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Autore: Kimmy_90    14/02/2016    1 recensioni
La Regio è salda da millenni, sostenuta da una forte e solida gerarchia meritocratica: in cima, i Philosophi, sotto, la Gens. In mezzo v'è la colla della Regio, i Custodes, a guida delle milizie. Vestiti di nero, hanno il volto scuro e le mani chiarissime. Puliti, alti, statuari.
I bambini li chiamano Ombre.
Le Ombre prendono i bambini.
E mentre la società rimane ferma, inamovibile, la tecnologia avanza – tanto lenta quanto inesorabile, fino al punto di non ritorno.
Il rinculo.
Ecco cosa significava davvero.
La spalla che sussulta. La presa che sembra sfuggire.
L’impulso.
Odore di bruciato, e di metallo rovente.
Saeb lasciò che lo guardassero, mentre si calmavano. Un rumore del genere non lo avevano mai sentito, se non durante un temporale. Ma quella era la natura.
Miran, invece, fra le mani serrava un oggetto puramente umano. Preciso e geometrico come solo l’ingegneria della Regio sapeva fare.
“Questo.” disse poi il Rector, facendosi sentire da ognuno di loro “Era uno sparo.”
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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8. Faber est suae quisque fortunae




Aveva imparato a dirlo nelle occasioni più disparate.

Principalmente, perché prima lo avevano detto a lui.

“Faber est suae quisque fortunae!”

E gli stivali che finivano sopra il tetto dei due stelle. Mai lasciare incustoditi gli stivali, mai: le strisce gialle non facevano altro che aspettare di trovarne un paio per poi farli sparire.

Se al secondo anno bisognava vedersela con i propri coetanei, dal terzo in su arrivavano anche i più grandi – con le loro lezioni. Miran aveva imparato a custodire bene la borraccia, troppo orgoglioso per andare dai Magistri a svelare la sua negligenza – ma quando s’era ritrovato a piedi nudi in mezzo al fango ci aveva pensato seriamente, di chiedere aiuto.

Per fortuna era troppo gonfio di se stesso per compiere un’ingenuità simile.

“Faber est suae quisque fortunae.” aveva detto il vecchio responsabile del dormitorio, andando a recuperare gli stivali nuovi. “Ciò che ti è affidato è sotto la tua responsabilità, tre stelle. Questo è un richiamo.”

Non serviva essere geniali per capire che chiedere aiuto ai Magistri altro non avrebbe che generato un ulteriore richiamo – il che significava una visita assicurata dal gatto.

Non poco tempo dopo – “Faber est suae quisque fortunae, Agricola” – aveva detto un Magister a un suo compagno, cui era stata sottratta la sopravveste e s’era azzardato a chiedere aiuto all’insegnnte. “Vai e fattene dare un’altra, e poi presentati allo stanzino delle punizioni.”

Il gioco continuo del gatto e del topo valeva per tutti, al Ludus: i più grandi contro i più piccoli, i Magistri contro tutti.

Era un nonnismo articolato, strutturato per consolidare la gerarchia da un lato, il carattere dall’altro. Sempre insisteva quella frase, che prima aveva detta l’Helios, poi veniva ripetuta agli esami, e infine Miran stesso aveva imparato a dire, ai più piccoli, quando si ritrovava a rubar loro, a sua volta, gli oggetti personali incustoditi.

Faber est suae quisque fortunae. Impara a tenere conto delle tue cose, Agricola.”

Taluni trasudavano sprezzo, altri, come Miran, erano semplicemente entrati nel ruolo di educatori.

E non v’era modo di sottrarsi a quello schema, come Alir fece vedere a Miran.

Alir.

Com’era che ancora stava al Ludus, Alir?

“Ehi, tu! Quattro stelle!”

La bambina s’era immobilizzata, girandosi poi verso il Magister che l’aveva richiamata: la serietà che come molti s’era imposta sul volto era svanita di colpo, lasciando spazio a quell’insicurezza che Miran ricordava ancora d’aver visto, anni prima, all’inizio di tutto – nella stanza bianca dove tutti ancora altro non erano che bimbi con delle grandi tuniche addosso, seduti, ad aspettare.

“Sei cieca o cosa? Vieni qua – ehi, tu! Striscia viola! Fermati!”

La striscia viola, che camminava di qualche metro davanti ad Alir, si arrestò con un sussulto. Miran, a una decina di metri da loro, rallentò il passo per capire la scena.

“Il Nomen?” chiese il Magister.

“Alir.”

“Mhana1

“Un richiamo a testa, e vediamo se arrivate subito a due.”

Alir si irrigidì, mentre Mhana stringeva, colpevole, le labbra.

“Quante stelle vedi sulla veste di questa striscia viola che ti camminava a pochi centimetri dal naso, eh, Alir?”

“Due.” rispose la bambina.

“E quanti anni ha costui?” chiese ancora il Magister, retorico.

“Otto.”

“E quindi, Agricola?”

La striscia viola, intanto, si ingobbiva sempre più mentre cercava di nascondere le maniche della sopravveste.

“Quindi –” Alir però non tentennava, per quanto il fiato le venisse meno. “– o gli manca un campanello, o gli manca una stella. Delle due l’una.”

Miran ormai sfilava lento di fianco a loro. Si lasciò scappare parole che avrebbe imparato a tener per sé: “Io quello non l’ho mai visto col campanello, è un tre stelle – se n’é sicuramente persa una per strada.”

Vide un sorriso compiaciuto allargarsi sul volto del Magister. “Bene.”

Bene?

“Vedo che a te le frustate non bastan mai – ormai ti conosciamo, noialtri, Miran. Vedi di non intrometterti negli affari altrui.” sibilò. “Vattene e fatti trovare alla quinta ora alle punizioni, Agricola!”

Faber est suae quisque fortunae.

“Alir, tu devi richiamare uno più piccolo che si comporta da Agricola, vedi di mettertelo bene in testa. Non può camminarti davanti al naso una striscia viola con due stelle e nessun campanello senza che tu faccia alcunché. E tu –” si voltò verso Mhana “– agricola, al terzo anno ancora non sai gestirti la sopravveste?”

Come finì, Miran non ebbe modo di sentirlo – colto il messaggio, si defilò prima di aggravare ulteriormente la situazione.

Riuscì solo, in lontananza, a sentire la solita frase: “Faber est suae quisque fortunae.

Richiamare i più piccoli era diventata parte integrante dell’esser studente: significasse questo far sparire dei vestiti o, non più raramente, alzare le mani su chi esagerava troppo nell’uscir dagli schemi.

Chi magari aveva il coraggio di mettersi contro uno più grande.

Chi, come lui, si avventurava non di rado in luoghi che non gli erano permessi.

Miran le aveva prese come le aveva date: faber est suae quisque fortunae aveva iniziato a dirlo anche lui, chiudendo il circolo.

Era una frase che gli piaceva. Sul senso, reale, di quelle parole in Lingua Antica – non ne sapeva granché. Non fino al quinto anno: solo allora conosceva abbastanza parole e abbastanza grammatica per mettere tutto insieme.

Faber. Faber era il fabbro, colui che fa, che crea, che agisce. Era una bella parola, a Miran piaceva molto. E adorava sentirla all’inizio della frase, come richiedeva la Lingua Antica – e non in mezzo, come si usava nella Lingua. Faber, prima di tutto. Azione, prima di tutto. Non chi, non come. Faber e basta. Gli sarebbe bastato sentir quella sola parola, per riempirla del significato che poteva avere.

Quisque, poi, significava ognuno. Nessuno escluso. Lui, i più piccoli, i più grandi, i Magistri, inclusi gli Undecim.

Fortunae.

Non si poteva tradurre, fortunae. Futuro, forse. Fortuna? No, la fortuna era una cosa da agricolae, non li riguardava. La fortuna della Lingua Antica non aveva nulla a che vedere con la fortuna della Gens: la seconda era data dal caso, dall’esterno, immeritata. La prima era solo e unicamente il prodotto delle loro azioni.

Faber est suae quisque fortunae, ognuno è artefice di se stesso. Di ciò che diventerà, che farà, di cui sarà o non sarà capace.

L’esame dipendeva da loro e da loro soltanto, nessuna scusa.

Faber est suae quisque fortunae era anche ciò che Miran si ripeteva dopo ogni esame, ogni anno, sgattaiolando verso l’anfiteatro del pian terreno, dove l’Helios parlava ai nuovi bambini, tutti in potenza e in divenire nello stesso momento.

Faber est suae quisque fortunae era la risposta che aveva preso a dare sistematicamente a Isia o chi per lui, quando iniziarono a notare la sua strana affezione per il gatto. Ancora qui?

Faber est suae quisque fortunae.

Era la cantilena con cui intratteneva la mente, ogni anno, fissando il campanello ed attendendo che scomparisse nella conca.

Cinque stelle di qua, una striscia rossa di là, lui ripeteva e ripeteva quella frase. Il tempo che poteva impiegarci quel maledetto campanello a scomparire poteva sembrare infinito, a volte.

Ma come per le frustate, aveva la certezza che ci sarebbe stato un termine. Non sarebbe rimasto lì per sempre – di questo era sicuro.

Aveva atteso.

Atteso.

Atteso.

Alla fine della quinta ora erano in cinquanta: quieti e pazienti, i primi brividi d’insicurezza nascosti dietro respiri profondi e qualche abbozzo di sbadiglio, gli occhi arrossati dalla stanchezza che iniziava a farsi spazio, aiutata dalla debilitazione che si lasciava dietro l’adrenalina.

Alla seconda fascia della mezzanotte, Miran ne contava trentasette.

Avrebbe aspettato sino all’alba – era successo. Poteva farlo.

Sarebbe finito.

Faber est suae quisque fortunae.

Il Magister si alzò in piedi.

Questo era inaspettato.

“Bene. Basta. Voi siete stati bocciati.”



***


Cosa farai, esattamente, al bambino che tra qualche anno, primo, t’ingannerà, entrando fiero, sano e saldo al Ludus, per poi voltar le spalle dopo poco tempo, per ritornare fra la Gens, da dov’è venuto?

Guardò a lungo Saan, senza un fiato. Di tutti i pensieri che le occupavano la mente, non uno poteva esser detto ad alta voce. Non lì.

Non davanti a Saan.

“Serve una perizia psicologica.” asserì infine, salda.

Saan annuì.

“Ti manderò dai pedagoghi con cui lavoro, di modo che possano interpretarla e confrontarla con la situazione iniziale.”

“Mi stai facendo fare il lavoro di un tutore, così, Shi’ran.”

“Nulla a che vedere con un tutore.” Spiegò, metodica. “No, Saan, ti sto suggerendo di fare il lavoro che avrei fatto io. Ma Miran è sotto la tua cura: così ha detto l’Helios, e ciò non si discute. Nondimeno, comunicherò con lui riguardo questo sviluppo.”

Saan annuì nuovamente.

Il volto inflessibile della donna poneva un inamovibile muro fra l’esterno e il trambusto del suo frenetico elaborare.

Miran. Ad Atro sarebbe piaciuto: ogni sua azione lo diceva Custos. Ogni sua fibra.

Quel bambino era nato per il Ludus.

Era perfetto.

Cos’era successo, allora?

Tutto quel lavoro, tutto quello studio e la ricerca – tutte quelle menti, avevano predetto il falso?

Rischiava di perderlo?

Ferma, Shi’ran. Ferma.

Non ha ancora abbandonato. Non è detta l’ultima parola.

Ma se Miran lasciava il Ludus, avrebbe dovuto rivedere tutto il suo protocollo di selezione.

Bambini.

Aveva appena ricominciato a detestarli.


***


Miran si accorse di aver espirato troppo a lungo. Riprese rapidamente fiato, mentre cercava di elaborare cosa significasse quanto aveva appena sentito.

Bocciato.

“Aenithé2!” chiamò il Magister.

“Sì!”

“Vuoi proseguire gli studi al Ludus?”

Silenzio.

“No.” disse Aenithé.

La mente di Miran era bloccata.

Cosa significava la bocciatura? Non ci aveva mai pensato.

“Amdha3!”

Nessuno di loro ci aveva mai seriamente pensato.

“Sì!”

Finché non succedeva, non era cosa che li potesse riguardare.

“Vuoi proseguire gli studi al Ludus?”

No, non loro.

Forse il vicino di banco. O quel ragazzino dall’aria incredibilmente tonta – sì, forse quello finalmente si sarebbe levato dai piedi. Forse sarebbero stati in venti, i bocciati, o in duecento.

Ma non loro.

“No.” disse Amdha.

Loro erano studenti del Ludus. Non potevano essere bocciati.

“Crjina4!”

Loro non erano gli altri.

“Esel5!”

Per quanto ogni esame potesse esser sostenuto con l’adrenalina alle stelle, tesi come la pelle di un tamburo nell’attesa del risultato, questo non significava che l’idea di poter fallire fosse mai stata presa in considerazione da alcuno di loro.

“Goaga6!”

Non poteva essere.

“L’hur7!”

Non loro.

“Malani8!”

Non io.

“Miran!”

L’appello dei bocciati scorreva in fretta, mentre la testa di Miran galleggiava nel nulla. No. No. No. Aveva sentito una miriade di no.

Si arrendevano, dunque?

Era questo quello che si aspettavano da loro, giunti al fallimento?

“Sì!” rispose al Magister, leggermente in ritardo.

“Vuoi proseguire gli studi al Ludus?”

Quante volte gli avevano posto quella domanda? Quanti gatti, negli anni scorsi, quante punizioni – e quel maledetto mal di pancia, sì, ancora lo ricordava: macchiato dell’accusa di essere un bugiardo – così? Per nulla?

Per fermarsi davanti a uno stupido campanello?

Urlò.

“SÍ!”

E sentì tutta la rabbia uscire in un colpo solo, il sangue al volto, viola. Il fiato grosso.

Si accorse di aver stretto i pugni, e quasi sputato nella foga.

Il Magister non si spostò.


Fu l’unico, in quella notte, a restare.


“Coloro che hanno deciso di rimanere, quest’anno, manterranno la propria camera.” Spiegò il Magister all’aula, ignorando deliberatamente il fatto che stesse parlando per una sola persona. “Devono cucire il campanello all’esterno del collo della loro sopravveste, sul lato sinistro: deve essere visibile e mobile. Deve fare rumore. Troveranno in camera un pacco con delle nuove camice. Per il resto, tutto come prima. Chi abbandona gli studi, invece, mi segua.”

Miran scese lentamente i gradini, il campanello in mano: ogni tanto lo scuoteva, ascoltandone il suono.

Fra il secondo e il terzo anno, di bambini con il campanello, ne aveva incontrati. Sapevano tutti che erano bocciati. Il campanello serviva proprio per far sapere.

Quei bambini, dopo qualche mese, erano spariti. A eccezione di una, che però si guadagnò anche il secondo campanello. A quel punto, anche lei scomparve.

La verità era che non ci aveva mai fatto particolarmente attenzione, ai bocciati. Erano pochi, rari: sembrava che non fosse possibile proseguire gli studi con un campanello addosso. Li aveva evitati e basta, come facevano tutti. Come spesso succedeva, aveva agito senza rendersi ben conto delle situazioni: non si era mai posto il problema di cosa portava i bocciati a lasciare e tornare dalla propria Gens.

Forse il venir bocciati era sintomo di debolezza. L’aveva liquidata così, all’epoca.

Era stato un nesso logico convincente, finché non era successo a lui. Lui non era debole.

Lui usciva sempre vincente dalla saletta delle punizioni.

Avrebbe dovuto solo ripetere gli studi dei cinque stelle, in fondo. Non sembrava una cosa impossibile.

A ben pensarci, però, nessuno ci era riuscito.

Miran non comprese quello che stava provando. Confuso, a fatica interpretava i suoi stessi pensieri – figurarsi le emozioni.

Qualsiasi cosa fosse quella cosa che gli stava alitando sul petto, la mise a tacere sprofondando nel sonno.


Si svegliò di soprassalto, dopo forse venti minuti di riposo, trafitto da un orribile pensiero: aveva dimenticato la sua borraccia in aula – l’aula dei sei stelle, dove aveva sostenuto l’esame e dove non sarebbe tornato per un anno.

Agricola.

In mutande e canottiera si buttò addosso la sopravveste, e s’infilò gli stivali alla meno peggio: nel trambusto, il campanello gli rotolò sotto il letto, tintinnando. Lo raccolse, ficcandolo in tasca, e così vestito usc dalla sua stanza. Chiudendo tutto il cappotto nessuno poteva intuire che fosse senza pantaloni – e comunque era ancora notte fonda. Non contava di incrociare molte persone. A dieci anni era ormai libero di andarsene a zonzo quando voleva: stava a lui gestirsi le ore di sonno. Se credeva che non dormire fosse una cosa furba, buon per lui – dicevano i Magistri.

Miran conosceva i dintorni del Ludus a menadito, e la luce della luna calante gli era più che sufficiente per trovare la via verso la Sphaera. Anzi, avrebbe potuto farlo a occhi chiusi: la raggiunse in una decina di minuti.

Tutte le entrate, a quell’ora, erano chiuse. C’era però un trucco, di cui ormai era a conoscenza da qualche anno: una piccola leva, ben nascosta alla vista, consentiva di sbloccare una delle porte secondarie – quella rivolta a sud.

Non era il solo a sapere di quel meccanismo, anzi: lo aveva appreso origliando da una tavolata del quarto anno quand’era ancora un tre stelle: nel tempo, lui e altri avevano imparato che fintanto che non si facevano cogliere in flagrante, non c’era nulla di male nell’entrare di soppiatto nella Sphaera.

Anche perché, gli avevano spiegato quand’era una fascia rosa, tutta la zona era videosorvegliata: sapevano, i Magistri. Ovvio che sapevano.

Ma non era quello, il punto. Il punto era non farsi beccare.

Lì stava tutto il gioco.

Tastò a lungo, prima di trovare la leva in questione – ma finalmente il meccanismo scattò: poteva entrare.

Si sfil gli stivali – la cui suola, sui pavimenti marmorei della Sphaera, avrebbe fatto troppo rumore. Li prese per due fibbie, di modo da impegnare solo una mano, e procedette a piedi nudi lungo il corridoio, su per le scale – verso l’aula.

Affacciatosi furtivamente alla porta, si ritrovò, nel buio, a incrociare lo sguardo con un altro studente.

Miran levò le sopracciglia, sorpreso: non era un suo coetaneo. Non lo aveva mai visto, a lezione. Sentì subito montare l’affronto: una striscia rosa nell’aula dei sei stelle – anche se erano nel bel mezzo della sesta ora, questo non rendeva la cosa legittima. Indipendentemente dal fatto che lui fosse stato appena bocciato – e quindi, a sua volta, si trovasse nell’aula sbagliata.

“Cosa stai facendo?” sibilà all’altro bambino, avvicinandoglisi. “Vattene. Non avete il coprifuoco, voialtri?”

Quello, seduto sulla cattedra con la sopravveste addosso e i piedi scalzi a ciondoloni, fece spallucce: “Non più.”

“Sei comunque nell’aula sbagliata, striscia rosa.”

L’altro tacque: guardò Miran per qualche istante, e poi mise la mano in tasca. Sulle prime, Miran non aveva notato il rigonfiamento. Il bambino estrasse la sua borraccia, mostrandogliela: “Questa è tua?”

Miran annuì.

“Perché hai una borraccia personale?”

“Non è affar tuo. Dammela, così posso tornare a dormire.”

L’altro non sembrava voler collaborare. Non si mosse, continuando a guardare Miran. Sapeva perfettamente di aver appena accumulato un enorme vantaggio: qualunque cosa volesse fare, ne avrebbe largamente approfittato.

“Qual è il tuo Nomen?” domandò.

“Miran.”

“Jukka9. Eri qui, oggi?”

Miran lo scrutò torvo. Nell’ombra, poteva intuire che avesse i capelli castani. Come la maggior parte di loro, portava un taglio medio corto, su di un volto insolitamente scavato. Ogni tanto gli vedeva tirare le labbra verso destra o verso sinistra.

Decise di non rispondergli, aspettando che quello ci arrivasse da solo; appoggiò gli stivali per terra, accanto a sé, libero così di incrociare le braccia.

Dopo un po’, Jukka continuò: “Sei un sei stelle, quindi?”

Miran persever nel non rispondere.

“Allora?”

“Dammi la borraccia.”

“Perché?”

Miran sfiatò, irritato come poche altre volte.

“Non sei un sei stelle.” sentenziò quello, beffardo. “Hai un campanello in tasca.”

Miran portò istintivamente la mano alla tasca, dove giaceva il campanello. Come...

“Non vedo l’ora di dirlo agli altri, che c’è un bocciato. Giocheremo a chi indovina quando te ne vai.”

Come accidenti aveva fatto a saperlo? Miran scrutò la cattedra, chiedendosi se non fosse rimasto un elenco dei bocciati da qualche parte. Ma no – i Magistri non lasciavano documenti sensibili alla mercé degli studenti.

Sbuffò.

Jukka non era il primo che cercava di rubargli la borraccia – solo che di norma erano i più grandi, a farlo, mentre i suoi coetanei avevano da tempo imparato che non c’era verso di sottrargliela. Non più.

Lo squadrò, chiedendosi con quale sfacciataggine si fosse messo a provocare uno più grande di lui. L’unica risposta che gli sovveniva era che fosse in cerca di gloria – che si sarebbe potuto guadagnare solo venendo alle mani. Ordinaria amministrazione, ma non da farsi nel cuore della sesta ora.

“Ho sonno.” cercò di tagliare Miran. “Piantala, e dammi la borraccia.”

“Vieni a prenderla.”

“Cosa vuoi, striscia rosa?” sbottò, alzando la voce. Un po’ troppo.

I due si irrigidirono, domandandosi se qualcuno li avesse sentiti. No, non c’era nessuno.

Passato l’istante di tensione, in cui smisero di guardarsi per focalizzarsi sugli eventuali rumori circostanti, Jukka fece spallucce.

“Dimmi cosa vuoi in cambio della borraccia.” Provò allora Miran.

Jukka fece di nuovo spallucce. Non c’era molto che l’altro potesse dargli.

Non erano pratici, a barattare.

“Facciamo a botte.” Disse Jukka, alla fine.

Quel che voleva evitare.

“Qui? Adesso?” chiese lui, sempre più scocciato. Voleva risparmiarlo, e quello chiedeva esplicitamente di mettersi a lottare.

“Sì.”

Contento lui.

“... come vuoi.”

Jukka scese dalla cattedra: in piedi, di fronte a Miran, si svelò essere leggermente più alto di lui. Sapeva di non essere un colosso, ma non si aspettava che uno di un anno più piccolo potesse superarlo.

Ecco perché Jukka voleva fare a botte – di sicuro era il pi grosso della sua annata: sorrise, spavaldo.

Miran iniziò a togliersi la sopravveste, ripiegandola accuratamente – facendo molta attenzione a tenere la tasca con il campanello all’interno, o avrebbe rischiato di perderlo. Non appena aprì il cappotto, Jukka prese a sghignazzare.

“Bhe?” chiese Miran, irritato “Non vi siete mai visti in mutande, voialtri?”

“Certo, certo!” esclamò l’altro, svestendosi a sua volta “Rido perché sono in mutande e canottiera anch’io!”

Miran finì col sorridere, divertito. Posò con cura la sopravveste sugli stivali, allontanandosi poi dalla cattedra: fra quella e la prima bancata c’erano circa cinque metri, in cui avrebbero potuto pestarsi liberamente. La borraccia era rimasta sul tavolo: accanto a essa, Jukka appoggiò i suoi vestiti senza piegarli. Rimasero entrambi con la sola biancheria addosso – scalzi, praticamente mezzi nudi. Un velo di pelle d’oca si spalm sulle loro braccia.

Miran osservava attento i movimenti dell’avversario, flettendosi e portando la gamba sinistra in avanti – assieme al busto. Appoggiò le mani sulle ginocchia: l’altro, a due metri da lui, assunse una posizione simile. Si studiarono, i muscoli tesi.

Jukka poteva avere un fisico pi grosso e forse anche più maturo del suo, si disse Miran, ma lui aveva comunque frequentato un anno in più al Ludus. Una bocciatura non poteva annullare quanto aveva imparato nei mesi precedenti.

“Contiamo insieme fino a tre.” Propose quello.

“Vedi di non contare come un agricola.” Lo provoc Miran, caricandosi.

“Uno.”

“Due.”

“TRE!”

Jukka gli si avvent addosso, più che convinto che Miran avrebbe fatto lo stesso e del tutto intenzionato a sopraffarlo con la sua massa. Ma Miran aveva altre priorità: non sarebbe stato al gioco di uno più piccolo. Fece finta di avanzare – per poi scansarsi all’ultimo, cercando di afferrare Jukka per la canottiera: lo fece sbilanciare, lanciandolo a terra. Facile, dato che quello aveva caricato come un toro.

Jukka era più piccolo, ma non così sprovveduto: appena si rese conto che stava perdendo l’equilibrio afferrò l’altro per il polso e cerc di tirarlo gi con lui. Miran lo segu senza opporre resistenza, atterrandogli addosso – con una ginocchiata ben piantata in mezzo allo sterno: Jukka mollò la presa, sfiatando, e il ragazzino fu libero. Con uno scatto raccolse al volo stivali e sopravveste, si lanciò sulla cattedra di pancia, recuperò la borraccia, scivolò, rotolando, giù dall’altro lato del tavolo e si mise a correre fuori dall’aula. In tutto questo Jukka cercò almeno di afferrarlo per la caviglia – ma mancò la presa.

Non lo rincorse nemmeno.

In fondo se l’era andata a cercare.


Miran aveva beneficato di ben trenta minuti di sonno: allo scattare della sveglia, che squillava acuta per tutto il dormitorio, dovette prendere una decisione difficile: svegliarsi o non svegliarsi?

In fondo poteva saltare le lezioni. E poi le aveva gi seguite tutte.

Nei giorni a venire si sarebbe annoiato come non mai, temette.

A fatica si mise a sedere nel letto, gli occhi ridotti a due fessure: no, sarebbe andato. Anche perché saltare gli allenamenti significava rischiare di perdere la forma fisica.

Non sarebbe stato così agricola da starsene in panciolle – tanto valeva abbandonare gli studi.

Si buttò a fatica dentro la doccia, facendo scendere un getto volutamente gelido.

E poi quel giorno arrivavano quelli del primo anno. Oh.

S.

C’era Helios. Avrebbe perso le lezioni del pomeriggio per quel suo vizio di andare a sentire tutte le cerimonie d’inizio Ludus – senza mancare una visita a Isia, o chi per lui, subito dopo; non si sarebbe potuto permettere di perdere anche le attività del mattino.

Una volta ben lavato e asciugato si vestì, dandosi una rapida spazzolata ai denti. Le nuove camice non erano molto diverse da quelle normali – bianche e con il collo dello stesso colore della sua striscia – se non per i polsini, grigi. I polsini si portavano piegati sopra il maglione, nero, e quindi rimanevano visibili. Così, quand’anche si fosse tolto la sopravveste, si sarebbe capito che era stato bocciato. Fortuna che almeno le tenute da allenamento non subivano modificazioni… a meno che d’ora in avanti non avesse dovuto sempre allenarsi con la sopravveste addosso – ma gli sembrava un’assurdità. Gi portarla d’estate era una tortura – la temperatura arrivava a venticinque gradi centigradi – figurarsi farci dell’attività fisica.

No, non ricordava che gli altri bocciati che aveva incontrato facessero ginnastica con la sopravveste. Meno male.

Prese la borraccia, bevve i suoi tre sorsi della prima ora e uscì dalla camera.

Il campanello, che aveva cucito quella stessa notte, tintinnava ad ogni passo.

Capì ben presto la portata della sua situazione.

Lungo i viali, man mano che avanzava, gli altri studenti si voltavano immediatamente verso di lui, per poi cercare di allontanarsi. Quel dannato tintinnio gli stava logorando il timpano sinistro – un certo punto si coprì l’orecchio con la mano.

Non che potesse andare sempre in giro così. Avrebbe dovuto abituarsi.

Al refettorio ottenne una serie di sguardi perplessi da tutta la tavolata: Jukka doveva aver già sparso la voce. C’era della superiorit, sui volti dei cinque stelle, che non aveva nulla a che vedere con quella dei ragazzini più grandi: i secondi si appellavano all’età, una questione anagrafica incontrovertibile, e di cui in fondo nessuno aveva colpa. Quelle strisce rosa, invece, ritenevano palesemente di essere migliori di lui. Questo dicevano le loro espressioni.

Lui era stato bocciato, loro no.

A loro non sarebbe mai successo – questo pensavano. Cosa faceva ancora lì quell’agricola? Se aveva fallito un esame, era chiaro che il Ludus non fosse il suo posto.

Gli avevano appuntato un campanello al collo, neanche fosse una vacca col campanaccio, proprio per ricordarglielo. Possibile che non avesse recepito il messaggio?

Che scempio.

Miran era un reietto.

Il Ludus non lo avrebbe mai cacciato, ma di sicuro non lo avrebbe fatto sentire a suo agio né lo avrebbe incoraggiato a proseguire.








[1] Pronuncia: Màana

[2] Pronuncia: Æniθé (θ è il suono th della parola inglese thistle, a metà fra un f e una t)

[3] Pronuncia: Amdà

[4] Pronuncia: Criinà

[5] Pronuncia: Esèl

[6] Pronuncia: Gòaga

[7] Pronuncia: L’ùr

[8] Pronuncia: Màlani

[9] Pronuncia: Iùkka



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Nota dell’Autrice



Ciao a tutti e grazie per esser ancora qui.

Un ringraziamento a Metabarone che ha metodicamente letto e recensito ogni capitolo, a cui devo parte della riscrittura di questo capitolo qua, avendomi permesso di capire che c’erano delle cose di cui non avevo parlato abbastanza a fondo. Il taglio che ha acquistato, alla fine, mi piace – spero di non esser caduta nell’enciclopedico, ho cercato di stare più leggera possibile.


Con l’entrata in gioco di Jukka passa la prima fase della vita di Miran e inserirò un bel po’ di interazione in più fra i bambini, di cui ho dato solo degli accenni. Mi scuso per la sfilza di nomi, principalmente inutili, che ho messo – ma penso ci andasse. Jukka invece è importante :) Dal prossimo capitolo sarà un altro tipo di gioco, spero di riuscire a gestirmelo bene e di non rompere la continuità.


Ciao a tutti e grazie ancora, siete un gran supporto, anche solo con un “+1” fra seguite o ricordate ^_^


Pandi


   
 
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