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Autore: Kimmy_90    06/02/2016    1 recensioni
La Regio è salda da millenni, sostenuta da una forte e solida gerarchia meritocratica: in cima, i Philosophi, sotto, la Gens. In mezzo v'è la colla della Regio, i Custodes, a guida delle milizie. Vestiti di nero, hanno il volto scuro e le mani chiarissime. Puliti, alti, statuari.
I bambini li chiamano Ombre.
Le Ombre prendono i bambini.
E mentre la società rimane ferma, inamovibile, la tecnologia avanza – tanto lenta quanto inesorabile, fino al punto di non ritorno.
Il rinculo.
Ecco cosa significava davvero.
La spalla che sussulta. La presa che sembra sfuggire.
L’impulso.
Odore di bruciato, e di metallo rovente.
Saeb lasciò che lo guardassero, mentre si calmavano. Un rumore del genere non lo avevano mai sentito, se non durante un temporale. Ma quella era la natura.
Miran, invece, fra le mani serrava un oggetto puramente umano. Preciso e geometrico come solo l’ingegneria della Regio sapeva fare.
“Questo.” disse poi il Rector, facendosi sentire da ognuno di loro “Era uno sparo.”
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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7. Inchino




Bruciava ogni volta in cui si buttava addosso – da solo o con l’aiuto di un Magister – disinfettanti e medicinali. Bruciava, tirava, a volte ricominciava a sanguinare durante gli allenamenti.

Rimase impedito nei movimenti per giorni: anche dormire era un’impresa, con la schiena in quelle condizioni. A fatica rimase al passo con gli altri, salvato in larga parte dagli appunti – un plico di fogli che spiegavano cosa era stato fatto mentre era in degenza. La notte li leggeva e li rileggeva, non riuscendo a prendere sonno: ma non bastava. Anche se sulla parte teorica aveva recuperato, su tutte le attività pratiche si trovava in seria difficoltà.

La rabbia ricominciò a montare: frustrato, si sfogò divertendosi con la borraccia. Iniziò a nasconderla nei posti più impensabili, sotterrandola di nascosto, o infilandola in una fessura d’un tronco d’albero. A volte vedeva qualche compagno cercare, invano, di trovarla per sottrargliela. Una se la mise nelle mutande – ottenendo grande ilarità e un richiamo.

Così, non ne perse più una.

Tempo dieci giorni e Miran era tornato abbastanza in forma da non restare più fra gli ultimi, nella corsa e negli allenamenti: divenne più reattivo che mai. Talmente reattivo che iniziò ad eccedere nelle sue azioni più spesso del solito. Spingendosi oltre più di quel che aveva precedentemente osato fare.

Isia lo guardò a lungo, quando si ripresentò alla saletta a meno di venti giorni di distanza dall’ultima, lunga, punizione. Miran sorrideva beota. Come poteva sorridere un bambino la cui schiena era stata ridotta in condizioni infami solo una ventina di giorni prima, dovendo rincontrare il gatto?
“Vuoi restare al Ludus?”

“Certo.”

“Fai come vuoi. Sono sempre due, le code, per te.”

Miran fece spallucce. “E quante?” chiese.

“Cosa?” fece l’uomo, perplesso.

“Le frustate.“

“Tre. Ma con questa fanno quattro, Agricola. Non fare domande inopportune.”

Miran gli porse i polsi, guardandolo con vaga sfida.

La schiena del bambino era ancora malconcia. Gli avrebbe fatto molto più male di quel che pensava.

Saccente.

Certo, ammise il Magister tra sé e sé, s’aspettava fosse in condizioni ben peggiori.

Poco importava.

Caricò.



***



Atro non tollerava metter piede dentro il Globus. Seppur fosse esternamente identico, sia nei materiali che nelle dimensioni, alla Sphaera, l’interno celava un mondo completamente diverso.

Drappi rossi e neri ovunque. Troppi. Tutti insieme, tutti lì.

Un Custos non avrebbe dovuto accedervi, di norma – nei rari casi in cui accadeva, serviva un invito formale sigillato da un Philsophus. Lui, però, non era un Custos qualsiasi.

Lui era un Custos che addestrava i Philosophi stessi – gli Strategi, nello specifico.

Non lo faceva a Pagus, no: li portava al Ludus, o al fronte. Studenti suoi, territorio suo. Così funzionava. E sebbene l’altezza del suo rango e la sua bravura lo avessero portato ad aver l’accesso libero al Globus, Atro evitava di entrarci se non obbligato.

Shi’ran gli venne incontro lungo il corridoio, intercettandolo non appena ebbe messo piede all’interno dell’enorme struttura: quando fu abbastanza vicina all’uomo si lasciò scappare un sorriso affilato e storto: “Fati Frates.” lo salutò, sarcastica.

“Dimmi, Shi’ran.” la incalzò il Custos, che non si curava di celare il suo disagio. Portò il pugno al petto, serrando le labbra.

“Seguimi.”

I corridoi dentro il Globus si snodavano asimmetrici, tanto da infierire sul senso d’orientamento del Custos, che faceva fatica a orizzontarsi. Seguì la donna, riconoscendo il percorso che portava al refettorio. Se era ancora abbastanza ferrato, entro breve avrebbero incontrato una rampa di scale.

Infatti.

“Cos’hai intenzione di fare, negli anni prossimi?” chiese a un tratto la donna, dopo il lungo silenzio che aveva accompagnato il loro camminare.

“Io non ho intenzioni. Quel che mi danno da fare, lo faccio. Lo sai.”

La Philosopus si fermò a due passi dall’entrata del refettorio, scrutandolo sottecchi. “Vuoi forse farmi ridere?”

“No.” si limitò a dire Atro, il volto impassibile.

“Vuoi mangiare?” chiese allora Shi’ran.

“Non ne ho impellente bisogno.”

“Allora andiamo nel mio ufficio.” Neanche finita la frase che quella riprese a camminare: un’altra rampa di scale, sempre più in basso, finché di colpo non si fermarono davanti ad una porta bianca e anonima. La Philosophus entrò, accendendo la luce e portandosi dietro alla larga scrivania che troneggiava nel mezzo della stanza; su ogni parete s’alzavano librerie traboccanti di tomi, cartelle e dispense: nonostante l’ordine assoluto, era chiaro che l’ufficio fosse saturo. Atro ci entrò mentre il suo senso di disagio si amplificava sempre più: le si mise di fronte, mentre lei faceva spazio sulla superficie del tavolo per attivare lo schermo integrato.

“Chiudi la porta.”

L’uomo rimase qualche istante a guardarla, e, con lo sguardo sempre ancorato sulla donna, indietreggiò quel tanto che bastava ad afferrare la maniglia e chiudere, silenziosamente, l’uscio. Rimase lì, in piedi, in attesa.

Shi’ran si sedette. “Allora.” fece poi, riportando gli occhi sul Custos “Ti ripeto la domanda: cosa hai intenzione di fare, negli anni prossimi?”

Atro stese le labbra, lasciandosi scappare uno sbuffo divertito.

“La mia risposta non cambia, Shi’ran.”

“Allora continuerò a ripetere la stessa domanda finché non deciderai di piantarla con le idiozie da Agricola, e mi dirai quel che ti passa per la testa.”

Il Custos non rispose.

“Sto sentendo voci che non mi piacciono, Atro.”

“Non decido io.” rimarcò l’uomo. “Non sta a me decidere.”

Shi’ran non rispose, limitandosi a fissarlo. A lungo. Insistente.

Passarono cinque minuti così, nel silenzio, a guardarsi e basta.

“Va bene.” cedette alla fine la donna, vedendosi costretta a cambiare strategia. “Ne deduco che ti sta bene.”

“Ho cinquant’anni, Shi’ran. Prima o poi doveva succedere.”

Non a te!” saltò su quella. “Dimmi ora seriamente che sei contento di non poter morire sul confine, e io interromperò questa sottospecie di interrogatorio cui mi costringi a sottoporti!”

Il Custos si strinse nelle spalle, incrociando le braccia al petto. “Non decido io.”

Gli sguardi d’odio di Shi’ran erano sempre qualcosa di affascinante e temibile. Ma lui aveva il sistema dalla sua, e su questo poteva fare un profondo affidamento: non era nel torto. Affatto. Al più, era Shi’ran che stava andando oltre.

Ecco perché erano in quell’ufficio, e non altrove. Si fossero anche fermati a mangiare, la questione sarebbe comunque stata affrontata in quello stanzino, fra loro due, senza che qualcun altro potesse carpire qualsiasi minima parte del discorso.

Lo aveva fatto per proteggere se stessa, vist’anche la dimensione delle reazioni che poteva avere – e che, di fronte ad altri, si sarebbero potute rivelare deleterie.

La Philosophus s’era infatti alzata in piedi, poggiandosi con forza sui pugni, stretti, premuti sulla scrivania illuminata.

“Non raccontarmi storie che tu per primo sai esser false, Atro. Avresti dovuto essere ritirato dal fronte cinque, anzi, dieci anni fa. Se sei rimasto, è solo e unicamente per volere tuo. Io, questo, lo so.”

Il Custos optò per il silenzio, aspettando che Shi’ran scoprisse del tutto le sue armi.

“Con tutti gli Strategi che hai addestrato, con guanti di quel bianco – se esistesse un Helios per i Custodes, saresti tu. Nessuno ti è direttamente sopra, se non per la direzione della guerra ad altissimo livello. Ed anche in quel caso – non ho idea di come sia possibile – ma so che è capitato che chiedessero consiglio a te. Solo gli Undecim possono sollevarti dagli incarichi, e nessuno ha alcuna intenzione di farlo. Mai avuta, visto quanto rendi e quanto scalpiti per star là.”

“E quindi?” domandò, greve, quello.

“Quindi se tu stai lasciando il fronte, Atro, lo stai facendo di tua volontà. In qualche modo – non chiedermi come – glielo hai chiesto tu, di mandarti via. Nega l’evidenza, avanti: nega. Non aspetto altro che sentirti mentire come un Agricola.”

Lui non si spostò. Ascoltò con calma e con calma si prese il tempo necessario per riflettere.

Mentire. Che parola.

Saranno stati quarant’anni che non mentiva.

Mentre ancora la donna si puntellava sui pugni e serrava le labbra per l’astio che provava, Atro si sfilò lentamente un guanto, mostrandole la mano nuda. Questa, seppur scura come il suo volto, presentava delle chiazze più chiare – una, larga, dello stesso colore della carnagione di Shi’ran.

“Io posso aver delle preferenze, Shi’ran. Ma un Custos con problemi di melanina come i miei non può esser lasciato troppo a lungo nel deserto dei Bianchi.”

La Medicus afferrò la mano con uno strattone per farlo avvicinare, esaminandola poi a fondo.

“Hai sempre avuto problemi con la melanina, tu.” rimarcò lei, continuando a studiare la pelle dell’uomo. “Non ti ha mai fermato.”

“Sta peggiorando sempre più, e i Medici –”

Io sono una Medicus”

“– tu non curi i Custodes, Shi’ran. I Medici hanno iniziato a far pressioni affinché mi si allontanasse dal deserto. ”

“E quindi hai ceduto.” concluse lei, sprezzante.

Atro si rimise il guanto, inspirando a fondo. “Non ho insistito oltre, quando il Medicus mi ha comunicato che ne avrebbe parlato a chi di dovere. In questo modo addestrerò meglio gli Strategi e potranno impegnarmi in altre mansioni, in cui sono altrettanto efficiente e spicco su molti altri.”

Shi’ran sfiatò, un vago divertimento che traspariva in tutto il fastidio che si portava addosso. “Questo ti rende vecchio, ufficialmente. Non attendo altro che il giorno in cui inizierai ad esibir la pancia.”

“Cosa vuoi, Shi’ran?”

“Volevo che tu rimanessi – ma se qualche macchia sulla mano ti preoccupa, allora forse sbaglio a volermi sempre rivolgere a te.”

“Ammetto che è stata una buona scusa, Shi’ran. Ma hai ragione. Sono vecchio. E sapendo quel che mi aspetta nei prossimi anni, preferisco ritirarmi prima di dovermici scontrare.”

La Philosophus attese, sapendo bene dove sarebbe finito quel discorso. Finalmente, dopo tutte quelle parole inutili, erano giunti al punto.

“Non voglio addestrare i tuoi, Shi’ran.”

“Le intenzioni le hai, allora. Spiegami.”

“Preferirei non parlare di un argomento che non mi riguarda. Come mi hai fatto più volte notare, è fuori luogo.”

“Solo quando ti torna comodo, Atro.” lo riprese la donna.

“Tempo tre anni e i sei stelle saranno ingestibili, con tutto quel che hai messo in corpo a quei bambini.”

Le labbra di Shi’ran si arricciarono minimamente, mentre l’uomo poteva vedere i muscoli delle fauci contrarlesi – i denti stretti.

“Io mi fermo qui.” concluse il Custos.

“Tu mi servi.” rincarò Shi’ran. “Ci vorranno almeno dieci anni prima di trovarne uno valido quanto te, ad addestrare i sei stelle. Uno con la tua perspicacia e con l’animo intriso della Regio quanto il tuo. Tu sei il prototipo del Custos, ne incarni ed esalti praticamente ogni aspetto – quel che io non posso dar loro, ai miei, glielo devi dare tu – ora più che mai.”

“Glielo dà il Ludus, Shi’ran. Non sono io.”

“Non importa, il tuo intervento è una garanzia. I principï della Regio e del fronte voglio che li assorbano da te, perché è lavorando con te che i sei stelle li intendono meglio, tutti. In questi anni i risultati si sono visti, lampanti, sui nuovi Custodes che tu hai addestrato. Il tuo intervento è fondamentale e irrinunciabile, Atro.”

“Un solo uomo a tenere in piedi tutta la formazione dei Custodes? Questo sarei io?” domandò quello, sarcastico. “Spero tu non sia seria: non sia mai che la Regio dipenda da un solo uomo – specie se quest’uomo sono io.

“Se non altro, per ora, dipende da una sola donna.”

Il Custos tacque, gli occhi, duri, fissi sull’altra. Non mosse un singolo muscolo. La fissò e basta.

Né voleva né poteva parlare. Sì, forse poteva – al più sarebbe tornato dal gatto, dopo averle sbattuto sotto gli occhi la gravità di ciò che lei stessa aveva appena detto.

No, basta.

Non sarebbe andato oltre.

Forse poteva essere vero: lui non era un Custos, lui era il Custos. L’archetipo, il prototipo, l’incarnazione del concetto di Custos stesso. Certo ciò valeva per molti aspetti, ma non per tutti. Un Custos non avrebbe dovuto dar contro a un Philosophus – non tutte le volte in cui lo aveva fatto lui.

Anche se il pensiero di suddetto Philosophus spesso usciva dai binari dell’impostazione della Regio. Ci fossero dietro gli Undecim o Helios stesso, Atro non poteva ignorare il modo in cui l’operato di Shi’ran si discostava da quel che invece era il suo modo di operare – ovvero, il modo del Ludus, il modo degli ultimi numerosi secoli. Il modo della Regio.

O forse stava sbagliando, poteva essere il contrario. Non era più capace di distinguere e da tempo aveva rinunciato a comprendere: ciò che faceva Shi’ran era direttamente commissionato dagli Undecim, quindi non poteva esser fuori dai binari. Non così tanto come percepiva lui.

Basta, si disse Atro. Non erano questioni in cui entrare. Lui era un pezzo della montagna, non la montagna stessa: si macchiava di saccenza ogni volta in cui pensava di poter davvero incarnare lo spirito della Regio e dei Custodes.

A dar contro a Shi’ran aveva solo ottenuto frustate, e null’altro: la donna aveva ragione a non ascoltarlo.

Doveva essere il Custos per definizione? Bene.

Avrebbe lasciato che facessero di lui quel che preferivano. Non avrebbe più insistito per stare al fronte.

E soprattutto, non avrebbe addestrato i bambini di Shi’ran.

Uno era già stato abbastanza.

Uno e mezzo.

“Io mi chiamo fuori.” concluse, lapidario.

Shi’ran si faceva sempre più rossa in volto: iniziò a respirar lentamente, per bloccare quel fastidioso e inadeguato flusso sanguigno.

“Non hai alcuna intenzione di aiutarmi, vedo.”

“No, Shi’ran.”

“E sì che mi sembravi persona di fiducia.”

Se la lasciò scappare, perché da troppo tempo gli covava in ventre: “È del Ludus che devi fidarti, non di un misero Custos come me.” Saccenza. “Se per i tuoi il Ludus non è abbastanza, allora c’è un problema.”

Shi’ran deglutì, abbassando il capo. “Vedi di non tornare, Atro.”

Il Custos indietreggiò, voltandole le spalle a fatica.

Uscì.



***



“Vuoi restare al Ludus?”

“Sì.”

“Vedremo.”

Il Magister lo issò.

Non era Isia: questo era giovane e divertito. Era più forte di quel che si aspettava, sì.

Ma mai abbastanza da farlo cedere.

Vinse.

Ancora e ancora.



***



Shi’ran sigillò il foglio con la cera, premendoci sopra il timbro con forza. Soffiò leggermente ed osservò il materiale raffreddarsi, mentre si solidificava del tutto.

Aveva pensato, sì, alle alternative. Ma nessuna di queste era valida.

E nel farlo aveva perso troppo tempo. Il suo tempo era prezioso: si era stufata.

Non avrebbe speso più un singolo minuto dietro i capricci di un Custos incapace di starsene al suo posto.

Se Atro pensava di averla incastrata rimettendosi al giudizio degli alti esponenti della Regio, bene: lei era fra quelli.

Non c’era nulla che Atro potesse fare contro una lettera scritta dal pugno di un Philosophus e recapitata direttamente agli Undecim.

Sarebbe rimasto al fronte. Avrebbe continuato ad addestrare i sei stelle per anni e anni.

E per una buona volta aveva ragione: non spettava a lui decidere.



***



“Miran.”

Immerso nel flusso di due stelle che si avviavano verso il dormitorio, il bambino venne colto alla sprovvista: si voltò di scatto, domandandosi cos’avesse fatto di sbagliato – aveva la coda di paglia, ultimamente, e per ottime ragioni. Eppure stava capendo molto bene i limiti di quel che si poteva e non si poteva fare, e, fra questi, non trovava nessun valido motivo per un richiamo.

Il Magister gli fece cenno col capo di seguirlo, costringendolo a camminare controcorrente. Dove lo portava?

Nel fissarne la schiena mentre lo rincorreva cercò di capire chi fosse: no, non lo aveva mai visto prima.

“Che ho fatto?” chiese, sapendo che porre quella domanda avrebbe potuto rivelarsi una pessima idea.

Bisognava stare molto attenti con le domande: il più delle volte non erano ben viste.

“Niente, a parte non star zitto.” rispose infatti il Magister. “Vieni con me.”

Era da poco iniziata la quinta ora, e a dirla tutta lui avrebbe preferito andare a dormire – ma non erano questioni su cui valeva la pena di pontificare. Seguì l’uomo, quasi correndo mentre questo avanzava a lunghe falcate e chiamava, ogni tanto, qualche altro suo compagno. Quando furono circa una ventina, li portò fuori dai larghi viali principali che si diramavano dalla Sphaera, iniziando a battere sentieri terrosi.

Tempo una ventina di minuti, ed erano in una delle tante a lui sconosciute palazzine, bianche e squadrate. Si ritrovarono seduti su delle sedie, ordinate, in una stanza bianca, luminosa e disadorna.

Aveva già visto quella scena. Era già stato in un posto del genere.

Che succedeva?

Il bambino era sul punto di chiedere nuovamente spiegazioni, indispettito dalla situazione, quando si rese conto che non poteva succedergli davvero nulla di male: la sua pancia stava bene, il gatto lo aveva domato, e nessuno – assolutamente nessuno – poteva portarlo via dal Ludus senza che fosse lui a chiederlo esplicitamente.

Di colpo si rilassò, deciso ad aspettare pazientemente lo sviluppo degli eventi. L’attesa non lo avrebbe piegato. Sapeva ben farlo, si disse – attendere.

Ma non ci volle molto: il Magister lo chiamò subito, facendogli cenno di seguirlo.

Superarono una porta che si richiuse in fretta dietro di loro: lì, immobile, rimase il Magister.


Non appena mise piede nella stanza, Miran venne invaso da un amalgama di odori che gli mozzarono il fiato. S’immobilizzò, e prima ancora di vedere con gli occhi, sentì.

C’era odore di terra, di grasso rancido e di sudore. C’era odore di fiori e di lievito. Odore di sporco. Povere, ferro battuto, muffa. E odore di casa.

“Vhe, Tsitsi1. Se non sei diventato grande, the.”

Miran non si mosse.

La voce morbida e dolce della sua Mater gli fece scappare quello che mai, nell’anno e mezzo passato, aveva permesso fuoriuscire: lacrime. Lacrime vere, di pianto – non di dolore. Sentimento puro.

Guardò con gli occhi sbarrati le tre persone che, in piedi, si paravano di fronte a lui: rimase immobile, incapace di fare un gesto, mentre veniva assalito da emozioni di cui s’era dimenticato, forti come mai le aveva provate prima.

“Tsarji.” Squillò l’altra donna, flettendosi leggermente. “Come stai?”

Il terzo, in mezzo alle due, era la persona che più gli stava bloccando il fiato in gola. “Im’ahki!” si lasciò scappare Miran, in un fiato, stridulo.

Dentro di lui due enormi moti si scontrarono, bloccandogli i muscoli. Il primo lo voleva lanciato verso di loro, addosso, a riappropriarsi della carne morbida di sua matre, di suoi capelli, del suo calore; voleva risentire ancora e ancora la voce stridula della sua nonè, la matre di sua matre; ma soprattutto voleva lui, Im’ahki, Im’ahki Ledeji2 Hari, suo frate.

Suo vero frate.

L’altro moto lo voleva far allontanare, repentinamente, da loro.

Im’ahki!” lo chiamò Ledeji, raggiante. “Se’nnorme!”

Miran avrebbe voluto scollarsi, ma non ci riusciva.

Quegli odori così familiari, così antichi, eterni, avevano iniziato ad assumere nuovi significati: l’idea di sporco, ad esempio. Non aveva mai notato quanto puzzassero, i suoi, ma l’odore era aspro e forte. Era un aroma vivo, animale e selvatico. Bosco e campi. Nulla a che vedere con l’ordine e la pulizia del Ludus: lavato, pulito, ordinato.

Erano odori di Agricola.

Odori che aveva imparato a riconoscere e a eliminare ogni volta in cui la sua maglietta da ginnastica iniziava ad emanarli, cambiando vestiti, lavandoli. Una volta gli era capitato di entrare in aula senza essersi fatto la doccia: era stato richiamato e deriso. Si imparava in fretta.

Agricola. Il regno della terra sporca.

Un mondo che solo ora che se lo vedeva messo lì davanti iniziava a mancargli seriamente.

Era questa la loro strategia? Erano lì per farlo tornare indietro? Per farlo supplicare?

“Non voglio abbandonare il Ludus!” quasi ringhiò, girandosi di scatto verso il Magister.

L’uomo non fece una piega. Di tutte quelle che aveva visto, questa non era una scena né meno né più comune. “Stai tranquillo, striscia blu. Nessuno ti manda da nessuna parte.” Il Magister si tolse dall’uscio, portandosi in mezzo a Miran e i suoi familiari. “Sii contento di essere arrivato a questo punto.”

“Non voglio andarmene!” insistette Miran, piangendo. Frignando.

Era dalla lunga punizione con le due code che non sentiva le lacrime colargli dal naso.

Il Magister continuò a non spostarsi, mentre, alle sue spalle, la sua Mater iniziava a sciogliersi a sua volta nel pianto.

“Loro sono qui per salutarti. Dato che sei stato qui così a lungo, non è da escludere che tu riesca a concludere gli studi. Vai da loro, parla con loro. Hai tutto il tempo che vuoi. Poi starà a te decidere – come sempre. Hai capito, Miran?”

Il bambino tirò violentemente su con il naso, annuendo poi con forza.

“Bene. Io esco. Esci da solo, se resti; se preferisci tornare a casa, uscite tutti insieme.”


La porta si chiuse: un ultimo istante di immobilità, e poi partì.

“Matre! Nonè!” Corse, inciampando e singhiozzando, verso le due donne e il ragazzino.

Rapidissimo si arrampicò su sua matre, che a fatica ne riuscì a sopportare il peso: la donna si flesse, poggiandosi a terra, poi sedendosi con il bambino addosso. Lo cullò, facendolo calmare: quanto male c’era stato nel figlio a rifiutare volto a volto la sua mater, lei, poteva solo immaginarselo. Il suo dolore, invece, lo conosceva bene: era stato atroce. Un rifiuto così immenso e saldo, dal suo piccolo Tsitsi, era stato difficile da sopportare. E infatti, le lacrime avevano preso a scorrere ben prima di quel che s’era ripromessa.

Ma il Custos era stato chiaro: quell’anno e mezzo, quei quasi due anni, avevano plasmato il bambino da cima a fondo. Che fosse fermo nell’idea di continuare il Ludus nonostante la loro presenza altro non era che un buon segno per il suo futuro.

Miran era bravo, era un ottimo studente. Fosse riuscito a concludere il Ludus, sarebbe diventato un perfetto Custos.

A Ima’h questo bastò. Lo usò per tamponare il dolore che vedere quel figlio così combattuto e in lacrime, così strano, così lontano, le provocava.

Era stata chiara, con Ledeji: erano lì per dargli forza, non per riportarselo indietro.

L’altro Im’ahki aveva sofferto molto quando Tsarji se n’era andato coi Custodes, ma i loro sentimenti non potevano intaccare il bene della Regio, per quanto male facesse: il bambino sarebbe stato utile lì, e lì sarebbe rimasto.

A meno che lui, e lui soltanto, non decidesse il contrario.

“Tsarji.” iniziò Ledeji, cercando di darsi un tono: era di soli due anni più grande di Miran, la voce ancora infantile. “Io’ no’ vojo chèttorni sé nonvòi tornà. Vojo chettè stai quà. Anzi, nòvvojonniente, io. Vojo chettefai quello chettevoj. Chevvojfà?”

“Essai –” intervenne sua nonè “ – seppoi cambiddea – no’cché vojo checcambi’ddea – ma pui tonnare sinza’n problema. ”

“Cor mio.” concluse sua matre “Calsiase cosa che’ttiffai, noi siamo sempre contenti di te. Tu’o’ssai chesto, seh?”

Miran piangeva, piangeva e annuiva. Passava dalla matre al frate alla nonè, stringendo, frignando, strofinando il muso contro quei vestiti lerci e ricolmi di fragranze dimenticate. Il legno, la ruggine, la minestra della nonè. Il fieno – quanto fieno nei capelli della sua matre. E le zolle di terra sulle mani di Im’ahki, che oramai già lavorava insieme agli Hari.

Un mondo lontano che mandava ai suoi sensi l’ultimo abbagliante lampo, prima che lo lasciasse del tutto.

Perché nonostante tutto, Miran non cambiava idea.

Non poteva cambiare idea. Non voleva cambiare idea.

Sarebbe rimasto.

Tutti rimanevano.

Sempre.


Uscì da solo, dopo un tempo indefinito. Era notte fonda, e con i suoi si erano salutati per quella che, ne era convinto, sarebbe stata l’ultima volta.

Era calmo: esausto dal pianto, aveva uno sguardo serio. Riempito dell’orgoglio della sua Gens, degli Hari, del suo amato frate, del suo vecchio mondo. Che era lontano. Che ancora c’era. Che si ricordava di lui. Che lo avrebbe accolto, ma da cui non avrebbe mai più voluto farsi accogliere.

Solo adesso si sentiva definitivamente libero da quel che aveva abbandonato, due anni prima, seguendo i Custodes.

Con l’animo riequilibrato, chiarito il rapporto tra presente e futuro, tra Ludus e Gens, Miran poteva proseguire per la sua strada. Poteva essere solo Miran, sapendo di non stare tradendo nessuno. Era giusto. Tutto era giusto.

Non potevano esserci storture, non più.

Il Magister lo portò ad una sala vicina adibita a dormitorio comune, dove su un numero imprecisato di brande altri suoi compagni erano già sprofondati nel sonno.

“Per questa notte, dormirai qui.”

La mente vuota, si addormentò subito.






[1] Pronuncia: TsìTsì

[2] Pronuncia: Ledèji




____________________________________________________________________________________________________________


Nota dell’Autrice



Ecco, per me questo è un capitolo molto importante, spero di essere riuscita a far passare qualcosa.



Per chi conosce i frutti dell’oblio, vedete che l’ “alter ego” del fu Naruto, Miran, non è orfano.

Ho deciso che non serviva affatto, nella mia storia, questa caratteristica – ed anzi ho preferito avesse il percorso più standard possibile; in questo modo volevo anche dare un assaggio dell’idea di “normalità” al di fuori del Ludus, oltre che giocare con il linguaggio (la Lingua contro i dialetti) e dare un minimo suggerimento su come può essere organizzata la società degli agricola.


grazie a tutti e un gran saluto :)


Pandi


   
 
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