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Autore: Mirokia    20/02/2016    1 recensioni
Lo vidi correre dietro il pallone nella direzione opposta. Diego bestemmiò ancora e gli urlò di fermarsi e Michele pensò che stesse impazzendo. Forse era così. Ma ero così cieco, così impotente, e fui l'unico a non urlargli di fermarsi. Pensai anche di correre con lui e farmi passare la palla, ma in fondo lo sapevo che voleva correre da solo.
[Storia di un "io" che si perde in un così chiamato "amore"]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 1



 

 


Non so se considerare il 2007 l’anno più felice o più infelice della mia vita.
La mia adolescenza non aveva nulla di differente da quella di tutti gli altri ragazzi del quartiere, quelli della mia classe, i miei compagni di squadra, insomma, i coetanei che frequentavo. Andavo benino in poche materie prescelte, storia, chimica, educazione fisica. Mio fratello aveva voti migliori, ma certo non poteva essere considerato una cima. Era la condotta che ci distingueva: il mio un 6, il suo un 10: i miei genitori non mi sopportavano più. Ma anche questo sembrava essere normalissimo per uno della mia età. Allora mi chiedevo per quale motivo mi sentissi in realtà così lontano dagli altri ragazzi, così estraniato dal loro mondo, così diverso dall’esatta copia del diciassettenne medio che credevo di essere. Mi chiedevo la stessa cosa mentre mi trascinavo verso il pullmino che ci avrebbe portato su ad Ulzio per un torneo tra province. Il borsone pesava più del solito e mi sembrava più grosso di me e il cuore continuava a saltare i battiti senza un vero motivo. E anche allora fingevo di non vedere la palesissima realtà.
«Ohi, Lorenzo! E alza il passo!» mio padre mi faceva segni dall’entrata anteriore del pullman. «Lo sapevo che non avrei dovuto lasciarti dormire. La prossima volta, ti butto giù dal letto alle cinque, tu e le tue lamentele!»
Scossi il capo e aumentai la velocità. Non l’avrebbe mai fatto. Mio padre era un uomo troppo buono per permettersi di farsi malvolere dai figli. Sin da piccoli, ci tirava uno schiaffo e subito dopo si scusava: era quel tipo lì.
Avevo quasi raggiunto mio padre, quando:
«Loris!»
Riconosciuta la voce fin troppo allegra per quell’ora del mattino, mi voltai a guardare un Claudio che si affannava a raggiungermi. Alzai gli occhi al cielo e mi morsi il labbro, poi presi un gran bel respiro:
«Come cazzo fai a confonderci ancora?!» il tono che utilizzavo non era mai dei più gentili, ma a tutti passava inosservato il fatto che m’accanivo con più impegno con Claudio.
«Oh, certo. Dovresti essermi grato, ti ho dato un aspetto più intelligente oggi» Ribatté lui senza proprio battere ciglio, e fece per superarmi senza curarsi di me, ma ricevette una spintonata che rischiò di farlo finire col sedere a terra.
«Io questo l’ammazzo entro la fine della settimana» Annunciai, con mio padre che già chiedeva al Signore che male aveva fatto per meritarsi tutto quello. Dai finestrini s’erano affacciati Ludovico, Marco e Loris, i primi due che m’incitavano alla rissa, e mio fratello che mi lanciava sguardi omicidi. Stai già rovinando i piani, mi diceva con gli occhi. Tornai in me e lo stomaco si contorse, feci per chiedere scusa a Claudio ma non esisteva che l’avrei fatto, e, dopo aver lasciato il borsone all’autista, salii sul pullman con l’aiuto di una spinta decisa da parte di mio padre. Mi buttai sul sedile accanto ad Antonio, che se ne stava a guardare dal finestrino, fregandosene altamente di quello che gli accadeva intorno. Loris, seduto dietro Antonio, infilò la testa tra i due sedili e mi sentì sospirare.
«Non ce la fai proprio, eh?» mi chiese retorico, e io gli risposi espirando forte dal naso, come un toro in corrida pronto all’attacco. «Ricordati che entro questa settimana devi dichiarar-» in quel momento Claudio attraversò il corridoio e si accomodò ovviamente accanto a Loris, il migliore amico, esattamente dietro di me. Tappai la bocca a mio fratello veloce come la luce e con l’altra mano gli tirai i capelli.
«Giuro che se dici altro, stanotte ti raso i capelli»
Lui tentò di mordermi la mano per convincermi ad allontanarla dalla sua bocca.
«Uhh, che prospettiva spaventosa! Sei bravo con le minacce!»
«Torna a fare la checca col tuo amico» Questo lo dissi più forte, poi gli spinsi la faccia tra i sedili così da farlo tornare dov’era. Lo sapevo benissimo cos’è che mi faceva sentire così lontano dagli altri miei coetanei. Loro su Youporn scandagliavano la sezione “Milf”, “Big tits”, “Threesome”. La mia rotta era ben diversa. Le altre le avevo toccate un paio di volte, ma tornavo al punto di partenza. Eppure non ce la facevo, non volevo ammetterlo. Quei video me li guardavo per intero, venivo che era un piacere, e poi piangevo, dicendomi che no, non avevo guardato proprio niente quella sera. La cronologia era già stata ripulita, non c’era prova che io avessi passato la serata a masturbarmi su video di quel tipo. Loris l’aveva capito da sé, in fondo siamo gemelli e i pensieri in qualche modo convergono sempre. Ma non mi aveva detto granché, se non: «Sai che i gay le capiscono per primi queste cose? Qualcuno in squadra lo è, e potrebbe accorgersi domani stesso che lo guardi adorante appena si gira» E io, «Non dirmelo», e lui, «Sì, i tuoi sospiri sono abbastanza ovvi».
Che fossi pazzo di Claudio ora lo sapevamo in due. E Loris sembrava non voler tenere la bocca chiusa. La faceva facile lui, amichevole, avvenente, dalla retorica sciolta, fiducia in sé, autocontrollo e tante altre belle qualità che in me marcivano: scontroso, goffo, suppergiù analfabeta, sfiduciato e autocontrollo assolutamente inesistente. E dire che di fuori eravamo due gocce d’acqua, capelli castani che restavano su quasi ci mettessimo la lacca ogni mattina, occhio sul verde sporco e lo stesso neo sotto l’occhio destro. Non era una novità che anche quella mattina qualcuno della squadra ci avesse confusi. Forse è principalmente per questo motivo che ci siamo sforzati di assumere atteggiamenti tanto opposti. Eravamo i gemelli della quarta B, lui “quello a posto”, io “quello un po’ tocco in testa”. Pensavo che il bad boy andasse di moda, ma sembrava che le ragazze girassero solo attorno a Loris. O magari ero io ad allontanarle con la sola aura, dato che a quanto pareva ero frocio forte. Ma non avevo un vero motivo per odiare mio fratello, nessuno ce l’aveva, ed era così che lui andava d’accordo con tutti e io con pochi o nessuno.
«Vedo che anche tu stai ancora dormendo» Antonio mi distrasse dai miei soliti pensieri. Lui era uno dei pochi, ma anche quello con cui parlavo di meno: ce la intendevamo spesso con uno sguardo, un gesto, un’espressione facciale, un suono. Mi ero sempre chiesto perché non avrei potuto prendermi una sbandata per lui; era lo stereotipo che chiunque avrebbe voluto trovarsi nel letto: tanto alto da farmi vergognare – io ero un misero metro e 65 -, spalle e schiena da giocatore di pallanuoto, addominali che potevi lavarci il bucato, capello castano e riccio sistemato passandoci semplicemente la mano di mattina, occhio dall’aria malinconica e che mai avresti voluto che ti puntasse nei momenti in cui l’ira saliva di livello.
«Anche tu hai fatto fatica a svegliarti?» chiesi dopo essermi accorto di averlo fissato troppo a lungo.
«Io no», e poi fece segno col capo di guardare negli ultimi sedili del pullman: Sandro era praticamente svenuto sulla spalla di Nicola, che teneva gli occhi chiusi e le cuffiette nelle orecchi mentre, nel sedile dietro, Nathan s’era addormentato con la bocca aperta nonostante al suo fianco Ludovico fosse bello pimpante e adesso mi stesse chiedendo per quale motivo non avessi iniziato una rissa pre-torneo. Incrociai le braccia, appoggiai un ginocchio sul sedile davanti a me e chiusi gli occhi.
«Perché non ci risparmi le tue domande da babbeo e provi a riposare fino all’arrivo?» intervenne Michele, tra i primi posti sul pullmino, l’orecchio sempre attento e vigile, il tono da mamma chioccia che sgrida i figlioletti. Michele era quello con gli occhiali insieme a Nicola, quindi sembrava più che naturale per tutti gli altri prenderlo in giro per il suo essere “secchione”. In realtà Michele aveva una media normalissima, vicina a quella di Loris, ed era stato sempre presente agli allenamenti, il che suggeriva che non stava poi tanto spesso in casa a studiare. E se non era agli allenamenti lo si vedeva in giro a fumare una sigaretta dietro l’altra, che fosse in compagnia o da solo. Sicuramente non studiava. Marco diceva che secondo lui era uno di quei tipi che si credono troppo in gamba per stare ore con gli occhi sui libri a cercare di ficcarsi in testa nozioni che non gli sarebbero servite nella vita. Uno di quelli che aveva già calcolato scrupolosamente il suo futuro e sapeva bene cosa sarebbe stato meglio studiare e cosa ignorare del tutto. Era un asso in inglese, a quanto dicevano. Non avevamo un vero e proprio rapporto.
Ludovico invece era il tipico buffone senza riserve, quello che infilava due arance sotto la maglietta per farle sembrare un paio di tette, quello che faceva l’elicottero col pene fuori dalla doccia, quello che non sapeva mai quand’era l’ora di darci un taglio con le battute razziste.
«Ehi, ci sarà anche una squadra femminile, secondo voi?» Marco interruppe quello che sembrava un insulto pesante da parte di Ludovico. L’ultimo arrivato, una delle due riserve, finalmente salì sul pullman, che ebbe la possibilità di partire.
«Vedi di concentrarti a tirare dritte le palle, piuttosto» Fece il simpatico Diego accanto a lui.
«E tu impara a prenderle, le palle!»
«A quello ci pensa già Claudietto, mi pare» La frecciatina di Diego raggiunse dritta dritta Claudio, che lanciò un’occhiata a Loris e sorrise sotto i baffi.
«Fa quasi ridere, Diego, bravo!» esclamò sorridendo come se si stesse sinceramente divertendo. Diego si risistemò sul suo posto mormorando un: “Fa troppo il furbo per i miei gusti. Sarà bene che non si avvicini a me in questi giorni”.
«Hai da sperare che non ti ci mettano in camerata insieme» Disse Marco, occhi sul telefonino.
«Piuttosto dormo con le capre»
«Ti sentiresti a casa!» gli urlò Claudio, che aveva seguito la conversazione. Diego si alzò dal posto col pugno che si stringeva lungo il fianco e la voglia di spaccare qualche bel faccino, ma mio padre lo fermò prima che potesse fare qualunque cosa gridandogli di tornarsene a sedere. Non eravamo una squadra che andava esattamente d’accordo, ma almeno in campo sapevamo intendercela. E la mia speranza, forse quella di tutti, era che le prese in giro, le frecciatine, gli insulti e le minacce che volavano di tanto in tanto, non intaccassero la nostra prestazione in campo per quella settimana. Ma avevo il presentimento che non sarebbe andata proprio così.
Ludovico, capelli neri a spina e più gellati del solito, cercò di attirare nuovamente la mia attenzione lanciandomi una pallina di carta. E proprio quando stavo per restituirgliela pensandola spazzatura, lui: «Devi leggerlo, coglione!» mi intimò. Srotolai il pezzo di carta e vidi che si trattava di uno scontrino che elencava vari tipi di alcolici.
«Che è? La lista della spesa?» chiesi storcendo esageratamente la bocca. Ma mi passai subito il polso sulle labbra quasi a volerle pulire da quel gesto a mia detta molto gay. Antonio mi stava guardando, e io non riuscii a non far schizzare gli occhi in varie direzioni, come solevo fare quando mi prendeva il nervoso.
«Esatto, quella che abbiamo fatto ieri io, Marco e Nathan. Stasera si fa festa!»
«Ne dubito. Non avete tutti diciassette anni?» si intromise Michele col suo solito cipiglio.
«Ho la carta d’identità falsa, scemo» Ribatté Ludovico, come se fosse la roba più ovvia di questo mondo.
«Capito, scemo?» gli fece il verso Claudio.
«Trasgressivo. Ho la pelle d’oca» Commentò Michele, e Simone accanto a lui scosse la testa ridendo piano.
«Non vi conviene bere. Avete speso soldi per nulla» Disse Claudio, e Ludovico fece, più piano: «Non è un problema, ho provveduto anche alle pillole post-sbornia»
«Ottimo, ci mancava la droga» Ironizzò Claudio, e fu a quel punto che intervenni. Dovevo zittirlo, quella voce mi stava facendo tremare le cellule nervose.
«Senti, ma che te ne frega? Se non vuoi bere, non bevi, idem per il resto»
«Che poi, il solo a stramazzare sul campo è sempre lui» Lo punzecchiò Diego, uno di quelli in squadra che parlava poco, ma quando doveva fare qualche battuta era ben calcolata e modulata e aveva sempre un fondo di verità. Per questo suonavano come le più cattive. Diego era il “capitano cuore-di-pietra”, il bello e impossibile, uno che avrebbe avuto sicuramente una carriera più proficua in uno spot di Paco Rabanne. Pelle costantemente abbronzata, capelli scuri sistemati in un ciuffo preciso, e sopracciglio tagliato da una cicatrice in più punti, giusto perché non sembrava abbastanza stereotipato. Ah, aveva anche due occhi blu e giganti: la morte di ragazze, donne, vecchie, bambine. Diego andava a genio a tutto il genere femminile, ma tra gli uomini in pochi riuscivano a parlare di lui senza ficcare qualche insulto gratis nella descrizione.
Claudio, incredibilmente, non seppe come replicare, e Loris gli sfregò la mano sulla spalla bisbigliandogli che “Ha solo bisogno di attenzioni, lascialo fare”. Era vero che Claudio era quasi svenuto tre o quattro volte in campo e aveva proprio perso i sensi altre due volte. Era capitato anche a scuola, a quanto pareva, ma meno spesso. I medici l’avevano sempre preso come un calo di zuccheri o di pressione, soprattutto quando sudava o si sforzava più del dovuto. Il suo fisico era prestante, ma poteva avere quei picchi di benessere e subito dopo collassare, per uno sforzo muscolare a cui Claudio, impegnato sulla partita, non faceva mai caso. Non gli faceva mai piacere che le partite venissero interrotte a causa sua, e ancora meno che i compagni iniziassero a pensare che svenisse apposta per attirare l’attenzione. Era una grossa seccatura di cui avrebbe fatto volentieri a meno.
Nathan si svegliò e iniziò a bofonchiare qualcosa nel suo buffo accento americano, qualcosa come, “Se vi drogate troppo poi vi fate la cuoca”, così gli animi s’alleggerirono e non ci furono altre frecciatine sino al nostro arrivo ad Ulzio. Recuperammo ognuno il nostro borsone e seguimmo mio padre che, merito probabilmente del buon umore mattutino e delle gambe scattanti, era già quasi arrivato davanti alla pensione che ci avrebbe ospitato durante quella settimana. Era decisamente una casa di montagna: tutta su un piano, composta da due camerate e una sala pranzo stile mensa per i poveri, le fondamenta che sembravano voler smettere di reggere da un momento all’altro. Per lo meno, il paesaggio era mozzafiato: odore di pulito, verde brillante, alberi sporadici in quel punto ma che s’infittivano giù per la discesa creando un piccolo bosco, e le montagne tanto grandi e vicine da sembrare che s’affacciassero su di noi.
Mio padre aspettò che ci raggruppassimo, poi tirò fuori dalla tasca un foglietto e si schiarì la voce.
«Spero non abbiate sperato un solo secondo di potervi distribuire come vi pare nelle camerate» Iniziò, e già lì sentii Diego pregare con un: “Non con Ferrari, non con Ferrari”, che poi era il cognome di Claudio, a voce abbastanza alta da farsi sentire dall’interessato, giusto davanti a lui.
«Vi ho suddiviso in ordine alfabetico perché, come vi ho detto qualche giorno fa, qui godiamo di un servizio speciale…»
«Quello della cuoca?» tossicchiò Nathan e noi trattenemmo a fatica le risate.
«Alla fine della giornata vi basterà lasciare la roba, che spero abbiate etichettato, fuori dalla camerata, e delle gentilissime signore la laveranno per voi per poi lasciarvele ai piedi del letto la mattina dopo, probabilmente mentre starete ancora dormendo. Quindi vi pregherei di sistemarvi nei letti in ordine alfabetico, per non farle dannare, poverine»
«Eh, poverine» Gli fece eco Nathan. Mio padre lo ignorò e si apprestò a leggere la lista.
«Quindi, in poche parole, nella camerata a sinistra si apposteranno, in quest’ordine: Marco, Abu, Ludovico, Claudio, Lorenzo, Loris e Antonio. In quella a destra: Nathan, Diego, Nicola, Michele, Sandro, Simone ed io. Tutto chiaro?»
Quando concluse, calò uno strano silenzio, c’era chi si guardava intorno alzando le spalle, chi era sinceramente sollevato e chi si metteva una mano dietro il collo, insoddisfatto. Ma non era andata troppo male: l’accoppiata vincente, Ludovico e Marco, era intatta; i migliori amici per sempre, Nicola e Sandro, erano insieme, e anche a me era andata… un momento…
«Te ne sei reso conto, eh?» mi chiese Loris nel momento in cui sembrò che un fantasma mi fosse passato davanti. A quanto pare ero impallidito istantaneamente. Secondo la scaletta di mio padre, io avrei dovuto dormire accanto a Claudio? Dio no, sarebbe stato un suicidio! Ero ancora lì a boccheggiare quando Loris mi toccò il braccio:
«Vuoi che cambiamo posto, io e te? Tanto che differenza fa?» Annuii come un robot, senza neanche girarmi a guardarlo. «Anche se questa era la tua occasione…»
«No, non ce la faccio, lasciami perdere, ok? E giuro che ti sfondo a calci se non la pianti di parlare a sproposito» Gli bisbigliai, ripreso dallo shock.
«Va bene, tranquillizzati. Sei un nervo unico». Loris alzò gli occhi al cielo e mi fece cenno di muovermi, ché gli altri stavano già entrando.



«Cos’è sto schifo?»
Come da copione, Ludovico commentò le condizioni della stanza con un lato della bocca piegato all’ingiù.
«E’ solo una settimana, Ludo, abituatici» gli ricordò Loris gettando il borsone con noncuranza su un letto.
«Ah, avete fatto cambio?» domandò Claudio quando notò che avevo posizionato la mia roba lontano da lui.
«Per forza. Già mi dà fastidio respirare la tua stessa aria».
Loris si voltò di scatto a guardarmi quasi volesse uccidermi. L’avevo fatto di nuovo. La sola idea di potermi rammollire soltanto davanti a Claudio mi metteva i brividi. Non volevo cambiare per nessuno, figuriamoci per il mio biondo amore segreto, quello che nascondevo da quasi tre anni, che nessuno avrebbe accettato, lui per primo, io per secondo. Immagino che davanti ad ogni altra cosa, io fossi un codardo come pochi altri nel mondo. Col temperamento che avevo, avrei potuto tranquillamente gridare ai quattro venti quello che provavo senza pensarci due volte, ma no, avevo troppa paura, la fifa mi paralizzava. Paura di qualunque cosa, pregiudizi, reazioni, rifiuto, emarginazione, insulti, imboscate, discriminazione. Per un ragazzo di quell’età, il giudizio degli altri era ciò che di più importante potesse esistere. La reputazione, l’orgoglio, la dignità. Tutte cazzate che si scioglievano la notte nel mio letto mentre piangevo col cazzo moscio in mano.
Mi chiedevo come facesse, Claudio, a sopportare tutto quello senza battere ciglio.
«Come vuoi» disse, come se le mie parole gli fossero entrate da un orecchio e uscite dall’altro. La rabbia mi solleticò la nuca.
«Hai mica paura che ti assalga di notte? Abbassa un po’ la cresta, che a te manco i gay ti filano» mi sfotté Marco con la faccia dell’uomo di mondo. Lui era il pel di carota della squadra, aveva questi capelli rossicci arrangiati in una specie di orribile caschetto, e l’occhio verde e vispo. Non sembrava vero, eppure aveva orde di ragazze ai suoi piedi, quasi quante ne aveva Diego. Certo, Marco era decisamente più sopportabile, meno reginetta e più terra terra. Uno con cui è divertente uscire a bere una birra ed abbordare ragazze. Se io avessi potuto, almeno.
Al suo complimento gratuito risposi con un cuscino in faccia.
«Ah sì?» Marco prese il suo, di cuscino, e mi colpì dritto sullo stomaco.
«Fighissimo, anche io!» si esaltò Ludovico, diede una gomitata ad Abu, e tutte e due si infilarono nella mischia, mentre Claudio, Loris e Antonio guardavano da un angolo, chi con gli occhi rivolti al cielo, chi con la mano sulla fronte.
«Sembrano quattro amiche a un pigiama party» commentò Loris e Claudio annuì.
«Com’è che Lorenzo non è venuto fuori come te?» gli chiese Antonio sorridendo tra sé e sé, e l’altro si girò stupito a braccia conserte, soprattutto perché non era roba di tutti i giorni vederlo sorridere.
«E’ un complimento?»
«Guardate che vi ho sentito!» urlò Ludovico per poi fiondarsi sui tre nell’angolo e riuscendo a prendere solo Claudio, che poi era l’unico a non aver detto una parola. «Tieni, prendilo!» Ludovico passò letteralmente il povero Claudio ad Abu, che poi lo spinse verso Marco, che ovviamente me lo lanciò contro. Finimmo su di un letto, Claudio confuso su di me, ancora più confuso di lui. Eh, no, eravamo arrivati da mezz’ora, non potevo trovarmi già in quelle condizioni. Claudio tentò di ricomporsi, i capelli sottili che tremavano ad ogni movimento, la bocca screpolata contrassegnata da un neo sul labbro superiore che mi sfiorava il mento, e io che ero pietrificato è dir poco. Solo nel momento in cui Marco fece: “Ehi, piccioncini, vi volete muovere?”, riuscii a sbloccarmi e a spingere via Claudio con un “E lévati!” spompato. Il cuore mi batteva in testa.



«Ragazzi, prendete, una ciascuno!» a smorzare la tensione ci pensò Nathan, appena comparso magicamente nella stanza. Lanciò una pastiglia bianca ad ognuno col suo ghigno sghembo e gli occhi quasi del tutto chiusi. «E’ per festeggiare l’arrivo in un albergo lussuoso, accogliente e profumato come questo!» si giustificò mostrando i denti  giallognoli. Diamine, sembrava già strafatto.
«Ecco a cosa serve avere uno straniero in squadra! Ti procura tutta roba buona. Vero, Abu?» fece Ludovico per poi mandare giù la sua pillola.
«Che vuoi?»
«Sei straniero anche tu, eppure niente roba da parte tua»
«Sono più italiano di te» Ribatté quello senza troppa enfasi, e si intascò la pillola, probabilmente intenzionato a disfarsene il prima possibile senza che qualcuno lo mandasse al diavolo.
«Boom, preso!» esclamò Marco, che ricevette un’altra cuscinata in pieno volto.
«Quanto dura questa roba?» chiesi a Nathan prima che potesse squagliarsela.
«Che ne so, un paio d’ore?»
«Quanto?!» Ludovico tossì nella speranza di farsela tornare su dall’esofago. Geniale. «Ma non ci vorranno fare allenare adesso, vero?»
«No, credo che come riscaldamento andrà bene una briscola a undici» rispose Nathan, chiaramente ironico, ma Ludovico non colse ovviamente il senso. «Ti pare? Il capitano mi ha chiesto di dirvi di prepararvi, ché tra un po’ scendiamo ai campetti». E, riferito il messaggio, scappò via più euforico del solito.
«Dovevano mettere per forza quel buffone di Martini a fare il capitano?» si lamentò Ludovico riferendosi a Diego.
«E’ un ragazzo abbastanza responsabile» fece Loris dopo aver raccolto tutte le pillole e averle messe in un cassetto. Ovviamente aveva diretto una poco riconoscibile frecciatina a Ludovico, che s’era ingoiato la pastiglia senza neanche dare il tempo ai suoi due neuroni di mettersi d’accordo. Ma lui non afferrò nemmeno quella frecciatina.
«C’è di meglio. Come te o il buddhista».
Con “buddhista” intendeva Michele, che aveva passato un periodo mistico di un paio di settimane in cui credeva di aver cambiato religione. Loris mosse una mano come a voler scacciare una mosca e si piegò ad allacciare le scarpe. Claudio invece stava guardando Antonio, e la cosa non mi andava proprio a genio. L’avevo già notato in passato: gli lanciava occhiate insistenti quando lui guardava altrove, quasi fosse incantato su qualche particolare. E cosa peggiore di Claudio che si prendeva una sbandata per mio fratello era che se la prendesse per il mio migliore amico. Chiaramente più figo e attraente e risolutivo di me. E sembrò notarlo anche qualcun altro.
«Ehi, Cla, ti piacciono le tette di Antonio? Lo fissi da cinque minuti buoni» rise Marco, e Antonio lo guardò di sottecchi, come se davvero non potesse fregargliene di meno, o come se lo avesse interrotto nel mezzo di un lavoro urgente e di vitale importanza.
«Eh, vedi di non farci vergognare. Magari evita di fissare il centravanti avversario» aggiunsi senza riuscirmi a trattenere, e Marco mi allungò un cinque, che ricambiai con finto slancio. Vidi Claudio tornare mesto sulle proprie scarpe, Antonio puntare lo sguardo perforante su di me e Loris scuotere la testa prima di prendere il borsone e uscire all’aria aperta. Mi bruciavano occhi e gola, e le mani formicolavano, quasi a voler afferrare una redenzione che a ogni mia frase poco pensata sembrava allontanarsi e sparire nella nebbia che avevo in testa.



 

 



***

 

   
 
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