttosto in età. Sulle prime, Miran pensò si trattasse di qualcuno della Gens – un amministratore, ad esempio – ma il vestiario non mentiva: nonostante il mento cadente, il capo canuto e un giro vita ai suoi occhi anormale, quello doveva essere un Magister. L’uomo lo guardò sottecchi, senza fare alcunché.

“Vorrei tanto sapere come ti salta in mente di andare in giro in canottiera.” grugnì, continuando a squadrarlo.

Miran cercò di mettere insieme una risposta che non suonasse troppo spaesata – si era completamente dimenticato di non avere addosso la camicia.

“Domando scusa.” era un ottimo modo per iniziare, si disse. Tacque un istante, cercando di sondare la reazione dell’altro. Nulla.

“Ero in punizione. Mi è stato consiglia...” – no. Non azzardarti a dare la colpa a un Magister, Miran.

Pessima mossa. Autocensuratosi, non concluse la frase.

L’uomo annuì un paio di volte, senza controbattere, muovendosi poi lentamente dietro al banco che lo divideva dal bambino.

“Questo.” Disse il vecchio, poggiando l’oggetto sul ripiano “È il bracciale. Mettilo. Poi.”

Scampato pericolo: Miran ne dedusse che dopo una punizione si poteva evitare di vestirsi. Almeno la camicia.

Buono a sapersi.

Sollevato, ora il bambino non sapeva se essere pi incuriosito dal responsabile o dal bracciale: entrambi esercitavano su di lui un insolito fascino. Optò per rimanere fisso con lo sguardo sull’uomo, mentre cercava di inventarsi un’età che gli fosse consona.

Quaranta?

Non era bravo con le età.

Centoventi?

Decisamente no.

Non aveva nemmeno un grande campione da cui attingere: i Magistri, da cui era stato circondato sino ad allora, avevano fa i venti e trent’anni. Qualcuno arrivava a quaranta. E lui, comunque, non sapeva quanti anni effettivamente avessero – ma erano diventati il suo prototipo per il concetto di ‘adulto’. Helios non contava.

Quell’altro, intanto, aveva iniziato a fissarlo con la stessa intensità. Per un istante divenne una gara a chi sbatte per prima le palpebre: poi, di colpo, Miran rinsav, scostando bruscamente lo sguardo.

“Hai finito?” chiese il Magister, roco e retorico. Miran non si mosse.

“Biancheria.” Continuò l’uomo, impilando gli oggetti “E asciugamani. Pacco di detersivi. Quando li finisci passa di qua. Quello che fanno c’è scritto sopra. Sapone. Spazzolino e dentifricio. Sacca. Vattene, stanno arrivando degli altri.”

Il bambino mise rapidamente le cose nella nuova sacca, defilandosi quanto prima. Nell’atrio scorse con la coda dell’occhio un’altra ventina di suoi compagni, intenti a osservare un Magister che spiegava loro come si dovevano cucire le varie cose alla sopravveste.

Scappò in camera, lasciando cadere tutto per terra e cambiandosi in fretta: perse un po’ di tempo a controllare se la canottiera si era sporcata di sangue –

ma no, era bianca come doveva essere. Andò in bagno per lavarsi la faccia prima di andare a cena, e lì, con enorme sorpresa, trovò un’ombra a muoversi assieme a lui.

Sussultò, scomposto, e si schiacciò istintivamente al muro. Poi lo vide.

Era esattamente di fronte a lui, poco sopra il lavabo. Sì, ricordava. Vagamente.

Era passato molto tempo da quando lo aveva visto, per la prima ed unica volta, sino ad allora – nella casa del Frate del suo Pater. Era stato poco prima che le Ombre arrivassero a casa sua, e gli dicessero di seguirlo. Era un oggetto meraviglioso, aveva passato l’intera giornata lì davanti, allora. Uno specchio.

Si avvicinò lentamente, osservando la figura che quella superficie gli restituiva. Non c’era nulla di così lucido, al Ludus – a parte la Sphaera. Ma la Sphaera rifletteva il cielo, e non aveva mai avuto occasione di specchiarvisi dentro, dato che la parte più bassa, il primo piano, era opaco. A ben pensarci, tutto ciò con cui aveva avuto a che fare era sempre stato opaco: dalle posate ai pavimenti, ai banchi, i soffitti.

E lui, a dirla tutta, non aveva mai cercato il riflesso del suo volto, nemmeno dove forse avrebbe potuto scorgerlo, seppur vago – nelle finestre, o nelle intelaiature metalliche delle brande ambulatoriali.

Non aveva idea dell’immagine che l’oggetto gli avrebbe restituito: ricordava solo, sì, che ti ci potevi vedere dentro.

Conservava un’immagine di sé del tutto sbagliata – no, in realtà non aveva la più pallida idea di come fosse fatta la sua faccia. Non era mai stata cosa importante. Non gli era mai, perlomeno, parsa importante.

Si scopr con un volto meno tozzo del previsto, i capelli biondi non più cortissimi, in ricrescita: era un po’ che non glieli tagliavano.

A ben pensarci, i bambini pi grandi li avevano più lunghi di loro. Non lunghissimi, ma più lunghi.

Mostrò la lingua a se stesso un paio di volte, studiandola. Si issò sul lavabo, di pietra solida, per vedere più da vicino.

Poi si ricordò che doveva esserci un interruttore, da qualche parte, per illuminare il bagno. Di solito funzionava così, nei bagni dei dormitori.

Una volta accesa la luce, il mondo cambiò. Il suo volto cambiò.

Spalancò gli occhi, arricciò le labbra – si ispezionò capelli, orecchie e colore degli occhi. In un attacco di narcisismo prese a guardarsi da ogni angolazione, studiandosi poi le spalle e il petto nudi.

A ogni suo movimento vedeva il muscolo contrarsi sotto la pelle. Non ci aveva mai fatto caso.

Il suo corpo di bambino era ben diverso da quello che s’immaginava, da quel poco che si ricordava. Sembrava piuttosto il corpo di un uomo – in miniatura, forse: ma adulto. Di infantile gli erano rimaste solo le gote, ancora un po’ tonde. Anche le mani s’erano indurite: non erano grosse e salde come quelle dei Magistri – quelle, pi che mani, sembravan tenaglie – , ma nulla avevano a che vedere con le manine che aveva una volta.

Gli si erano lentamente irrobustite, sotto il naso – così, come tutto il resto. Lento e costante, tutto era cambiato: si palpò gli avambracci, scoprendoli duri.

E sì che erano sempre stati lì.

Perse tempo a farsi boccacce – quasi stupito di divertirsi con così poco, ma non per quello trattenendosi. Poi, come di sfuggita, notò un’irregolarità sul suo volto: c’era qualcosa che non gli tornava, un dettaglio che non comprendeva, forse perché non lo aveva mai visto addosso a nessuno dei suoi compagni.

Lo avevano notato anche loro?

Si avvicinò allo specchio, tanto da impattarvi con il naso.

C’era una strisciolina di pelle più scura sotto lo zigomo destro.

Arricciò le sopracciglia, nel tentativo di vedere meglio: come contrasse il volto, la strisciolina sparì.

Era un’ombra.

Sono un’ombra.

Ricominciò a farsi le boccacce, instancabile, perso – finché non suonò il coprifuoco.


La mattina seguente Miran ingurgitò la colazione come se non mangiasse da una settimana: era talmente affamato che per poco non sbagliò tavolo, sedendosi con alcuni tre stelle. Bastarono le loro occhiatacce per fargli capire che stava per commettere un enorme errore. Fuggì, trovando finalmente una serie di tavoli e panche su cui erano impresse, ai margini, due stelle metalliche: posò il vassoio con la colazione e prese a buttarsi il cibo in bocca.

Passandogli accanto, una Magister si fermò a guardarlo, attendendo che quello lo degnasse d’attenzione. Finito d’ingurgitare il bicchiere di latte, il bambino si voltò verso di lei: la riconobbe, era la stessa che aveva fatto l’ispezione il giorno precedente.

“Primo richiamo. Non si salta la cena.”

Miran incassò la testa nelle spalle, continuando a guardarla.

“Non mangiare in fretta, soprattutto quando hai molta fame. Ti può venire una congestione.”

Miran annuì debolmente – non aveva la pi pallida idea di cosa fosse una congestione.

“Ti si blocca lo stomaco.” spiegò la donna, intuendo la sua ignoranza in merito.

Quello annuì con più decisione.

“Stamattina lezione sui bracciali.” Aggiunse poi la Magister, rivolgendosi a tutta la tavolata. “Muovetevi a venire in aula, siete gli ultimi. Non fagocitate il cibo.”

E se ne andò.


La lezione iniziò con il saluto: pugno, battito, mano aperta, battito. Sederono.

L’aula non era pi ghermita come il giorno prima, le sedie vuote abbondavano. Miran non era sicuro di sapere cosa fosse successo.

Ma un’idea ce l’aveva, seppur vaga.

Tre Magistri, in piedi accanto alla cattedra, presero parola. Stranamente si presentarono.

La donna era Lena, poi c’erano due uomini: Mhanus e Pa’i.

“Noi siamo i Magistri del vostro anno.” Spiegarono. “Svolgeremo la maggior parte delle lezioni, e siamo i vostri unici riferimenti per i prossimi trecento sessantacinque giorni. Non sarete più seguiti come l’anno scorso: sarete responsabili di quel che farete, e non ci sarà più nessuno a suggerirvi che state per fare qualcosa di stupido. Siete soli, ora. Perché siete grandi. Poiché ci avete mostrato di saperlo fare, è ora che vi arrangiate.”

I bambini fremevano, fra lo sconcerto e l’entusiasmo.

I tre Magistri tacquero, nel silenzio. Gli allievi non emettevano un suono, irrequieti solo nel volto e nei gesti, al più nei respiri.

“Ora la Magister Lena vi spiegherà come funziona il bracciale che vi stato dato ieri, e come vi organizzerete le giornate da oggi in avanti.”

Miran era combattuto fra l’ascoltare e il contare i presenti. Cerc di fare entrambe le cose, arrivando a circa quattrocento bambini.

Pi della met, dall’inizio del Ludus, era andata via.

“Tomoe1!”

Quella scattò in piedi al richiamo della Magister: Miran sussultò, sorprendendosi che non fosse stato lui a essere richiamato. Tutta l’aula port l’attenzione a Tomoe – una bambina dalla carnagione scura e lo sguardo concentrato.

“Dicci quante sono le ore del giorno.”

Le labbra della piccola si mossero, ma si sentì ben poco.

“Pi forte, da qui non riusciamo a leggere il labiale!” la spronò Lena.

“Sei!”

“Potresti anche dircele, non credi?”

“La prima, l’ora del mattino, all’alba del solstizio d’estate. La seconda, l’ora mezza, al mezzogiorno del solstizio d’estate. La terza, l’ora tenue, a duecentoquaranta minuti dalla seconda. La quarta, l’ora della sera, al tramonto del solstizio d’estate. La quinta, l’ora del pasto, a centoventi minuti dalla quarta. La sesta, l’ora notturna, a duecentoquaranta minuti dalla quinta. O Mezzanotte.”

“Seduta. Kipa’h2!”

Kipa’h si alzò, Tomoe si abbassò – pressoché in contemporanea.

“Sì!”

“Altro da aggiungere?”

Il bambino – capelli nerissimi su un volto magro e pallido – deglut, nel tentativo di prendere tempo. “Sì.”

“Aggiungi.”

Non fu reattivo come Tomoe: abbassò lo sguardo qualche istante, prima di parlare.

“La prima ora è divisa in sei sezioni di sessanta minuti. Si chiamano fasce. La seconda ora ha quattro fasce, la terza e la quarta ne hanno due. La sesta ne ha

di nuovo sei. La quinta ne ha quattro come la seconda. Tutte le fasce hanno sessanta minuti.”

“Sei ridondante, Kipa’h. E anche poco chiaro. Siediti.”

Quello si sedette, gettando un’occhiata a Tomoe: la bambina sorrideva, entusiasta.

“Tomoe!”

Neanche il tempo di compiacersi per non essere stata ammonita, come lo era stato Kipa’h, che scattò nuovamente in piedi. A chiamarla, questa volta, non era stata la Magister Lena, ma Pa’i.

“Perché sorridi?”

Tomoe raddrizzò immediatamente le labbra.

“Non si sorride se un compagno sbaglia. Spero non ti rallegrerai ogni qual volta un Custos perderà più Bellatores di te: stai ridendo delle disgrazie della Regio, in tal modo.”

Fece una pausa, continuando a squadrarla.

“Ti sei guadagnata un richiamo. Ora, Tomoe – le ore sono astronomicamente corrette?”

“No.” mugugnò quella, alzando poi la voce: “Sono un residuo storico.”

“Ti stato insegnato come si calcola l’ora astronomica?”

Silenzio.

Tomoe inspirò, richiamando a se tutta la sua conoscenza.

No, niente.

“No.”

Quello attese qualche istante – tutta l’aula in tensione: no, non ricordavano che nessuno gli avesse insegnato niente del genere. O forse erano loro ad avere poca memoria? E se Tomoe stesse dichiarando il falso? Non erano mai stati interrogati prima. Non erano sicuri che le cose stessero andando come dovevano.

Alla fine il Magister annu: “Siediti.”

Tomoe si sedette, amareggiata per il richiamo, mentre il resto dei compagni distendeva i nervi.

La lezione prosegu frontalmente guidata da Lena, mentre Pa’i e Mhanus controllavano, attenti, la platea. Giunti all’ora di pranzo, quasi un terzo della classe si era guadagnata un richiamo – per molti, il secondo.

Il bracciale che era stato dato loro avvolgeva circa met dell’avambraccio, ed era un oggetto di alta tecnologia. Prima regola era non romperlo.

I Magistri si ben guardarono dallo specificare che quei bracciali erano pressoch infrangibili, dato che lo stesso modello veniva usato in battaglia dai Custodes – era sempre meglio dare agli allievi una preoccupazione in pi che una in meno.

Parte del bracciale fungeva da schermo: c’erano una serie di comandi, alcuni dei quali vocali, per interagirci. Oltre a fornire l’ora e a ricevere comunicazioni, prendeva il battito, la pressione e poteva fare in rapidit analisi del sangue e iniezioni di medicinali. Queste ultime funzioni richiedevano dei permessi particolari per essere attivate, e solo i Magistri e i Medicus del Ludus potevano accederci – per ora. Pi in l gli studenti avrebbero potuto usarlo anche per altre cose, come la comunicazione a distanza da un bracciale all’altro o l’invio di segnali d’emergenza. Ogni cosa a suo tempo.

“Ogni dieci giorni vi arriver, sullo schermo del bracciale, l’orario delle attivit dei dieci giorni successivi. Salvo comunicazioni differenti, l’orario è legge. Rimane in memoria un giorno, non un minuto di più; quindi dovete memorizzarlo. Se vi dimenticate di presentarvi a una lezione o sbagliate orario, è affar vostro. Non ci servono Custodes senza memoria.”

La batteria si ricaricava in svariati modi – movimento, luce solare, calore umano, o una semplice presa di corrente – il che dava al bracciale un’autonomia pressochè eterna. L’unica cosa a cui bisognava prestare veramente attenzione era lo stato della batteria, che andava cambiata ogni cinque o sei anni.

“Se avete del tempo libero – e d’ora in poi vi capiterà di averlo –, ci sono tre posti dove potete stare: in camera, in aula, o nel refettorio alle ore dei pasti. Ora, voialtri che siete stati tanti furbi da accumulare richiami, mettetevi in fila per la saletta delle punizioni. Gli altri si attengano al loro orario.”

La fila era lunga. Oh, quanto era lunga – Miran tentò di non sorridere, gaudente all’idea di non essere fra loro. Anche perché aveva il resto della giornata libero, l’ora di pranzo si avvicinava e lui era in procinto di mangiarsi una manica della sopravveste, tanta era la fame.

Aveva i crampi.

Mosse qualche passo verso l’uscita, cercando di non sgomitare troppo fra la calca.

Qualche metro lungo il corridoio e – ploff.

Le gambe gli cedettero.

Senza preavviso alcuno.

Riapr gli occhi, perplesso dall’improvviso cambio di direzione che aveva avuto la forza di gravit. Sentiva rimbombargli nelle orecchie il rumore sordo di miriadi di passi: steso sul pavimento, il resto dei suoi compagni lo stava sorpassando di gran carriera – evitando accuratamente di prestargli troppa attenzione.

“Eccone uno che va giù –” sent, ovattata, la voce di un uomo: il Magister Mhanus si accovacciò accanto a lui, prendendogli l’avambraccio su cui portava il bracciale. Miran sent un pizzicore.

“Avevi fretta di provarlo?” domandò l’uomo, retorico, chino sul bracciale del bambino.

Quello fece per alzarsi – ah, certo, le scene di studenti che svenivano in mezzo al corridoio non erano rare. Questo non le rendeva meno imbarazzanti.

“Alt, finchè non te lo dico io. Hai fatto colazione?”

“Questo è quello che ieri ha saltato la cena.” specificò la Magister Lena. “ – hai idea del tempo che ci stai facendo perdere?”

Miran annuì.

“Qui mi dà valori piuttosto anomali.” Notò il Magister, leggendo i dati dal bracciale del bambino. “Sembra malnutrito. Puoi metterti a sedere, Miran. Mangi sempre tutto?”

“Sì.”

Lena lo squadrò severa, le mani ai fianchi.

“Tranne ieri.” Si corresse. “Ma è successo solo ieri!” Mhanus non rispose, continuando ad armeggiare con il bracciale del bambino.

“Mhanus –” lo chiam Lena.

“Quasi fatto.”

“Ne abbiamo un altro. Pa’i!” chiam il collega “Vai un po’ a vedere cos’hanno questi due stelle, oggi, per cortesia?”

Miran vide l’ombra di Pa’i muoversi alle estremit del suo campo visivo. “Forse c’era poco ossigeno in aula.” Continu la donna, rivolta a Mhanus.

“Farò controllare. Intanto tu vai a pranzare, Miran, e presta attenzione al bracciale. Se la schermata diventa rossa, siediti. Poi vai in infermeria. Se no, vacci domani – appena puoi.”

Una volta in piedi, Miran perse poco più di un secondo a sondare la sua stabilit, prima di mettersi in cammino: nel frattempo, i due Magistri avevano gi

raggiunto il loro collega, che stava tirando su l’altra malcapitata.

“Sono inciampata.”

Miran non sentì altro – non era il caso di fermarsi a origliare, se non voleva andare a mettersi in fila insieme agli altri sprovveduti di giornata: s’incamminò rapido verso le scale, diretto al refettorio.


Rimase seduto al tavolo più a lungo del solito: dopo aver svuotato il vassoio si era messo a fissare lo schermo del suo bracciale. Provò un paio di comandi vocali, premette due pulsanti, controllò l’ora e poi rimase in attesa.

Sarebbe diventato rosso? O no?

E quando?

Durò una decina di minuti: la noia montava. In fondo, stava bene: si reggeva in piedi senza problemi, aveva mangiato tutto il suo pasto – era tutto a posto. Si alzò, deciso ad andare in camera per trascorrere il resto della giornata.

A fare che?

Il suo orario parlava chiaro: non aveva alcun tipo di… impegno. Niente. Il vuoto.

Il tempo.

L’idea di avere un intero pomeriggio senza alcuna attività programmata, di colpo, lo fece andare in ansia: tutto quel tempo da riempire... non doveva lavare la stanza né i vestiti, era tutto nuovo e impeccabile; non aveva testi da leggere, o esercizi da presentare al giorno successivo.

Cos tanti minuti da far passare, nel nulla.

Ebbe l’impressione che quella giornata non sarebbe mai finita.

Tutto quel che gli rimaneva da fare era di sedersi sul letto e guardare il bracciale, in attesa della schermata rossa.

Assalito da questi pensieri, si ritrovò quasi senza accorgersene all’esterno, oltre il piazzale – intento a camminare lungo i viali. Diretto verso il dormitorio, scorse con la coda dell’occhio una massa grigiastra – una folla – poco lontano, vicino alla Sphaera.

Miran si ferm bruscamente.

Una ragazzina più grande, una striscia arancione, camminava di poco dietro di lui: riuscì per poco a evitare di andargli addosso – e, come gli passò vicino, gli diede un colpo secco alla spalla con il gomito. “Bada a dove vai, agricola!” fece, stizzita, sorpassandolo.

C’era un notevole traffico umano, lungo le strade che collegavano le varie costruzioni del Ludus: non pochi, poi, si muovevano correndo – il che richiedeva ancor maggiore attenzione. Ad andarsene in giro da soli si rischiava d’esser d’intralcio, specie se ci si fermava di colpo in mezzo alla via.

Miran si spostò, cercando di levarsi dalla zona di maggior flusso: vista l’ora, era pieno di allievi che andavano e venivano dal refettorio. Attravers una serie di prati, tagliando, verso il cumulo di persone che avevano attirato la sua attenzione: non gli servì avvicinarsi troppo per capire che erano quelli del primo anno.

“Ehi, striscia blu.”

Ops. Un Magister l’aveva visto.

“Ehi, dove stai andando? Non puoi startene lì a far nulla, due stelle.”

“Sto andando in aula.” Cercò di giustificarsi.

“E dov’eri, prima? In giro a cogliere fiori?”

“Al refettorio.”

“Dal refettorio all’aula del tuo anno c’è una rampa di scale.”

“Stavo andando in camera, ma ho cambiato idea.” “E cos hai scelto la strada pi breve?” domandò quello, sarcastico. Aveva ampiamente deviato dal percorso pi naturale, in effetti.

Miran non rispose, abbassando il capo.

“Vattene in aula, agricola.”

Non se lo fece ripetere due volte: corse verso il viale più vicino e da lì prese a camminare, tornando da dove era venuto.

Non salì le scale. Rimase al pian terreno, diretto verso l’anfiteatro del primo anno.

Per un attimo pensò di essere un vero genio: i Magistri sarebbero stati talmente occupati a controllare i bambini più piccoli – i mille bambini più piccoli – che a lui non avrebbe fatto caso nessuno. Certo, questo non significava che non doveva fare piano. E fare attenzione.

La sola idea lo elettrizzava, caricato dalla curiosità: com’erano questi nuovi studenti? Uguali a loro o diversi?

Che facce avrebbe visto, lì dentro?

Muovendosi di soppiatto lungo i corridoi, sentì il vociare dei Magistri che smaltivano il flusso dei bambini. Si nascose in un angolino, ancora lontano dall’entrata dell’anfiteatro – in attesa che le acque si calmassero.

Dopo un po’, tutto tacque. Si sporse, cercando di capire se c’era qualche Magister in giro: via libera.

Camminando quasi rasente al muro, si avvicinò alle porte, chiuse, dell’auditorium. Un’altra occhiata lungo il corridoio, e poi poggiò l’orecchio alla porta: qualcuno parlava.

Fece pi attenzione.

Helios!

Quella era la cerimonia d’inizio lezioni – e lui era lì, ad ascoltarla, con le sue due stelle addosso.

No, non doveva essere l.

Ma via, in fondo non aveva niente di meglio da fare. Che problemi potevano esserci? Qualcuno, forse – ma non troppi. In fondo stava assistendo a una cosa cui aveva già preso parte. Non stava mica spiando quelli più grandi. Quello sì, che sarebbe stato un problema.

Provò a vedere se la maniglia fosse stata bloccata: poggiò la mano, cauto e sempre all’erta, facendovi lentamente pressione.

Sent l’ingranaggio muoversi. Continuò a spingere, pian piano, finché non arrivò in fondo: poteva aprire la porta.

Poco. Solo un poco. Pochissimo. Una sbirciatina.

Erano tanti.

Tantissimi.

Erano davvero così tanti?

Per non parlare dei Magistri: maglie rosse ovunque. In gruppi di tre, a coppie o da soli, in ogni angolo dell’anfiteatro, seduti sui gradini o in cima alle gradinate. Mille bambini da sorvegliare – dovevano richiedere un certo impegno.

Helios parlava e parlava.

Miran vide un Magister muoversi nella penombra, avvicinandosi a uno dei piccoli: ecco, agricola, il tuo primo richiamo – pens Miran.

O forse no, ché lui, dal gatto, c’era già stato ben prima di iniziare ufficialmente gli studi.

Rimase in buona parte deluso: non aveva preso in considerazione che, vista l’enormità dell’anfiteatro e la pochissima luce che c’era, non riusciva a vedere in faccia nessuno.

Allora si sporse ulteriormente, fece scivolare le spalle oltre la soglia e, quasi senza accorgersene, fu dentro.

Si richiuse la porta alle spalle.

Ecco, ora – potendo abituare bene gli occhi alla penombra, iniziava a vederci bene.

I nuovi studenti avevano ancora i capelli lunghi, tagliati dai loro stessi Parentes nei modi più disparati: questo li rendeva pi facili da distinguere. La cosa in realtà non lo aiutava molto: dalla posizione in cui si trovava, in cima alla platea, poteva solo scorgere i profili di alcuni, i più vicini.

Stava impegnandosi a strizzare gli occhi per vedere meglio, quando sentì un tocco sulla sua spalla: sussultò, alzando immediatamente lo sguardo. Gli si asciugò la bocca a vedere lo sguardo perentorio di un Magister; era appena entrato nell’ordine di idee di aver commesso l’errore più magistrale della sua vita, quando finì con il fare molto, molto peggio.

Sarebbe potuto uscire semplicemente dall’aula senza un fiato, e la cosa, per lo meno, non sarebbe stata pubblicizzata.

Ma, lo avrebbe giurato per il resto dei suoi giorni, non fu colpa sua.

Silenzioso come un gatto – macché, come un Custos – un altro Magister gli si avvicinò di soppiatto, afferrandolo alle spalle e sollevandolo in aria: colto del tutto alla sprovvista, Miran lanciò un urletto.

I mille si voltarono verso di lui.

Helios interruppe il suo discorso – ah, che ci fosse qualche problema durante la cerimonia, era normale amministrazione. Quel che il vecchio non vedeva, da laggiù, era che il problema non lo stava causando uno dei mille, ma uno studente del secondo anno.

Fuori da ogni logica.

Sorpreso a sua volta dalla reazione del bambino, il Magister che lo aveva accalappiato indebolì momentaneamente la presa: quel tanto bastò a Miran per liberarsi e, in bala dell’adrenalina, scappare. Sgusciò fra le gambe dei due, abbattendosi poi sulla porta da cui era entrato: riuscì in qualche modo a far scattare la maniglia e si buttò fuori, nel corridoio.

Il danno era fatto.

Un danno enorme.

I due Magistri lo rincorsero, senza dargli modo di riflettere seriamente sulle sue azioni – braccato, staccò il cervello, guidato solo da un istinto viscerale che urlava ad ogni suo muscolo: fuggi. A rotta di collo lungo il corridoio, e poi fuori: all’esterno procedette dritto, evitando le vie asfaltate e mirando agli alberi tutt’intorno, lungo i prati, poi, dentro il bosco.

Non aveva la più pallida idea di dove stesse andando.

E poiché non aveva abbastanza problemi, sentì la pancia contrarsi. E contrarsi. Sempre più.

Ma al momento, l’unica sua vera preoccupazione era correre.

Correre, evitando suon di scarti, salti e cadute coloro che gli si avventavano addosso.

Diede tanto di quel filo da torcere ai Magistri che, quando finalmente riuscirono a bloccarlo, aveva percorso quasi tre chilometri: perso in zone del Ludus di cui ignorava persino l’esistenza, fra boscaglia e palazzine, strade mai viste, viali completamente ignoti, si era cacciato in un vicolo cieco.

Con le spalle letteralmente al muro, si trovò di fronte una decina di Magistri oltremodo stizziti.

La paura.

La paura.

La paura.

Davano tutta l’impressione di volerlo fare a brani seduta stante.

Soffiò.

Come un gatto.

Davvero.

Non seppe nemmeno perché gli venne in mente di farlo, ma soffiò.

Serrò i denti, e ringhiò.

Non era credibile.

Non gli rimase che urlare, come un qualsiasi essere umano preso dal panico.

Serr le braccia davanti alla testa, per pararsi il volto, flettendosi e chiudendosi tutto – neanche fosse l’apocalisse quella che gli arrivò addosso.

Forse aveva dilatato il suo senso del tempo, perché i Magistri lo afferrarono solo qualche istante dopo quel che aveva preventivato.

Fatto sta che, finalmente, lo presero.







[1] Pronuncia Tòmoe

[2] Pronuncia Kipàh






   
 
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