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Autore: Annabel_Lee    09/02/2016    2 recensioni
Federico è sempre stato più assorbito dal suo dolore, dalla sua rabbia, per prestare attenzione a quella altrui: ma qualche volta succede, e ti ritrovi uno sguardo intrappolato in testa e non sai più che fartene, perché sembra che niente te lo possa strappare di dosso.
Lo sguardo, neanche a farlo apposta, è quello di Michael.
[Midez]
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Fedez, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Tutte le cose veramente cattive nascono da un'innocenza.
-Ernest Hemingway

VI

Paint it Black
 

Il teatro pulsa. Trema. Freme.
L'aria pesante dei corridoi affollati fa fatica a lasciare i polmoni, si spezza contro grida concitate e risate sguaiate che sono un'orgia di suoni che riempiono le orecchie e il cervello, e in tutto quel casino Federico vorrebbe urlare e invece sorride pacato, annuisce, le mani sudate strette a pugno e le dita che tremano, i denti che lacerano l'interno delle guance.
Il mondo dello spettacolo è una mano gelida che stringe il collo, un sussurro fatto di promesse contro l'orecchio, e tu che come un coglione ci credi, e quando ha finito con te quello che resta è un burattino senz'anima che neanche riesce più a capire cos'era la musica prima dei dischi d'oro, delle interviste, delle bugie dette col sorriso alle telecamere accese, e luci di serate come quella. Mangia, strappa, distrugge, e Federico non si riconosce più.
Parco Lambro è una figura scura acquattata nel buio, le fronde fitte degli alberi che ondeggiano al vento, e nascondono agli occhi una periferia che sulla bocca ha il sapore acre dei vapori del Lambro e dell'amianto incastrato nel cemento armato accanto ai parchi giochi. Federico guarda il profilo della strada, il fumo che si intreccia alla luce dei lampioni, la sigaretta che tiene stretta tra pollice e indice che si spegne da sola quando dimentica di prendere l'ultima boccata. Il peso che sente sul diaframma lo lascia senza respiro, e riesce persino a darsi della testa di cazzo mentre giochicchia con il mozzicone annerito, e le dita intorpidite cominciano a fare male, perché a dicembre il freddo morde come una bestia e affonda le unghie nella carne senza cura. A Federico va quasi bene, e ci vorrebbe annegare in tutto quel silenzio, col culo ghiacciato su uno scalino e il niente che lo inghiotte. Socchiude gli occhi, i lampioni fantasmi gialli attraverso le palpebre stanche.
A vent'anni, il mondo sembra tuo e i sogni cominciano a riderti in faccia senza pietà, ed è quello che hai dentro a fare la differenza, quando la scelta è tra la tua strada e quella che gli altri indicano per te. Federico ancora se le ricorda, le nottate perse a pensare, a gridare, a sfasciarsi il cervello nel tentativo di trovare se stesso. Si sente quasi come allora, adesso che il suo mondo gli crolla addosso, la vita lanciata in caduta libera e il dolore dell'impatto che è già un brivido lungo la schiena.
Erano anni diversi. Quando fare musica era un pretesto per macchiarsi la bocca di parole che sentiva esplodere dentro e non riusciva a dire, e le rime le scriveva in fretta quando capitava, perché quando gli venivano in mente aveva paura di dimenticarle. Si costruiva la sua maschera senza neanche accorgersene, e a neanche dieci anni di distanza Fedez è il muro contro il mondo di un codardo col vizio della vita, che si ritrova ad avere tutto senza avere niente. E, sotto sotto, Federico ci crede ancora a certe cazzate, e fa un male cane il modo in cui improvvisamente si rende conto che il suo modo di scappare è diventato una pugnalata nel petto di un'altra persona. Giulia, tutto questo, non se lo merita.
Vorrebbe poter dare la colpa a Michael, al modo in cui gli si è insinuato dentro nel tempo di un respiro, ma più se lo sente scivolare addosso più vede oltre i suoi occhi, e dietro ai suoi sorrisi ci sono cose che Federico intravede soltanto e che sembrano divorarlo. La verità è che tutto quello che è nato tra loro è solo un effetto collaterale di una vita che non gli sembra più neanche la sua, di quella voglia di vivere che Federico sente pulsare nel petto un po' più forte quando sente l'altro sospirargli sulla bocca, e nel buio gli parla a bassa voce delle sue notti insonni, del niente che lo assale e lo lascia a fissare il buio. Michael ascolta, lo guarda dal lato opposto della stanza che sa ancora di loro, e ha sempre la voce roca e stanca, le palpebre che lottano per restare aperte, la risata facile sul viso quando la tensione si allenta quanto basta per guardarsi negli occhi, ed è abbastanza.
Giulia al mattino non se la trova neanche più accanto. Solo lenzuola stropicciate, vecchio profumo, una voce flebile che nella stanza accanto singhiozza piano e che riesce comunque a intuire attraverso le pareti troppo sottili. Vorrebbe sentirsi in colpa e non ci riesce fino in fondo, anche con quella settimana di limbo, dove la rabbia e la paura di lei le ha sentite tutte sulla pelle. Michael che dopo l'eliminazione di Luca ha preso il primo aereo di un venerdì mattina che Federico ha ancora sulla pelle, e tutto quello che aveva lasciato da parte gli crolla addosso, un castello di carte di cui si era dimenticato e che adesso lo sotterra.
Lascia cadere il mozzicone a terra, e lo fissa rotolare per un paio di metri prima di incastrarsi in una crepa dell'asfalto e svanire. Il suo respiro si condensa in una nuvola bianca appena sopra le labbra, e dovrebbe rientrare, e proprio non riesce a trovarla la forza per lasciare tutta quella calma.
Federico fissa l'asfalto e forse riesce ancora a vederlo, il filtro arancione brillante nel buio. Pensa al peso che sente nel petto e a Giulia che probabilmente lo sta comunque cercando, a Michael che sbuca dal nulla in perfetto orario con Andreas che lo segue due passi più indietro e non lo degna di uno sguardo, a sua madre che dopotutto riesce ancora a guardarlo con una consapevolezza che Federico non ritrova neanche in se stesso, in quel silenzio schiacciate, nella sensazione che qualcosa in lui si è rotto in modo irreparabile, e dopotutto va bene così. Prima o poi pareggerà il conto, e forse tutto questo sarà solo un brutto sogno.
Tira fuori l'accendino, la seconda sigaretta già tra le labbra.
“Fede?”
Si volta, e Giulia tiene la porta antincendio socchiusa. Lo guarda dall'alto, le sopracciglia inarcate. “Ti aspettano per il trucco.”
Lui non risponde. Torna a guardare il buio alla ricerca del filtro arancione, ma anche l'aria sembra essersi fatta più densa e nell'oscurità non riesce più a trovarlo. Dalla porta che Giulia tiene ancora aperta sente un vociare insopportabile, e la punta della sigaretta brilla mentre inspira il fumo e lo sente bruciare in fondo alla gola.
“Adesso arrivo.”
Sente uno scatto, la porta che si chiude, un tonfo sordo e passi lievi. Giulia si siede accanto a lui, stando attenta a non toccarlo, il freddo che già le arrossa le guance. La sente esitare, e anche senza guardarla, riesce quasi a vederla l'espressione sul suo viso, con le labbra tese in una linea sottile e gli occhi bassi.
“Quante ne hai fumate?”
“È la seconda.”
Lei annuisce, e il silenzio tra loro cade come un macigno e li schiaccia entrambi a terra, le spalle incurvate e gli occhi lontani, perché anche solo guardarsi è difficile in quell'aria piena di niente che li circonda. Poi prova a sorridere, ed è una pugnalata. “Hai ripreso a fumare come quando ti ho conosciuto. Non ti vedo con la sigaretta elettronica da tipo un mese.”
Federico soffia via il fumo. “È la televisione. Troppa ansia,” dice, e forse prova a sorridere anche lui, ma le labbra restano incastrate in una smorfia e Giulia si fissa la punta delle scarpe.
Stanno andando a pezzi, e ormai le schegge sono ovunque.
“Quando finisce questa cazzata smetto davvero.” aggiunge dopo un istante, e Giulia annuisce soltanto. Si porta la sigaretta alle labbra e soffia il fumo nel buio, la testa appena reclinata e gli occhi socchiusi.
“Torno dai miei. Per un paio di giorni,”
Un sussurro che sembra quasi sfuggirle dalle labbra per caso, e quando Federico si volta a guardarla lei sostiene il suo sguardo con una forza che fa male, perché, anche se sta trattenendo a stento le lacrime, lo fissa con una lucidità che lo colpisce dritto nello stomaco.
“Eh?”
“Penso che sia la cosa giusta,” e la sua voce non trema quasi più. Federico spegne la sigaretta e stringe le braccia intorno alle ginocchia, abbassando gli occhi sul cemento pur di non sentire quelli di lei che gli logorano l'anima.
“Giulia...”
“Io non sto bene Federico. Non sto bene, perché tu non stai bene, e non ho idea di quello che tu faccia quando sparisci per ore e quando...” e la voce di lei si spezza, ancora, più forte, e Federico la sente respirare profondamente. “Vorrei aiutarti, ma non so come fare.” aggiunge alla fine.
“Sei sicura?”
“Magari fa bene ad entrambi.”
Federico annuisce e basta, una risposta incastrata in gola, la voglia di un'altra sigaretta che già fa tremare le mani, perché Giulia sa tutto e non sa niente, perché, anche dopo tutto quello che le ha fatto, gli stringe debolmente una spalla e prova a capire, con quegli occhi d'Inverno che Federico forse ha amato davvero, che tremano un po' nella luce sporca dei lampioni.
“Torno dentro. Fa troppo freddo qui.”
“Ne fumo un'altra e arrivo.”

La porta del camerino di Michael è lasciata socchiusa, nel vociare che gli fa pulsare le tempie, nell'aria viziata che ristagna nel corridoio a due ore dalla diretta, e Federico la fissa per un istante di troppo, prima di aprirla con le nocche, senza neanche bussare.
Gli scoppia la testa, il sapore del fumo è una scia amara sul fondo della gola, e quando Michael alza la testa di scatto dal computer che tiene in grembo, i ricci che ondeggiano sulla fronte e il sorriso negli occhi, il nodo che sente nello stomaco si stringe un po' di più, e non capisce il perché.
“Fede,” la voce un po' sporca, le occhiaie nerissime anche sotto il trucco di scena, “che fa qua? Non ti ho visto per tutto il pomeriggio,”
Sta bene attento a non chiudere la porta, Federico. La lascia aperta quanto basta e incrocia le mani sul petto, gli occhi fissi in quelli dell'altro, e il loro è il gioco di due bambini che è sfuggito dalle mani di entrambi.
“Avevo da fare con i ragazzi,” e un sorriso gli sfiora le labbra per un istante “mica siamo tutti qui a fare i ciapa pulver come te.”
“Cosa vuol dire ciapa pulver?
“Hai presente quei soprammobili che trovi in casa delle vecchie zie? Quelli che non servono a niente e stanno a prendere la polvere. Come un Giudice senza concorrenti.”
Michael scuote la testa, le labbra tese in un ghigno ironico. “Sei uno stronzo, sinceramente,”
Federico ride allo sguardo imbronciato che gli lancia l'altro, e per un momento l'aria tra loro è più leggera.
“Il video della canzone è pronto. È venuto una figata.”
Sorride davvero, Michael, una rete di rughe sottili che gli increspa gli angoli degli occhi. “Dobbiamo festeggiare,” e c'è una punta di malizia nella voce, negli occhi scuri arrossati dalla stanchezza che lo osservano da sotto le ciglia.
“Hai compagnia stasera. Magari rimandiamo.”
Andreas non è nella stanza, e riempie ogni angolo senza essere presente, un’ombra sullo sfondo che Federico ha ignorato per tutto il pomeriggio, e che si ritrova davanti ogni volta che sbatte le palpebre, che resta tra loro mentre guarda Michael che non dice niente, e si passa le mani sugli occhi e sospira forte contro i palmi.
C'è una bottiglia di vino dimenticata aperta, sul tavolo accanto a loro, due bicchieri macchiati di rosso e lasciati mezzi pieni sotto le luci al neon che fanno quasi male agli occhi. Un borsone gettato sul divanetto in fondo alla stanza, una valigia poggiata accanto alla porta, la voglia di sfiorare l'altro che Federico ignora con tutte le sue forze.
Non c'è più leggerezza, nel silenzio tra loro. Non c'è più gioco. Solo il vuoto di una consapevolezza che esplode nel petto di entrambi, che ruba il respiro in gola e scava le guance.
Fa per parlare, Michael, prima che la porta si spalanchi completamente, e si alza in piedi quasi di scatto, il computer che per poco non cade sul pavimento.
Quando Federico si volta, Andreas lo guarda interdetto, il viso stanco di chi non tocca letto da giorni, le labbra che quasi subito si tendono in un sorriso di cortesia, che mormorano un saluto in inglese che Federico capisce a stento. Abbassa gli occhi quasi subito, perché lo sguardo di Andreas è vetro che gli affonda nel petto, col peso di una condanna. Forse, è solo la sua immaginazione.
Michael è ancora immobile. L'aria nella stanza è tesa, e Federico vorrebbe trovare la forza per muovere il culo e levarsi dalle palle, ma è un codardo del cazzo e si limita a fissare la bottiglia stappata, l'alone rosso sui bicchieri.
“I'm going,”.
È profonda, la voce di Andreas, con un accento prepotente che quasi gli impedisce di distinguere le parole, ma il modo in cui parla è secco e sbrigativo, e Federico la sente scivolare addosso con le mani che sudano e il cuore che gli esplode nel petto. C'è una crepa, in uno dei bicchieri, proprio sulla base. Il vino è filtrato nel vetro scheggiato, e sembra quasi una ferita contro il tavolo bianco.
“You don't have to.”
Federico sbircia Michael di sottecchi. Ha le labbra socchiuse, si martoria il palmo della mano destra con l'unghia del pollice, ma la sua voce è fredda come non l'ha mai sentita.
“We won't talk here. I'll see you tonight,” e torna il silenzio, Michael che resta immobile davanti alla porta che si chiude con un tonfo sordo e Federico, che neanche si era accorto di aver smesso di respirare.
Sospira forte, Michael, e lui lo guarda con la testa che scoppia e la paura che gli mangia il cuore, e le parole gli sfuggono dalle labbra nel tempo di un respiro.
“Lo sa?”
Michael stringe una mano tra i capelli, si passa la lingua sulle labbra e scuote la testa, fa un mezzo passo avanti. “No,” dice alla fine, ad un soffio dal viso dell'altro. Gli prende il viso tra le mani, e Federico quasi di riflesso si aggrappa i suoi polsi, socchiude gli occhi quanto sente la fronte dell'altro sfiorare la sua.
La porta è chiusa, ora.
“Non sa niente,” un soffio sulle labbra, le viscere strette in una morsa che fa sempre più male. Michael gli sfiora le tempie con le dita, arriva a farle scivolare fra i suoi capelli, a stringerli forte, e fa quasi male. “Io devo andare via subito, dopo show. Domattina prendo l'aereo con Andy.”
Federico gli affonda le unghie nei polsi.
“Vieni,” dice soltanto, e l'altro lo guarda con quei suoi occhi liquidi e stanchi, e Federico ormai s'è perso in quello sguardo e non riesce a pensare ad altro.

Fa caldo, in quel buco di stanza incastrato in un corridoio appena dietro il palco, dove l'odore della polvere di vecchie scenografie si appiccica ai vestiti sgualciti e alla pelle che freme. L'aria turbina, si arriccia, si incurva su di loro e inghiotte ogni gesto in un turbinare denso che sa di sudore e di scuse frettolose, perché Michael ha lasciato Andreas solo, con parole troppo brusche, e Giulia probabilmente se ne sta tornando a casa dai suoi, la borsa con i vestiti puliti stretta al petto. Federico serra gli occhi, nel buio che avvolge cavi arrugginiti e tavole di compensato con la vernice scrostata, il vociare che attraverso le pareti sottili si mischia al loro respirare e allo scricchiolio della porta sotto il loro peso, quando Michael ansima sulle sue labbra e lui gli affonda le dita nei fianchi, lo preme più forte contro la plastica dipinta di nero. Gli gira la testa, mentre cerca frizione e soffoca in tutto quel calore, e ancora nelle orecchie rimbombano le parole di Giulia, la sensazione sporca che sente addosso che non ha niente a che fare con quell'aria viziata, che si riempie di gesti frenetici, di mani frettolose.
Gli gira la testa, gli manca il respiro, qualcosa nel petto preme forte sulle costole e sembra esplodere, la nausea che gli annoda lo stomaco che non ha niente a che vedere col modo in cui Michael armeggia con la sua cintura, il sussurro roco che gli lascia appena sotto l''orecchio.
Qualcuno, oltre la polvere, nello spiraglio di luce che filtra sotto la porta e trema assieme alle loro ombre intrecciate, grida qualcosa, e Federico finge di non sentire, soffoca un'imprecazione contro le labbra di Michael. Lo sente ancora, nonostante tutto, quel dolore che punge attraverso le costole e lo lascia con le tempie che pulsano, che echeggia sordo nello stomaco, e quasi di riflesso bacia l'altro più forte, gli morde le labbra, si china a lasciargli un segno sul collo. Pensa a Giulia, agli occhi stanchi di Andreas, trattiene un gemito tra le labbra quando le mani di Michael si fanno più insistenti.
Stop,” La voce dell'altro è così vicina al suo orecchio che la sente tremare sulla pelle, un soffio bollente che si mischia ad un turbine di pensieri che gli fa socchiudere gli occhi, le iridi ambrate di Michael che si intravedono appena e brillano d'urgenza nell'aria di piombo, quando lo allontana per un istante, “Niente segni.”
“Voltati.”
Federico neanche la riconosce la propria voce. Alle sue orecchie arriva confusa e ovattata, gli sale al cervello con le mani di Michael che gli affondano nelle guance un'ultima volta, prima che tutto diventi troppo veloce, che la polvere si mischi al sudore sulla pelle e ai vestiti stropicciati. Non è mai stato così lucido, Federico, e la nausea continua a stringergli lo stomaco, mentre il suo corpo si muove da solo, mentre cerca un calore che è quello di un altro corpo contro il suo e lo lascia senza fiato.
Michael cerca di non fare rumore. Lo sente inghiottire il proprio respiro alla prima spinta, la testa premuta contro la porta, una mano pallidissima nel buio che si apre contro il muro. Federico fissa le dita sottili mentre si muove senza grazia, il petto che esplode, il sudore che gli imperla la fronte. Si tendono, flettono assieme al tremito del corpo bollente intorno a lui, e all'anulare c'è un anello d'oro che riflette la poca luce che filtra in quell'aria densa e umida che li avvolge, che sente pastosa in bocca quando socchiude le labbra e respira più forte. Federico guarda le unghie che sembrano volersi aggrappare al cemento, il riflesso dorato che gli resta impresso nello sguardo, e sente le lacrime premere agli angoli degli occhi, e non sa perché.
Spinge più forte, Michael soffoca un altro gemito, la porta scricchiola più forte e il vociare dall'altra parte si fa per un istante più intenso. Respira forte attraverso le narici, e sembra annegare in quell'oceano di sensazioni senza logica, in quella nausea che ancora sente grattare in fondo alla gola, fino a quando l'orgasmo non arriva, e il mondo per un attimo si ferma nel sospiro più forte di Michael. Annegano l'uno nell'altro, e per un istante il peso sul petto scompare.
Fa caldo, quando si allontana dal corpo dell'altro, e improvvisamente quell'aria viziata che odora di sesso e di loro gli scivola sulla pelle fredda come una carezza. Quasi inciampa in un faretto arrugginito, soffocando una mezza bestemmia, e quando rialza gli occhi, Michael è seduto con le spalle contro muro, la giacca a terra e la cravatta allentata sul collo.
Lo guarda e per la prima volta vorrebbe toccarlo, e quella colpa che sente dentro la rivede negli occhi che lo fissano nella penombra.
Oh, fuck.”
Una risata roca, il respiro affannato, un brivido lungo la schiena. Federico si trova con i fianchi contro qualcosa di solido, lo guarda gettare la testa indietro, si ritrova ad ascoltare il battito del suo cuore.
“Noi dobbiamo essere on stage tra mezz'ora,” dice, le parole che si confondono per un istante negli accenti sbagliati, nella voce ancora affannata. Oltre la porta rumore di passi, qualcuno che urla il nome dei Moseek e si lamenta delle luci di scena.
“Giulia se ne va da casa.”
Lo dice nelle risate dell'altro, senza pensare, e Michael resta con la testa reclinata contro il muro, ma tutto a un tratto anche la sua risata nervosa si è persa in tutto quel buio. C'è solo il loro respiro, il caos oltre la porta chiusa.
“Voi...?”
“No. Cioè, non proprio. Non ancora”
Michael non dice niente. Si passa una mano tra i capelli, l'anello brilla ancora nell'ombra, e deglutisce a vuoto. Il buio li inghiotte un po' di più. Federico sente l'eco delle sue parole rimbalzare tra loro, si lascia scivolare a terra e quasi non si accorge della polvere che gli resta attaccata ai vestiti.

Corso Como è Milano che si veste di colori sgargianti e schiuma, in un giovedì notte che in bocca ha il sapore amaro di alcol e dell'ultima sigaretta fumata troppo in fretta, con le sue promesse che inciampano nel buio e nei bicchieri di plastica dimenticati sugli scalini dei locali. Federico tiene gli occhi fissi sul lastricato, traballa un po', e per poco non inciampa in una bottiglia di birra vuota, le tempie che pulsano violente.
Una risata sguaiata gli fa alzare la testa di botto, e vede una ragazzina che resta sdraiata a terra e ride, ride come una pazza in mezzo a un gruppetto di adolescenti di neanche vent'anni, accalcati davanti la porta di una discoteca di cui non riesce a leggere il nome. Un fruscio, e una donna che gli sfiora il braccio passandogli accanto, la testa bassa e il suono secco dei suoi tacchi che echeggia sul viale, le gambe nude e pallide sotto il cappotto pesante.
Corso Como è tutto quello che ha sempre odiato. È il volto sfatto di una puttana che accelera il passo e gli occhi vitrei di ragazzini che provano la roba per la prima volta, il tremito che sente dentro, la voglia di urlare che annega nel petto assieme a tutto il resto, perché ormai è stanco, ubriaco, e Milano vince sempre e ti piega le spalle anche quando hai già gli occhi fissi a terra.
La diretta l'ha lasciato senza fiato, con la colpa che sorda si mischia a tutto quello che ha bevuto da quando i Moseek sono stati eliminati, la voglia di tornare a casa persa nell'adrenalina degli applausi che ancora gli echeggiano in testa, in un bicchiere buttato giù troppo in fretta. Addosso restano le sensazioni di quel teatrino, dove dopotutto si ritrova sempre a dimenticare se stesso, perché davanti alle telecamere è qualcuno che guarda il mondo fisso negli occhi, e non c'è un letto vuoto che lo aspetta a casa assieme al peso delle sue colpe. Può fingere, Federico, con Michael che ride accanto a lui e lo tocca troppo, con il niente che gli esplode dentro e le sensazioni sporche di uno stanzino polveroso ancora impresse a fuoco sulla pelle. Quando le telecamere si sono spente, sua madre gli ha stretto forte il braccio e gli ha mormorato qualcosa, una parola di conforto persa in uno sguardo che Federico non è riuscito a sostenere. La voglia di perdersi, di dimenticare, la colpa che brucia in fondo al petto e qualcos'altro che è tutto nell'ultima occhiata che Michael gli ha lanciato, un sorso di liquore amaro lungo la gola e la musica troppo alta di un locale qualunque.
È solo nel buio, Federico, e Corso Como è tutto quello che gli sta scivolando via dalle dita, mentre inciampa nei suoi stessi passi e lotta contro la nausea che gli rode la bocca dello stomaco.
Non sa per quanto cammina, ma ad un certo punto la città torna grigia e la notte profonda, e forse è sulla via di casa o si sta perdendo ancora. Si stringe nella giacca, si appoggia ad un muro e ricaccia indietro un conato di vomito: ha cominciato a piangere e le lacrime sono fredde sulle guance, e per poco non si mette a ridere così, tanto per perdere ancora un po' la voce e sentire la gola grattare un po' più forte.
Fa un più freddo, e una macchina sfreccia ad un passo da lui con gli abbaglianti accesi in pieno centro. Federico la guarda svoltare in fondo alla strada, sbattendo le palpebre pesanti, e la voglia di un'altra birra, di un'altra sigaretta gli trema un istante nel petto.
Quando il telefono comincia a squillare, poggia la schiena contro il cemento freddo e guarda in alto, verso il cielo che si intravede appena dietro gli ultimi piani dei palazzi. Fruga in tasca, cercando il cellulare e quasi lo fa cadere, fissa il display e il nome sullo schermo lo lascia immobile per un istante.
“Pronto?”
“Federico,”
La r troppo marcata, la voce poco più di un sussurro. Federico sbatte le palpebre, preme il telefono contro l'orecchio fissandosi le scarpe.
“Federico, ci sei?”
“Sì,”
Michael sospira, dall'altro capo. Resta in silenzio ed è ancora lì, il vago tremito della sua voce, la punta roca di una stanchezza che Federico quasi riesce a toccare con la punta delle dita sotto gli occhi dell'altro. “Non sapevo se tu potevi rispondere. Pensavo che era troppo tardi.”
C'è una luce accesa, una finestra luminosa nello stabile davanti a lui. Un'ombra riempie il chiarore, e svanisce oltre le imposte chiuse. La luce si spegne dopo un istante.
“Cos'è successo?”
“Dobbiamo parlare, sei a casa?”
Federico si guarda intorno, passa un'altra macchina lungo la strada e il suono gli rimbomba nel cervello assieme allo statico della telefonata. “Tra una decina di minuti ci sono,” e non ne è troppo sicuro, ma il respirare di Michael in mezzo alle sue parole quasi lo sente sulla pelle.
“Vengo da te.”

Ci mette quasi mezz'ora ad arrivare a casa.
Le palpebre gli pesano sugli occhi e la penombra gli scivola addosso appena apre la porta, le gambe che tremano e il mal di testa che preme contro le tempie. Sbatte gli occhi nel buio un paio di volte, e una luce flebile e giallastra riempie di ombre una casa vuota piena di silenzio. Giulia deve aver dimenticato la luce accesa in camera, prima di andarsene.
Federico sospira forte. Il suo telefono vibra un paio di volte e lui non se ne accorge, troppo occupato a fissare il nulla e a cercare se stesso in quel buio fatto di niente che lo circonda, il freddo della città ancora pungente sulle guance anche nel calore che lo avvolge pian piano.
Non riesce neanche a pensare.
Quando si decide ad accendere le luci, il riflesso sulle pareti bianche ferisce gli occhi e toglie il respiro. Si trascina in bagno e fruga nel cassetto alla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa che faccia smettere il pulsare incessante che gli squassa la testa, perché cazzo, non ce la fa più e vorrebbe soltanto svanire.
Intravede nello specchio il riflesso di un viso scavato, gli occhi socchiusi e il pallore della pelle contro il nero delle occhiaie. Neanche si riconosce, Federico, una confezione di antidolorifici stretta nella mano sinistra e uno sguardo pesto che lo fissa dal vetro lucido.
Ha voglia di un caffè. Di una sigaretta. Di vedere Michael, anche se il pensiero gli stringe il cuore in una morsa dolorosa.
Questa storia gli ha mandato a puttane la vita. E' tutto quello che vuole e riesce a pensare, ed è una bugia bella e buona, uno scherzo dell'alcol: ma finché le luci restano accese e il buio non lo inghiotte è fin troppo facile fingere.
C'è una moka mezza piena, dimenticata sul fornello, col barattolo di caffè lasciato aperto sul piano della cucina. Federico la mette a scaldare con un gesto automatico, il rumore lieve della fiamma che rimbomba nella stanza.
Il campanello suona due volte.

Quando si ritrova davanti Michael, il mondo rallenta un po'. Indossa il cappotto elegante sopra vestiti afferrati in fretta, ha ancora i capelli scompigliati incrostati di gel, e un'espressione sul viso a metà tra la stanchezza e il pianto che Federico non gli ha mai visto addosso. Federico lo guarda e nei suoi occhi c'è qualcosa di languido che gli scivola sulla pelle e diventa anche suo.
Forse è paura. Forse è rassegnazione.
Non ci capisce più niente.
“Non ero sicuro se venire,” dice piano.
Federico annuisce, abbassa occhi fissandoli sul piattino che sta usando come posacenere, e Michael gli sembra quasi fuori posto in quella cucina, dove le foto di lui e Giulia sono ancora attaccate all'anta del frigorifero. “Ho scaldato il caffè,” e Michael lo guarda con le sopracciglia aggrottate.
Fa un paio di passi avanti, il calore della sua pelle improvvisamente così vicino da fargli girare la testa. C'è puzza di fumo, in quella stanza dove per un istante i loro respiri restano in bilico, e la cenere della sigaretta cade a terra.
“You're wasted.”
“Eh?”
“Tu hai bevuto. Sei ubriaco.”
Sospira, Federico. Spegne la sigaretta senza prendere l'ultima boccata, e Michael forse gliela legge negli occhi quella stanchezza che è anche la sua, il peso di ogni cosa che li schiaccia a terra e non li fa più respirare.
“Cosa sei venuto a fare qui?”
“Non parto più con Andy domani,”
Michael si tortura le labbra, si passa di continuo una mano tra i capelli. “Io gli ho detto che non volevo partire. Noi,” si ferma, come a cercare le parole “lui non se lo merita, e neanche Giulia. Ma ho detto che non volevo partire.”
Federico guarda l'altro e si convince che non è vera la stretta che sente intorno al cuore. Lo guarda, e vede quegli occhi ambrati stanchi ed arrossati che lo fissano liquidi, le mani che tremano perché vorrebbe sfiorargli il viso e non riesce neanche a muoversi. Il caffè comincia a puzzare di bruciato, e l'odore gli riempie la gola come se volesse soffocarlo.
“Io non la amo più Giulia.”
Dirlo è strano, con quegli occhi che lo fissano come se cercassero qualcosa, il silenzio che cade tra loro e Michael che socchiude le labbra, che fa per dire qualcosa e non ci riesce. Federico non lo guarda e si volta per spegnere il fornello, perché l'odore è insopportabile e tanto ormai è tutto da buttare via.
Spera solo di non aver rovinato la moka.
Michael fa un altro passo avanti. Gli sfiora una spalla e la stringe appena, come se avesse paura di fargli male. La sua voce è un sussurro roco che gli scivola sul collo, il calore del suo respiro sulla nuca. “Non è giusto.”
È quello che Michael non dice, che resta tra loro. Le parole che non vuole pronunciare, perché Andreas dopotutto ancora lo aspetta a casa, anche se il cuore gli esplode nel petto, e Federico lo sa. Lo sente nel modo con cui la sua mano gli scivola sul braccio e nel tremito che non riesce a nascondere.
“Stai qui,” dice soltanto, e questo basta.

Maybe then I'll fade away and not have to face the facts,
it's not easy facing up when your whole world is black.

No more will my green sea go turn a deeper blue
I could not foresee this thing happening to you.
If I look hard enough into the setting sun
My love will laugh with me, before the morning comes.


Note: 
Come avrete capito mantenere le promesse non è il mio forte. 
Sono consapevole di essere una persona orribile, e credetemi quando vi dico che non intendevo affatto dare una cadenza mensile a questa storia. Non ho perso nè la voglia nè la motivazione: soltanto, la vita vera a volte vuole troppo, e se a questo aggiungete il fatto che "Blocco dello scrittore" potrei anche tatuarmelo da qualche parte tanto mi rappresenta avrete tutti i motivi per cui ci metto tanto ad aggiornare. (E quella santa di emitea lo sa, e non finirò mai di ringraziarla per la sua pazienza, le sue virgole, e i suoi consigli. Beta migliore non potevo trovarla.) 
Detto questo, scusatemi. 
Questo è il penultimo capitolo e a me gira la testa. La scena dello stanzino mi terrorizzava nonostante fosse quella che più avevo voglia di scrivere, perché le scene di sesso sono il mio grande tallone d'Achille assieme ai dialoghi, ed è proprio faticoso per me riuscire a cavare un ragno dal buco. Il rating arancione è un po' una paraculata, così posso dare la colpa al fatto che non devo andare troppo nello specifico. Uno si arrangia come può. 
In realtà non ho molto da dire su questo capitolo. La cosa che più mi preme è la citazione, che questa volta ho fregato ad un altro dei miei autori preferiti. La prosa di Hemingway e la sua capacità di condensare in quattro parole mille emozioni sono cose che una logorroica come me non può che invidiare senza pudore. 
Ma d'altra parte, tutti gli aspiranti scrittori dovrebbero invidiare Hemingway. 
La canzone invece è stata una sorpresa anche per me. Ne ho scartate due prima di arrivare a questo punto, e quella che alla fine ha dato il titolo al capitolo non ve la devo presentare certo io. Paint it Black è una delle canzoni più famose dei Rolling Stones, e l'ho scelta apposta per quei versi che vedete riportati nel testo. 
Per farmi perdonare del ritardo con l'aggiornamento, vi informo ufficialmente che sì, il prossimo capitolo sarà l'ultimo, ma scriverò anche un epilogo. 
Grazie a tutti quelli che ancora seguono questa storia. 
Un bacio, e alla prossima.

 

 

 

  
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