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Autore: Flora    15/02/2016    3 recensioni
Cerca di gridare – e sente l’eco riflessa della sua voce, ma non la sua voce. È questa, la notte che cala sugli occhi?
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India, regione malliana. Il Re è ferito, forse morente. Mentre Alessandro lotta per sopravvivere, Efestione deve affrontare l'attesa più lunga della sua vita.
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Ho nostalgia di te. L’ho sempre avuta, anche prima di incontrarti. Come si può volere così tanto qualcosa che ancora non si conosce? Tu lo sai, Alekos? Lo senti questo richiamo?
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Questa storia fa parte del mio ciclo di racconti su Alessandro il Grande.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
Capitoli:
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Ghé.




Non c’è stato bisogno di far presidiare il fiume: l’intero esercito si è radunato a fissare l’acqua, come se la corrente impetuosa fosse una fune di sicurezza tesa verso di loro e in grado di riportarli a riva. E forse è proprio così, riflette Hephaistion mentre continua a cavalcare avanti e indietro lungo l’argine, osservando gli uomini schierati ordinatamente sotto il sole.
Ha impartito il comando perché era la cosa giusta da fare, ma nessun soldato si è sottratto al suo dovere, non certo quel giorno.
E quando le navi sono state finalmente avvistate, al largo della confluenza, tutti hanno saputo – e hanno creduto.
Non è stato necessario annunciare l’adunata: le truppe si sono allineate spontaneamente lungo le banchine, le donne e i bambini che accorrono da ogni angolo dell’accampamento, urlando e schiamazzando.
Stava controllando lo stato delle provviste insieme a Ptolemaios quando è giunta la notizia, e insieme si sono fatti strada tra i ranghi fino al pontile, dove Krateros stava già aspettando, scalpitante e nervoso come un vecchio stallone.
Anche Hephaistion sente la tensione corrergli dolorosa lungo la spina dorsale – i soldati l’hanno anticipata, scossi da un fremito che li fa vibrare come la scarica di una tempesta estiva.
Stanno tutti fissando le navi che si avvicinano assieme al loro carico: il Re, restituito alla sua gente dal fiume che li ha tenuti separati, o solo un cadavere muto e freddo da consegnare agli imbalsamatori. Nessuno ne ha parlato a voce alta, ma la domanda la può leggere inespressa nei loro occhi e nello spasmo delle bocche e delle mani.
Hephaistion sa che è vivo – ne è certo come che il sole continuerà a sorgere e la luna a tramontare, portando la marea. Ci sono verità incontrovertibili nel mondo naturale, come avrebbe detto Aristoteles – ogni altra cosa non è pensabile e Aleksandros è sempre stato una forza della natura. Eppure, non può fare a meno di piantarsi le unghie nei palmi come un ragazzino ansioso incapace di mantenere la calma.
Le imbarcazioni sono abbastanza prossime da scorgere le tre file di rematori vogare in direzione della sponda, e udire gli ordini del trierarca sul ponte, che prepara gli uomini per l’attracco.
Abbastanza vicine da poter vedere il Re.
Il suo corpo giace su una lettiga posta sopra un rialzo della trireme principale, i paracieli scostati. Anche da quella distanza il riflesso dorato dei capelli è sufficiente per togliere ogni dubbio. Ed è immobile, le mani pallide incrociate sul petto.
Quella inerzia, così innaturale per lui, gli fa drizzare i peli sulle braccia, e anche Ptolemaios rabbrividisce al suo fianco, trattenendo il respiro. Solo che ora c’è un nuovo rumore che sale dalla terra e scivola sull’acqua fino a morire tra le onde – un mormorio di tale strazio e dolore che neanche il lamento di tutte le ombre d’Averno potrebbe essere più insopportabile. C’è il terrore della perdita nel gemito dei soldati – nei singhiozzi e nel brusio frantumato delle voci – e l’angoscia di anime perdute che mai più rivedranno la luce.
Per un attimo, Hephaistion deve combattere la tentazione di accovacciarsi a terra e premersi le mani sulle orecchie; con la coda dell’occhio riesce a scorgere Ptolemaios che fissa la nave a sguardo sbarrato mentre Krateros sembra congelato sul posto.
In Persia è costumanza piangere i defunti stracciandosi le vesti, ma questo è molto più di una tradizione o una mera abitudine: è un raglio strappato al cuore da un dolore troppo grande per essere immaginato. È reale, ed è ciò che significa restare senza di lui.
Un istante dopo, nell’attimo che segue il silenzio, Aleksandros solleva la mano in saluto, piantandola nel cielo.
Dentro il fragore di gioia assordante che esplode come il ribollire di schiuma attorno a lui, Hephaistion lancia un’occhiata alla nave e all’uomo sopra la lettiga.
Oh, sì, sa bene di cosa si è trattato: un’entrata ad effetto, certo – ma ancor di più è stata una lezione.
L’hanno rinnegato sulle rive dell’Hyphasis, rifiutandosi di proseguire al di là del confine estremo, fin nell’ignoto più assoluto; gli hanno preferito la sicurezza del ritorno, perfino fatto intendere che avrebbero potuto fare a meno di lui. E adesso lo sanno – hanno avuto un assaggio di quello che significherebbe perderlo davvero. Sa anche che sarebbero disposti a perdonarlo se venissero a sapere che l’ha fatto apposta, come un amante devoto è disposto a soprassedere i capricci di un cuore ferito.
Bastardo, pensa Hephaistion, reprimendo un singhiozzo che ha il gusto del pianto, meraviglioso, pazzo, adorato bastardo – e finalmente il sorriso lo vince, la risata che erompe chiara come il sole mentre getta la testa indietro, ferendosi gli occhi contro la luce.
Quando riabbassa lo sguardo e lo punta sulla nave in attracco, deve imporsi di non slanciarsi sul ponte e saltare addosso ad Aleksandros, per scrollarlo fino a inculcargli in testa un po’ di buonsenso. Ptolemaios per sua fortuna lo afferra prima, serrandolo in un abbraccio soffocante, e persino Krateros gli assesta una pacca sulla schiena che per un soffio non gli fa sputare i denti.
“Non ho mai dubitato!” esclama quest’ultimo, un ghigno osceno disegnato sulla barba scura, “neanche per un momento. Stupido ragazzo che non è altro, ma gli Dei lo adorano. Non ho mai dubitato, io.”
Hephaistion ride di nuovo, e si volta a osservare la nave che viene agganciata alla banchina con le corde lanciate dai servienti, afferrate da terra e assicurate ai piloni di legno. Mentre la passerella viene abbassata e la lettiga del Re sollevata nel ruggito delle truppe che si raccolgono intorno, Hephaistion si impone di distogliere lo sguardo per riportarlo sulle file di ufficiali rimasti impietriti dietro di lui.
“Formate i ranghi!” abbaia, “e tenete questo branco di idioti lontano dal pontile prima che lo facciano collassare in acqua!”
Ptolemaios barcolla mentre la folla lo spintona in una nuova ondata di entusiasmo. Hephaistion lo aiuta a rimettersi in piedi e gli avvicina le labbra all’orecchio, per sovrastare il frastuono selvaggio di urla e schiamazzi.
“Rientriamo alla tenda prima di finire schiacciati. Non c’è modo di parlargli se restiamo qua.” Per un attimo sorride alla sorpresa che riesce a leggergli in faccia, in una smorfia di comicità involontaria: forse si era aspettato di vederlo slanciarsi su Aleksandros per ricoprirlo di baci appassionati, magari incitato dalla folla festante. Ma non ce n’è bisogno: ha già incontrato i suoi occhi mentre si avvicinava sull’acqua, e per ora è sufficiente. Che i soldati si prendano pure questo momento – lui avrà il suo molto presto.
Faticano a riguadagnare la strada per la tenda, spintonando le truppe e tirandosi dietro i cavalli tenuti per i finimenti.
Fermo di fronte all’entrata, persino da quella distanza Hephaistion riesce a scorgere la lettiga del Re venire issata sulle spalle dei portantini e poi trasportata a riva, gli uomini che le fluttuano attorno come stormi di uccelli, le mani levate in adorazione.
Aleksandros rivolge un sorriso a tutti, seduto dritto sulla lettiga, le labbra che si muovono senza che lui riesca a sentire i nomi con cui certamente saluta ciascuno di loro. I portantini sono costretti a fermarsi ogni poco, per permettere ad Aleksandros di stringere le mani e accettare le benedizioni mentre gli uomini gridano il suo nome in un ritmo serrato, come l’incitazione che precede una battaglia.
A metà della strada, Hephaistion lo vede alzare una braccio e arrestare i portatori. Osserva la concitazione dei servi che scattano immediatamente al suo ordine e, poco dopo, la folla si apre in due ali per far passare uno scudiero con un cavallo condotto alla cavezza.
Hephaistion trattiene il respiro: la bestia è un castrone addestrato e tranquillo che serve più a far scena che altro, ma nonostante questo deve di nuovo reprimere l’urgenza di raggiungere Aleksandros e scrollarlo per un tale sfoggio di vanità. Solo l’orgoglio lo trattiene – il proprio, e quello del Re. Sa bene per quale motivo lo stia facendo: vuole dimostrare ai suoi uomini di essere in grado di arrivare alla tenda come un soldato e non come un infermo, ma questo non rende il gesto meno sconsiderato – non se pensa al dolore che deve provare e che gli legge in faccia quando finalmente monta in groppa, tendendo le labbra in una smorfia che gli si conficca nel cuore.
Gli uomini – almeno loro – sembrano gradire la prodezza, e le incitazioni si fanno più chiassose quando Aleksandros sprona il cavallo e prende ad avanzare, il viso puntato in avanti come fosse a una parata, e non invece in procinto di stramazzare a terra morto e stecchito da un momento all’altro.
Qualcuno ha anche trovato dei fiori e ora hanno preso a lanciarli verso di lui, pavimentando la sua marcia con un tappeto di colori sgargianti e profumi stordenti.
Solo cinquanta passi – Hephaistion li ha contati nella testa, ma gli sembrano comunque un’eternità, specie quando Aleksandros scivola a lato dell'animale, perdendo l’equilibrio. Lo scudiero lo sostiene prontamente e lo aiuta a rimettersi eretto senza che le truppe festanti si siano rese conto di nulla, continuando a premere da tutti i lati e a sospingerlo avanti.
Infine, il cavallo giunge alla tenda, e Aleksandros è davanti a lui, pallido per la sofferenza, le labbra che tremano – ma gli occhi sono accesi da quella luce che conosce bene, e che ora brilla più fulgida che mai.
“Hephaistion,” lo sente sussurrare prima di scivolare di nuovo, solo che ora è lui a sostenerlo e a prenderlo tra le braccia mentre smonta da cavallo – i soldati che esplodono in un boato selvaggio di gioia e approvazione.
“Tutta questa scena e neanche ti reggi in piedi,” lo rimprovera Hephaistion e intanto lo stringe a sé, aspirando il suo odore e lasciandosi avvolgere dal calore ardente della sua pelle. Le lacrime premono per uscire e fa giusto in tempo a ricacciarle indietro con uno sforzo di cui non si sarebbe creduto capace.
Alza la testa per rivolgere un cenno a Ptolemaios, che lo precede nella tenda assieme a Krateros – poi finalmente entra anche lui, il braccio attorno alla vita di Aleksandros, richiudendo il lembo di stoffa dietro le spalle e lasciando libero l’esercito di gridare al cielo la sua esultanza.
Una volta dentro, lontano dagli occhi adoranti, Aleksandros sembra lasciar trapelare i segni della sua debolezza; Hephaistion li percepisce nel modo in cui si appoggia contro di lui e gli stringe la stoffa del chitone, tirandogliela sulle spalle. Lo sostiene con facilità e lo aiuta a raggiungere uno dei divani, facendocelo adagiare sopra.
Aleksandros gli sorride, ancora accesso dalla gloria mentre affonda tra i cuscini, il volto cereo e zuppo di sudore.
“L’hai sentito?” chiede, scoprendo i denti in un ghigno soddisfatto. “Questo sì che è un benvenuto. Dovrei morire più spesso, fa meraviglie per la reputazione.”
“Stai sanguinando,” è tutto quel che riesce a rispondere Hephaistion in un tono strozzato. Con gli occhi, rivolge un muto segnale a Ptolemaios – che annuisce e lascia la tenda senza dire parola.
“Non è nulla.” Aleksandros si tira su un poco, raddrizzando il busto. “E ho sete. Portatemi del vino.”
“L’acqua andrà benissimo.” Hephaistion si china ad aggiustargli i cuscini dietro la schiena e allunga un braccio ad afferrare la caraffa sul tavolo vicino.
“Penso che l’occasione si presti a qualcosa di un po’ più forte, a dire il vero, e Krateros tiene sempre della buona brodaglia da parte, se non ricordo male.”
A Hephaistion non sfugge la tensione nelle sue labbra mentre lo dice, ma sa anche che preferirebbe morire che ammettere la sofferenza; così tace, e rimane zitto persino quando Krateros si avvicina con un ghigno, portando una coppa ricolma di liquido color rubino.
Aleksandros ne ingoia metà in un unico sorso mentre Ptolemaios fa di nuovo il suo ingresso nella tenda con Philippos al seguito.
Il medico trattiene il respiro quando Aleksandros lo saluta alzando il calice e rivolgendogli un sorriso sfacciato. “Certamente non vorrai rimproverarmi una piccola celebrazione con i miei amici, non è vero?”
“Io non ti rimprovero niente,” risponde asciutto Philippos, “anche se mi chiedo perché continui a dare ascolto al mio giudizio.”
Aleksandros si lascia andare a una risata, che si trasforma ben presto in un accesso di tosse. “Ah, iatré,” riesce a dire tra le lacrime, “se davvero vuoi riprendermi, faresti meglio a metterti in fila. Immagino di dovermi attendere un reale rimbrotto, se queste facce mi dicono il vero. Molto bene, soldati,” e si rivolge a tutti loro come se stesse ascoltando delle perorazioni, “sono tutto vostro. Mi rimetto alla vostra clemenza.”
Il tono è leggero, ma ci vuole ben altro per ingannare Hephaistion; l’affilatezza della lama è ben nascosta sotto la superficie placida della sua voce, assieme a una nota di risentimento. Bene, pensa – si merita tutto ciò che sta per arrivargli, ma ciò non significa che debba piacergli.
Anche Ptolemaios, che lo conosce da quando era un bambino, sembra aver colto quella sfumatura irritata perché si limita ad annuire e a incrociare le braccia al petto.
“Di sicuro ci hai elargito il peggior spavento della nostra vita,” pronuncia a bassa voce.
Krateros, invece, non sarebbe in grado di vedere un cinghiale in una stanza neanche se ce l’avesse davanti; aspetta impaziente che il medico finisca di tendere alla ferita e rimpiazzi le bende e, dopo averlo osservato lasciare la tenda, esclama: “Si può sapere a che gioco pensavi di giocare?” I peli scuri della barba sembrano fremergli sotto le labbra. “Potrai anche credere di essere figlio di un dio, se tuo padre non era abbastanza uomo da renderti fiero di lui, ma questo non ti rende immortale!”
Hephaistion trasalisce appena al commento, e si volta a osservare il Re. Krateros è andato a colpire una nota dolente, e non c’è traccia di scherzo nel suo tono.
Gli occhi di Aleksandros si sono fatti scuri, ma pare che l’abbia presa bene, o meglio: sembra più un uomo che si stia sottoponendo a una seduta di frustate, in attesa del colpo successivo e ben determinato a non lasciarsi sfuggire un lamento.
Non che non se lo meriti, pensa mentre raggiunge il divano vicino e si siede in silenzio. Il suo turno arriverà più tardi, per ora vuole solo assistere. Si scopre a tremare appena, la testa inspiegabilmente leggera, come dopo una ubriacatura.
“So bene di non essere immortale,” risponde Aleksandros in tono cauto, “ho abbastanza cicatrici per provarlo. Ma sono anche un Re, ed era necessario.”
“Lo definirei più irresponsabile a essere sincero,” si intromette Ptolemaios prima che Krateros possa peggiorare la situazione. “Esporti a un tale pericolo… sei stato fortunato a uscirne vivo.”
“Lo so.” Le nocche di Aleksandos sono bianche là dove tiene le dita serrate attorno alla coppa, ma la voce resta salda e misurata. Una bella dimostrazione di volontà – questo, Hephaistion glielo deve proprio concedere.
“Ah, quindi lo sai,” sbuffa Krateros. “Dovresti essere accecato dalla pazzia per non rendertene conto. Ti fermi a pensare, qualche volta? Irresponsabile ragazzo.” Alza le mani in un moto di disgusto. “Saltare da solo in quel fortino dopo che le rampe erano collassate… Sei diventato idiota o cosa?”
Aleksandros sembra prendersi del tempo per rispondere, inspirando a fondo e socchiudendo gli occhi.
“Sono solito guidare le mie truppe con l’esempio,” scandisce lentamente. “Dalla prima linea. Ed è quello che ci ha condotto fin qua. Gli uomini non seguirebbero un codardo pronto a nascondersi in fondo ai ranghi. È di macedoni che stiamo parlando, e non dovrei essere io a ricordartelo.”
“Lo erano, prima che tu lasciassi entrare persiani, indiani e altri maledetti barbari nel tuo esercito,” scatta Krateros, ormai oltre ogni ragione e prudenza.
Ptolemaios fa un passo avanti e lo tocca sulla spalla.
“E questo cosa ha a che fare con la faccenda?” Stavolta, la nota minacciosa nella voce di Aleksandros è più accentuata, ma sembra rimetterla subito a briglia, riprendendo a parlare in tono incolore. La sua ira è tradita solo dal vago tremito nelle mani. “Non mi sono mai tirato indietro davanti al pericolo, e non l’ho fatto stavolta. Non manderei mai i miei uomini a fronteggiare qualcosa che non sono in grado di affrontare io stesso.”
“Non hai bisogno di dimostrarlo,” interloquisce Ptolemaios, scoccando un’occhiata d’avvertimento a Krateros. “Gli uomini sanno che non temi nulla. Ma devi pensare al futuro. Abbiamo bisogno di te. E non ci possiamo permettere di perderti. Coraggioso o no, non avresti mai dovuto agire in modo tanto sconsiderato.”
“Perdikkas mi ha già detto le stesse cose,” ribatte Aleksandros irritato. Ha terminato il vino ma tiene ancora in mano la coppa come se volesse giocarci. In realtà, osserva Hephaistion – che ha rialzato la testa dopo essersela tenuta tra le mani per tutto il tempo – sembra piuttosto che la voglia stringere fino a frantumarla.
Krateros si lascia andare a una risata sonora. “Ci scommetto che te le ha dette. E scommetto anche che non hai ascoltato una sola parola.”
“Sto ascoltando te.”
“Ah, davvero? Che la tua testa di mulo sia maledetta, ragazzo. Ti sei quasi fatto uccidere senza una ragione. Non sei un soldato qualunque, e non dovresti comportarti come se lo fossi.” Ora sta urlando. “Sei un Re, e non ci servi a nulla se muori. Ce la fai a ficcarti la verità in quella testaccia dura?”
Hephaistion li sente entrambi trattenere il respiro. In Persia, un uomo che parlasse in questo modo al Grande Re sarebbe messo a morte col fuoco, e verrebbe ritenuto un atto di misericordia. In Egitto, finirebbe sepolto vivo e urlante, lasciato alle bocche affamate degli scarafaggi. In Macedonia, il sovrano potrebbe riuscire a infilzarlo con la lancia – dipenderebbe dalla sua mira e da quanto ubriaca è l’Assemblea dei Pari.
Invece quello che Aleksandros sembra fare ora, è fissare un punto vuoto nella stanza, gli occhi d’argento aperti sul volto pallido come la morte. A ogni modo pare sufficiente a ridurre Krateros all’immediato silenzio.
“Che cosa vuoi che ti dica?” La sua voce suona dura e piatta come una moneta. E senza più una stilla di fiato. “Che mi dispiace? Va bene allora. Mi dispiace se mi sono fatto quasi uccidere per dar la caccia a un nemico che ci avrebbe tenuti inchiodati quaggiù e fatti a pezzi, per poi lasciarci affogare nel fiume.” Sepolto nel tono gelido c’è un rantolo basso, sibilante. “Mi dispiace se ho guidato il mio esercito a una vittoria che ha reso sicura la nostra posizione e rimosso ogni minaccia prima di metterci in navigazione. Mi dispiace di essermi ricordato che sono un uomo. Ora sei soddisfatto?”
Sull’ultima parola la voce si rompe in un ansito, e Ptolemaios gli rivolge uno sguardo esasperato.
“Non è che non avresti dovuto combattere, Alekos,” dice, “è solo che vorremmo che avessi più cura di…”
“Non lo capisce!” si intromette di nuovo Krateros, incapace di frenare la lingua, “non lo intende che questa non è l’Iliade e che abbiamo bisogno di un Re e non di…”
“Lasciatelo in pace!” Hephaistion rialza la testa con uno scatto. Si sente bruciare gli occhi mentre fissa gli altri due. E la rabbia vibra in ogni parola. “Per l’amor degli Dei, lasciatelo in pace una buona volta!”
Nella tenda cala il silenzio – interrotto solo dal respiro pesante di Aleksandros, che gli arriva alle orecchie come una stilettata. Per un attimo tutti gli sguardi sono su di lui, ed Hephaistion li accoglie a testa alta, raddrizzando le spalle.
Krateros si lascia sfuggire un grugnito di frustrazione. Si volta nella sua direzione e scuote la testa, guardandolo come se gli fosse cresciuta la coda.
“Gli idioti vanno sempre a coppia, vero?” raglia. “La faccenda è seria, non è uno scherzo innocente, tantomeno…”
“Lo sa. E lo sappiamo tutti,” sbotta Hephaistion, i denti serrati. Stenta a riconoscere la propria voce, tanto è vibrante di rabbia. “L’avete ripetuto fino alla nausea. Perché ora non vi tappate la bocca?” Li guarda entrambi, socchiudendo gli occhi. “O devo chiudervela io?”
Ptolemaios si affretta a interromperlo prima che possa dar seguito alle minacce. “Bene. Direi che non hai torto. È stata una stupidaggine e siamo tutti concordi nell’ammetterlo. Dunque possiamo considerare chiusa la faccenda, dico bene?” Gli rivolge un’occhiata di avvertimento – non che sia sufficiente a intimorirlo, non in questo momento.
Krateros, invece, sembra averla colta e pare calmarsi, anche se controvoglia.
Hephaistion non dice nulla, si limita a lanciare sguardi affilati come pugnali all’indirizzo di tutti prima di riprendersi la testa tra le mani, cominciando a massaggiarla.
“Mi ritengo diffidato,” sente dire Aleksandros, il fruscio dei cuscini quando si riadagia sul divano. “E prometto di non rifarlo. Non che mi sia piaciuto molto questa volta.”
“Spero proprio di no.” Questa gli è uscita così, dura e secca, ma Hephaistion non ha alcuna intenzione di rimangiarsela – ah, no. E che sia dannata la Reale Ira e tutto il resto.
Li ascolta parlare di organizzazione e di procedure per un po’: la necessità di acquartierare le truppe che hanno scortato Aleksandros, in attesa di essere raggiunti da Perdikkas con il grosso dell’esercito nei giorni successivi, dopo aver assicurato Multan e i territori circostanti con un’ultima sortita. Li sente discutere di un amministratore corrotto in qualche città a ovest, e di quanto abbia alzato le tasse nella sua provincia, azzoppando il commercio – ma è solo rumore di fondo. A ogni modo la riunione dura poco, ed è bene che sia così. Aleksandros è esausto, e non bisogna essere ciechi per vederlo: il volto è ancora più pallido, gli occhi arrossati.
“Grazie,” lo sente dire, “per aver tenuto tutto in piedi. Siete stati impeccabili.” Si prende una pausa per respirare, ed emette di nuovo quel rantolo affaticato. “Adesso, però, ho bisogno di riposare. Al resto penseremo più tardi.”
“Ce ne occupiamo noi,” risponde Ptolemaios, preparandosi a uscire. “Non devi darti pena.” Rivolge un’occhiata a Krateros che lo raggiunge sulla soglia. Ma lo sguardo di Aleksandros ora è soltanto per lui.
“Hephaistion,” dice, il tono che non ammette repliche – ma non gli sfugge la nota dolce al di sotto. “Tu invece rimani qua.”
Hephaistion si rimette in piedi e lo raggiunge all’altro capo della stanza. Afferra uno sgabello e si siede accanto a lui, poi prende una pezzuola e la tuffa nel bacile, passandogliela piano sulla fronte, fino alle sopracciglia.
“Ah, questo è piacevole.” Aleksandros gli sorride dal basso. “Non vuoi rinfacciarmi anche tu la mia stupidità? Devi aver aspettato giorni per farlo.”
Hephaistion scuote lentamente la testa. Neanche un’ora fa aveva pronta la ramanzina fino all’ultima parola, ma ora gli sembrano frasi vuote e senza importanza.
“No,” risponde semplicemente.
Aleksandros lo osserva quieto per qualche istante, poi distoglie lo sguardo, puntandolo sulla coppa che ancora stringe in mano. “Lo puoi fare, se vuoi. Me lo merito.”
“Se lo sai, allora non ne hai bisogno,” risponde Hephaistion a bassa voce. Si stupisce di ritrovarla tanto ferma. “Inoltre, ti tratterrebbe dal ripeterlo di nuovo?”
“Non lo rifarò.” Ha ribattuto subito, il dolore che sembra appannare di poco la certezza del tono.
Hephaistion sospira piano. “Fino a quando non lo riterrai di nuovo necessario.”
Lascia andare la pezza e riempie la coppa con acqua fresca; Aleksandros la sorseggia lentamente, poi alza gli occhi a incontrare di nuovo il suo sguardo.
“Mi sei mancato.”
È un sussurro a cui Hephaistion risponde chinandosi, e poggiandogli un bacio sulla fronte accaldata. “Sono qua.”
Le fasciature sono di un bianco abbagliante – catturano lo sguardo, così fuori luogo sulla pelle chiara di Aleksandros. Gli occhi continuano a scivolargli lì sopra, fin quando non si sorprende a fissarle. Ciò che nascondono si è quasi preso la vita di entrambi.
Aleksandros nota la sua occhiata e pare comprendere, ma di questo ormai non dovrebbe più stupirsi.
“Vuoi vederla?” domanda gentile. Hephaistion solleva la testa, poi torna a fissare il bendaggio. Annuisce, una volta. Segue con gli occhi Aleksandros, che poggia le dita sulla stoffa per poi farle ricadere un attimo dopo.
“Dovrai farlo tu,” dice, “Io non…” ma le sue mani sono già lì.
E tremano; ordina a se stesso di essere lieve, si impone una presa salda e pulita, ma le dita continuano a frustrarlo. Se comunque gli ha fatto male mentre trafficava con i lembi di stoffa, Aleksandros se l’è tenuto per sé, come sempre.
Poi, d’improvviso, la fasciatura si sfila via e la ferita è allo scoperto.
È un’oscenità sul suo corpo giovane e forte, un sacrilegio che grida la peggiore vendetta.
Non profonda, perché Philippos l’ha ricucita come e dove ha potuto; il fulcro, tuttavia, è un buco di carne cruda, un orrendo occhio rosso spalancato sul fianco. I contorni sono gonfi e lividi; la freccia l’hanno dovuta sradicare, tagliarla via pezzo per pezzo – così ha detto Philippos. Altri sono morti per ferite come questa.
“Ah…” Hephaistion si lascia andare a un guaito di dolore. Con infinita delicatezza poggia un dito sul bordo di quell’oltraggio e sospira. Abbassa la testa e sfiora la carne mortificata con le labbra, muovendole appena e assorbendone il calore innaturale. Lo sente bruciare in gola e negli occhi, assieme al riflusso di lacrime che non è ancora riuscito a versare. Poi, rialza la testa e ricopre la ferita con le bende, fin quando il tremore nelle dita non cessa e il pianto è di nuovo rimesso al suo posto, dietro il confine degli occhi.
“Alekos,” cerca di sorridergli, ma il tentativo si infrange in una smorfia. “Guarda le cose che fai a te stesso.”
“Io,” risponde Aleksandros implacabile, “sono un completo idiota.”
“Sì, lo sei.” Gli è uscita con una tale sicurezza, come gli avesse detto che il cielo è blu, che Aleksandros non può fare a meno di scoppiare in una risata. Cauto, però, perché il buonumore deve costargli un bel po’ con quel fianco martoriato. Ma c’è poco da fare, ed è sempre stato così tra di loro: non hanno mai avuto bisogno di trattenere i colpi.
“Sono stato aiutato nel farmela, questa ferita. Non posso prendermi tutto il merito.”
Hephaistion sente il riflusso scuro e feroce della collera risalirgli la gola e incendiargli la faccia. E qualcosa, di questa brutalità, deve avere colto di sorpresa Aleksandros, che infatti ora lo fissa come fosse stordito – o spaventato.
Ma negli occhi legge anche la comprensione – non quella del compagno, o dell’amico di una vita. È l’anima dell’amante quella con cui gli sta parlando, ma è una voce che non ha mai avuto bisogno di parole.
“L’uomo che ha fatto questo…” Persino il tono gli esce nero; si sente addosso uno sguardo terribile, ma Aleksandros lo sostiene senza battere ciglio.
“Morto,” risponde. “Ogni creatura che respirava.”
Questo per un attimo lo coglie di sorpresa. Non è qualcosa a cui l’esercito si abbandona facilmente – nulla che le truppe di Aleksandros abbiano mai fatto. Persino a Tyrus e a Gaza era stata riservata una maggior misericordia. Ma non erano andate tanto vicine a uccidere il loro Re, no.
“Non è stato dato nessun ordine. I soldati… sono impazziti. E non si sono fermati.” Nella vibrazione della voce è evidente che Aleksandros non l’avrebbe voluto. “Tu che cosa avresti fatto?” gli chiede a bassa voce.
Hephaistion si concede una pausa prima di rispondere. Certe cose non si pronunciano senza cautela. “Li avrei uccisi.”
“Tutti quanti?”
“Tutti. E quello, in particolare, l’avrei ammazzato lentamente.”
Aleksandros sembra lasciarsi avvolgere dalle sue parole e poi farsele filtrare dentro, fino ad affondare nella pelle e dietro gli occhi. Non può non sapere che i suoi uomini farebbero questo per lui – che l’hanno già fatto. Forse, è solo un sacrificio che deve essere compiuto, il prezzo per restargli accanto.
Con la mano debole e fradicia di sudore, Aleksandros afferra una delle sue e la stringe. Può sentire l’energia nella presa – una forza inviolabile che come sempre è pronto a condividere.
“Gli Dei abbiano pietà per i miei nemici.”
“Abbiano pietà per i tuoi amici, vorrai dire.” Hephaistion gli stinge le dita a sua volta. Stavolta, il sorriso che sente distendersi sulle labbra gli sembra più naturale, o così spera che appaia. Sa solo che gli è mancato, e che è inutile cercare le parole per esprimerlo; non è mai stato bravo con quelle – è Aleksandros, tra i due, quello dei grandi discorsi. Così resta in silenzio e lascia che siano carne e respiro a parlare per lui, le loro mani intrecciate, e il fiato che per un attimo viene a mancare.
“È stato molto difficile?” domanda Aleksandros dopo la lunga pausa. “Sono venuto non appena ho potuto. Quello che voglio dire però…” sembra lottare con le frasi, cosa strana per lui. “Le dicerie. Hai creduto che…”
“No,” risponde lui pronto. “E sei stato uno sciocco a correre qua così presto.” Gli solleva la mano per portarsela alle labbra, così da soffocare l’affilatura nel tono. “Io sapevo. Ma…”
“Mi dispiace.”
“Oh, Alekos,” lo interrompe e la voce gli esce strozzata, per quanti sforzi abbia fatto nel tenerla a bada. “Temevo di sbagliarmi.”
“Mi dispiace.”
Hephaistion gli rivolge un cipiglio che manda lampi. “La vuoi finire di ripeterlo?”
Aleksandros ricambia con un tuono. “E tu vuoi chiudere la bocca e baciarmi una buona volta?”
Hephaistion sorride e lo accontenta subito, restando a lungo sulle sue labbra, fin quando Aleksandros è costretto a staccarsi per riprendere fiato.
“L’ho sentito, sai?”
“Certo che l’hai sentito,” ansima Aleksandros, rosso in viso. “Hai la mano proprio lì sopra.”
Hephaistion gli rivolge un ghigno divertito e si china a baciarlo di nuovo. “Non quello, stupido. La ferita.” Sospira sulle sue labbra, mentre gli prende la testa tra le mani, carezzandogli le tempie con i pollici. “Ho sentito la freccia quando ti ha colpito. O quando sei caduto, non lo so. Ma era anche dentro di me.”
Per un istante Aleksandros tace, si limita a fissarlo prima di allungare una mano per sfiorarlo sui capelli. Poi, finalmente: “Philè.”
“Non farlo mai più.”
“Ti ha fatto male?” Sembra non voler desistere. Vuole sapere – e la sua espressione è strana; pare nascondere un mistero a cui non vuole davvero pensare – o forse desidera soltanto dimenticare.
Hephaistion inclina la testa, pensoso. “Non esattamente. Era più la consapevolezza di qualcosa che non andava.” Scuote la testa, irritato. Non è propriamente così, ma ha sempre avuto difficoltà a mettere in parola il legame che condivide con Aleksandros da tutta la vita. Quando erano ragazzi, e aveva cominciato a percepire le sue emozioni e i moti del suo cuore, aveva creduto di essere pazzo.
A ogni modo la sua espressione dev’essere abbastanza eloquente per lui, che annuisce con sicurezza.
“Anch’io ero certo che fossi con me,” dice a occhi socchiusi. Ha ancora quello sguardo strano, come se fosse stato colpito dalla violenza di una profezia. O forse è solo un segreto che non può rivelare – che non può, o non vuole.
“Mi hai salvato la vita,” dice semplicemente, e sembra non voler aggiungere altro. Gli solleva la mano che indossa l’anello con l’effige solare e se la porta alle labbra, baciando il rubino. Muove la testa per premerselo contro la bocca, soffocando un sospiro.
Se Hephaistion avesse avuto ancora dei dubbi sul significato delle sue parole, quel gesto è sufficiente a cacciare via ogni perplessità e ad aprire di nuovo le coltri buie che per un attimo gli hanno avvolto il cuore. Qualunque cosa Aleksandros abbia trovato, nel viaggio oscuro e terribile che per giorni li ha separati, ha deciso di tenerlo per sé, e gli va bene, è pronto ad accettarlo. Può portare il peso di un segreto, ora che il Sole è tornato a risplendere sulla sua vita – ed è un fardello piccolo e immenso, come l’anello che sente di nuovo bruciare al dito.
“Sai che non potrei mai lasciarti andare,” risponde in tono pratico. “Mai, finché avrò vita.”
“Patroklos?” Ora va meglio. Il sorriso che gli rivolge è di nuovo il suo – caldo e luminoso.
“Patroklos.” Hephaistion si prende un istante per riaccomodare il cuore nel petto, una volta ancora. È così stupido a volte, il suo cuore: sembra gonfiarsi e contrarsi nei momenti meno opportuni, così che il torace gli diventa di colpo stretto e la gola gli duole. Ma passa dopo un attimo – passa sempre, resta solo il calore.
Guarda di nuovo il volto pallido e sudato di Aleksandros e lo racchiude ancora a coppa tra le mani, sospirando. “Dormi ora. Hai bisogno di riposo.”
Fa per alzarsi ma Aleksandros lo trattiene; l’energia nella sua presa è sorprendente. Fino a un attimo prima sembrava che non sarebbe riuscito neanche a sollevare un dito, mentre ora lo stringe come se non volesse mai lasciarlo andare.
“Resta qua.” È poco più di un sussurro, ma non c’è bisogno che alzi la voce; Hephaistion lo sentirebbe sempre e comunque.
Si riaccomoda sullo sgabello e gli prende di nuovo le mani nelle sue, ricambiando la stretta.
“Sempre,” risponde. “Sempre, Alekos.”
Se i sacrifici sono qualcosa che deve essere fatto – pensa, perdendosi di nuovo nei suoi occhi opachi e insondabili – le promesse sono ciò che rende dolce il consacrarsi a questo dio di fuoco e calore, che illumina i suoi giorni.
Chiude gli occhi e si china a baciarlo, una volta di più.






Fine



Note:

1) Come specificato nell’introduzione, questo racconto trae ispirazione da un evento realmente accaduto nella vita di Alessandro. Nel 326 a.c. l’esercito di Alessandro raggiunge il fiume Hyphasis – odierno Beas – nel nord dell’India. Al tempo era considerato il punto più estremo mai raggiunto da un conquistatore occidentale, e le truppe, fiaccate dalla lunga campagna e dalle estenuanti battaglie contro le popolazioni indigene, si rifiutano di proseguire oltre, nonostante il desiderio ardente di Alessandro di passare il confine e raggiungere quello che al tempo si credeva il ‘grande mare accerchiante’ che racchiudeva il mondo.
La frattura tra il Re e l’esercito sarà violenta, e questo porterà Alessandro a rinchiudersi nella sua tenda per giorni, incapace di accettare l’ammutinamento dei suoi uomini. La querelle si conclude con la risoluzione di tornare indietro, verso la Persia, sebbene sia una scelta molto sofferta per Alessandro, e che non mancherà di rimarcare al suo esercito.
Sulla via del ritorno, durante la navigazione lungo gli affluenti dell’Indo, l’esercito si imbatte nella bellicosa tribù dei malli, e il Re decide di soffocare la rivolta violenta degli indigeni, così da assicurarsi il territorio. Come specificato nel racconto, Alessandro spedisce una parte dell’esercito, al comando di Efestione, verso sud, mentre la restante parte, agli ordini di Cratero, rimane indietro, al fine di intercettare i fuggitivi dell’attacco frontale che Alessando intende sferrare alla cittadella dei malli, nella località conosciuta con il nome di Multan.
L’assedio si rivela lungo e faticoso, e Arriano narra di come le truppe fossero restie a gettarsi nella carica, com’era invece loro costume abituale, rendendo la presa della cittadella sempre più laboriosa.
Questo è alla base del gesto sconsiderato di Alessandro: quando le scale vengono approntate sulle mura, e il Re si rende conto che i soldati non sono pronti come sempre a gettarsi a capofitto sull’obbiettivo, decide di dare l’esempio, e si arrampica da solo in cima a una delle scale, saltando dentro le mura brulicanti di malli. Sempre Arriano racconta di come l’esercito pare riscuotersi di fronte a quell’atto di coraggio estremo e, preoccupati per le sorti del loro Re, si affastellano sulle scale per seguirlo immediatamente. Il peso fa crollare le rampe, con i soldati al seguito, e Alessandro si trova isolato sull’altro lato, ricevendo la freccia nel polmone, che per poco non lo uccide. È tratto in salvo da Perdicca, e dal resto dei soldati, che in breve tempo l’hanno raggiunto, ma giacerà in coma per giorni, tra la vita e la morte. L’aneddoto della lettera e della discesa del Re lungo il fiume, dopo pochi giorni, risponde a verità, come lo è il suo fingersi per qualche istante morto, per poi alzare il braccio, acclamato dai soldati.

2) Cratero è uno dei generali più prominenti nel gruppo di collaboratori di Alessandro, e la sua acrimonia nei confronti di Efestione – peraltro reciproca – è ben documentata. Cratero era un uomo fidato e un valido soldato, ma era un macedone vecchio stampo, molto scettico nei confronti della fusione attuata da Alessandro tra persiani e macedoni, e che invece Efestione aveva appoggiato fin dall’inizio. Questo, oltre alle differenze caratteriali, ha portato i due a scontrarsi più volte, tanto che le fonti riportano di un alterco particolarmente acceso, che il Re in persona è dovuto intervenire a sedare, ricorrendo alle minacce. Dopo questo episodio non ci sono più menzioni di litigi tra i due uomini, ma in una situazione come quella descritta dal racconto, ho ipotizzato che, con Alessandro lontano, potesse essersi manifestata una recrudescenza dell’astio esistente tra loro, come infatti ho descritto.
Un dettaglio interessante è il modo in cui Alessandro era solito appellare entrambi: se Efestione era philalexandros (l’amico di Alessandro), Cratero era chiamato philobasileus (l’amico del Re), a sottolineare la differenza profonda nel tipo di rapporto. Alla luce di questo va colto il rimarco che Efestione rivolge a Cratero nel capitolo quattro.




  
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