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Autore: Sheep01    23/02/2016    2 recensioni
“Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato, prima o poi.”
Clint si trovò ad osservarlo ancora una volta con stupore. Non era da Coulson parlare a quella maniera, non usare quel tono afflitto, sconfitto.
“Avete ingaggiato i migliori, Phil… il governo non arriverà certo prima di noi.”
“Magari non questa volta. Ma la prossima volta che succederà? Quando riusciranno a dimostrare quanto siamo superflui, smetteranno di affidarci qualsiasi tipo di lavoro.”
“Ma che stai dicendo?”
“Sto dicendo che dovremo cominciare a vedere come atterrare senza uno schianto, Barton.”
---
New York, la sua periferia, pioggia sporca che porta afflizione e la tecnologia che lentamente sta prendendo il posto della manodopera umana. Uno scenario dal sapore futuristico. Un'organizzazione da salvare. Pochi superstiti su cui fare affidamento.
Genere: Azione, Dark, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agente Phil Coulson, Altri, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Sorpresa
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 18

 

 “Come lacrime nella pioggia…”

(Blade Runner)

 

*

 

Gli faceva male la testa. Quel dolore che si insinuava sotto le palpebre, che sapeva non gli sarebbe passato tanto presto. Aveva dormito troppo, o troppo poco. In ogni caso restare fermo a fissare il soffitto sembrava l’unica attività utile per passare il tempo.

Quella o cominciare a prendere a testate i muri. Per farsi passare il dolore o tentare di stordirsi a tal punto da non pensarci.

Quando sentì aprirsi la porta della stanza (preferiva chiamarla stanza – cella era un po’ troppo melodrammatico per i suoi gusti) non si diede nemmeno la pena di abbassare lo sguardo per vedere chi fosse. C’era solo una persona che veniva a fargli visita. E francamente era stufo di vedere quella sua stupida faccia, dall’unica, incomprensibile espressione.

“Caffè, Barton?”

L’ultima offerta che si sarebbe atteso di sentire. L’unica che gli fece abbassare lo sguardo per squadrare l’agente Coulson… per capire se non lo stesse prendendo per il culo.

Ma il bicchiere di caffè era nelle sue mani e l’aroma non ci mise molto a stuzzicargli le narici.

Si mise seduto, tentativamente, cercando di dimenticare il mal di testa, vivido e pulsante.

“L’ultima cosa con cui credevo avresti avuto il coraggio di corrompermi, agente Coulson”, lo apostrofò, sperando che, nonostante quello, il caffè glielo avrebbe offerto comunque.

“Nessun tentativo di corruzione, siamo pur sempre un’agenzia governativa”, gli disse, passandogli il bicchiere fumante, “non so se lo prende amaro, ci ho messo poco zucchero.”

“Lo prenderei anche con una manciata di sale, tanto ne ho sentito la mancanza in questi giorni.”

L’uomo gli rivolse un sorriso: ormai poteva dire quando sorrideva per davvero o quando lo fissava impassibile solo con le labbra piegate all’insù. Un progresso, in tre giorni. Forse stava cominciando ad inquadrarlo. O forse no. Non che gli importasse. Il suo potere, in quel contesto, era proprio ridotto ai minimi termini. Interrogatori a non finire per tre giorni, senza cavarne un ragno dal buco. Sicuro stava cominciando a diventare frustrante per loro, tanto quanto ormai lo era per lui.

Non aveva fatto niente di male. Solo era andato in giro a fare troppe domande per una storiaccia in cui erano stati coinvolti dei terroristi o presunti tali. Niente polizia. Un interrogatorio con la CIA – o sa il cazzo di come si chiamavano veramente – per direttissima. Era la prima volta che finiva nei guai con un’agenzia di intelligence. Magari avrebbe potuto metterlo sul curriculum.

“Dunque sentiamo: quali sono le strabilianti proposte di oggi?”

Oltre agli interrogatori, erano tre giorni che Coulson tentava pateticamente di sottolineare di come alcune delle sue… particolari abilità sarebbero state utili al servizio della legge… quella istituzionalizzata.

Coulson posò sulla piccola scrivania, posta su un lato dello stanzino asettico, un plico di fogli.

“Nessuna proposta, Barton. La lasciamo andare.”

Per poco non gli andò di traverso il caffè.

“C-come?”

“Già. A quanto pare non abbiamo altre scuse per trattenerla. Le prove sono risultate insufficienti e dunque… la lasciamo andare.”

“Ah! Dove devo firmare?”

“Fuori, alla reception. Un paio di scartoffie per il rilascio.”

Clint non si fece ripetere due volte la buona notizia. Il caffè però non lo lasciò.

“Bè, è stato bello e tante care cose!” disse, superandolo, per qualche istante.

“Barton…” si sentì richiamare e, solo per una sorta di sorda gratitudine per quel caffè che sapeva di polvere, si fermò in mezzo alla stanza.

“La prego di prendere in considerazione la proposta che le ho fatto in questi giorni.”

“Fossi matto.”

“Barton”, lo vide riprendere in mano la cartellina e porgergliela, “almeno si prenda qualche giorno per pensarci.”

“Non ho bisogno di qualche giorno, ho già deciso…”

Ma Coulson non mollava. Continuava a porgergli quella cazzo di cartellina, come se ne andasse della sua stessa vita. E, cosa più inquietante, aveva smesso di sorridere. O di mostrare quella sua espressione estatica e beata.

Clint, che sentiva già il profumo della libertà, si scoprì di buon umore, nonostante il mal di testa e il caffè di sabbia, quindi recuperò la cartellina. Che male avrebbe mai potuto fare?

“Ci vediamo presto, Barton.”

“Ti piacerebbe.” Disse, cercando di godersi appieno quella temporanea soddisfazione.

L’aria frizzante di ottobre gli riempì le narici una volta fuori da quelle austere quattro mura.

La città faceva schifo esattamente come la ricordava. Pioveva meno del solito comunque. Perciò la considerò una buona giornata, dopotutto.

Gettò il caffè nel cestino più vicino e fu tentato di fare lo stesso anche con la cartellina di Coulson.

Ma si fermò a mezza strada, proprio quando realizzò che quel caffè era proprio una schifezza e… che non aveva soldi per comprarsene un altro. O che l’unico posto in cui avrebbe potuto tornare era quel suo diroccato ufficio in periferia… finché non fossero arrivati quelli dello sfratto a cacciarlo fuori a calci in culo. E ricordò improvvisamente di come l’impianto bionico che gli permetteva di usare ancora l’udito, ultimamente, aveva cominciato a produrre fischi tutt’altro che incoraggianti.

Le prospettive si facevano sempre meno rosee. La sua vita era precipitata in un vortice tutt’altro che positivo da quando i federali, o quell'organizzazione di cui faticava a ricordare la sigla, erano arrivati con le loro indagini del cazzo a ficcare il naso nelle sue, di attività investigative. Gli avevano portato via, letteralmente, tutto ciò che possedeva.

Era un uomo finito. E lo sapeva. A soli ventiquattro anni… si sentiva un uomo finito.

Nelle tasche un portafoglio vuoto, un buono per un biglietto gratuito del cinema… e quella cazzo di cartellina che Coulson aveva voluto a tutti i costi che portasse via con sé.

Decise di risparmiarle un volo per direttissima dentro il cestino della spazzatura.

Al cinema davano di nuovo Blade Runner. L’ennesima riedizione rimaneggiata per renderlo sempre più incomprensibile.

Umore e clima erano quelli giusti per dare un’altra possibilità a Blade Runner.

Nel caso si fosse scoperto troppo annoiato… allora avrebbe aperto quella stupida cartellina.

 

*

 

Aveva freddo. Troppo freddo.

 

Solo i morti hanno tanto freddo.

Ma i morti non sentono freddo.

 

Allora non era morto. Eppure il gelo sembrava non volersene andare e le braccia, le gambe, le palpebre erano così pesanti…

Coulson.

Non doveva forse tornare dall’agente Coulson?

Doveva dirgli che dopotutto… la sua proposta non era poi così male. Solo aveva un certo problema a gestire l’autorità. Era giusto che lo sapesse.

Magari sarebbero giunti a un compromesso. Dopotutto lo aveva cercato lui.

Doveva muoversi ma non poteva… muoversi.

Come lacrime… nella pioggia.

Dalla cortina di fumo comparve un volto conosciuto. Pazzesco. Il cinema in treddì aveva fatto passi da gigante. Gli sembrava quasi di poter toccare il volto di Harrison Ford che arrivava direttamente dal passato con quella sua smorfia da canaglia, in una delle sequenze conclusive più iconiche della cinematografia di fantascienza.

E poi quel volto prese a sfigurarsi fino a diventare più familiare di quanto si fosse mai aspettato…

“Agente Coulson.”

“Ha cambiato idea, signor Barton?”

“Solo se la smetti di darmi del lei.”

“E questo è il tizio che dovrei allenare?”

Capelli biondi, sguardo sfrontato. Il viso di Coulson si era sfaldato per lasciar trasparire i lineamenti di una delle donne più irritanti che avesse mai conosciuto.

“E’ un po’ che stiamo insieme, Bobbi…”

“Cos’è, un modo carino per dirmi che vorresti lasciami?”

“In realtà vorrei sposarti.”

Rabbrividì di nuovo. E le mani, che stringevano un anello troppo piccolo per essere davvero prezioso, adesso sfogliavano le pagine di un pesante fascicolo dello SHIELD.

“La chiamano Vedova Nera.”

“Vedova Nera, ma che razza di nome è?”

“Non è il mio nome.”

Alzò lo sguardo e Natasha lo stava guardando, un misto di divertimento e malizia.

Le sorrise di rimando, prima di trovarsi a stringere le dita su una chiave.

“Questa te l’ho regalata… perché me la restituisci?”

“Non sono sicura che potremo tornarci insieme, sai?”

“Che significa?”

“Che non sono sicura che potremo tornarci insieme… vivi.”

Una risata strana prese vita dalla sua gola, prima di rendersi conto che quel gelo no, non se ne era ancora andato.

Il volto di Natasha divenne quello di un clown dalla pelle grigia, prima che gli occhi pallidi, riconoscibili di Barney non gli si puntassero addosso.

“Niente è come sembra”, disse. E d’improvviso fu come se tutto l’ossigeno che aveva scordato di respirare in quel lasso di tempo venisse spinto a forza nei suoi polmoni, fino a farglieli bruciare.

La nebbia che lo aveva avvolto fino a quel momento prese a diradarsi. E l’oscurità lo inghiottì, non appena gli sembrò di aprire le palpebre.

 

L’oscurità e le luci intermittenti di un numero indefinito di macchine e terminali.

Era vivo. Dopotutto era vivo. O almeno così gli parve.

La testa era solo un agglomerato di dolore sordo e diffuso.

Ci mise qualche secondo per ricordare dove fosse e cosa stesse facendo. Solo un istante per ricordare l’improvvisa follia di Barnes, i messaggi confusi che era solo riuscito ad intuire prima che gli sparasse… in testa.

Si tastò tentativamente la fronte, trovando immediatamente l’anomalia.

Il proiettile doveva essersi incastrato fra le lamine rinforzate del suo apparato bionico. Non era sicuro di voler sapere in che razza di condizioni fosse la sua faccia in quel momento. Per la prima volta dacché aveva perso l’udito – qualcosa come triliardi di anni prima – si trovò a benedire l’insperata fortuna di un tale marchingegno tecnologico. Il fatto che probabilmente lo avesse compromesso per sempre… fu un pensiero di poco conto.

Si rimise a sedere solo per realizzare che di corpi a terra ce ne erano due: uno, quello di Barnes steso al suolo e l’altro quello di Natasha, seduta accanto al primo e mantenuta in quella posizione da una forza sconosciuta. Non riconobbe in lei alcun segno vigile. Le palpebre erano semi aperte, ma lo sguardo sembrava spento, fisso.

Mentre di Barney… no di Barney non c’era traccia alcuna.

“N-Natasha…” biascicò, rendendosi conto di avere serie difficoltà ad articolare le parole. Il proiettile non gli era finito nel cervello, ma doveva aver infiammato qualche terminazione nervosa.

Il formicolio nella parte destra del viso gli suggerì che doveva essere così.

Cercò di rimettersi in piedi, provando a raggiungere il corpo esausto di Natasha.

Strisciò sui gomiti, nel tentativo di riportare attivi i muscoli, ma finì per raggiungerla in quelle condizioni, aggrappandosi a lei per rimettersi dritto e poterla scuotere.

“Nat… Natasha!” esclamò con tutta l’enfasi che riuscì a metterci, prima di vederla sussultare, come scossa da un brivido e voltare lentamente la testa nella sua direzione.

“Clint”, esalò in parte incredula, in parte esausta, distrutta. Il dolore vivo sul suo viso e nel suo sguardo.

La vide sgranare gli occhi prima di gettarsi su di lui, e stringere la presa. Non aveva bisogno dell’udito per comprendere che gli stava dicendo qualcosa, che non la smetteva di dire qualcosa.

Ma Clint non capiva, avrebbe almeno voluto leggerle le labbra ma, così stretto come lo teneva, non riusciva a recepire altro che il suo fiato caldo sul collo.

“Natasha… a-abbiamo ancora una cosa da fare.”

La sentì annuire, scostarsi di malavoglia, gli occhi atterriti, ma con la volontà evidente di recuperare il controllo.

“Mi ha spezzato la mano…” gli sembrò di leggerle sulle labbra. Abbassò lo sguardo solo per constatare lo stato di quelle dita ora piegate innaturalmente ad artiglio. Poteva percepire il tremolio delle sue membra; cercò di non pensare che la sua Natasha avesse appena fatto a pezzi un uomo, con quelle sue mani. E sperò che lei riuscisse a superare momentaneamente quell’attimo di puro shock per smuovere quell’assurda situazione.

“Dimmi cosa devo fare, Nat”, la guardò dritta negli occhi, spronandola a mantenere viva la concentrazione, “la f-finiamo insieme questa storia.”

“E… Barney?”

“Barney è l’ultimo dei nostri problemi in questo momento.”

La vide annuire e provare ad alzarsi. Il dolore le contrasse il viso ancora una volta, mentre la mano ormai distrutta andava a coprire lo stomaco come vi fosse annidato un dolore incontenibile.

Nonostante questo gli allungò il braccio bionico affinché ci si aggrappasse e lo aiutò a rimettersi in piedi. A raggiungere il terminale, a sostenerlo, nonostante tutto.

“Un passo alla volta, Natasha. Lo sai che io con questa roba… ho sempre voluto averci poco a che fare.”

La donna annuì una sola volta e cominciò a dargli istruzioni.

 

*

 

Kate era sicura di non aver mai assistito a un macello simile.

Sì, d’accordo, solo tre anni prima erano passate per televisione le immagini del disastro dell’Expo, ma erano, appunto, solo immagini, filtrate dai cristalli liquidi di un mega schermo.

Era ancora un’universitaria piuttosto indecisa su quello che avrebbe voluto fare della sua vita. Combattuta tra il prendere una dannata laurea in economia e seguire le orme di suo padre o… seguire il cuore e le aspirazioni personali che la portavano a saltare le lezioni per andare a tirare con l’arco in quello sgangherato poligono di tiro ai limiti della città.

Era lì che aveva conosciuto Clint Barton. Lì che Clint Barton le aveva detto di prenderla sì, quella cazzo di laurea in economia e poi di tornare… per capire che farne, non necessariamente per seguire le orme di un padre dall’impero corrotto.

Barton. Quel maledetto Barton. Imprigionato, esattamente come tre anni prima, in quella diabolica trappola di cristallo e cemento. E, esattamente come tre anni prima, si trovò ad osservare il palazzo ormai in fiamme, con lo stomaco che si divertiva a ballare il mambo con la sua cena.

Eppure esserci in mezzo, stavolta, era totalmente diverso. Non c’era tempo per provare il brivido della paura, quello della compassione o del dolore.

Il suo sguardo, i suoi sensi, si limitavano a registrare gli eventi, a conservarli, forse per una memoria futura.

Mentre tutt’intorno polizia e forze dell’ordine cercavano di contenere quell’orrore urbano.

Cyborg di ultima generazione e tubolari della polizia. Polizia in divisa antisommossa e militari a tenere il più lontano possibile i civili dall’occhio del ciclone.

I vigilanti (o così almeno le era parso di capire li chiamasse Stark) davano il loro contributo; su tutti, il maestoso Capitan America dirigeva le operazioni di evacuazione dei vigili del fuoco con ammirevole freddezza e dedizione.

Lo stesso Capitan America di cui aveva letto sui libri di storia.

Praticamente una leggenda vivente che combatteva al fianco di robot e polizia, senza che nessuno avesse la più pallida idea di chi lo avesse autorizzato – non che qualcuno si fosse posto il problema di allontanarlo o, alla peggio, arrestarlo per questo.

“Ragazzina, tira dentro la testa se non vuoi fare la fine di Maria Antonietta e tutti i suoi più spregevoli sudditi!” la voce di Stark la richiamò dentro al furgone, ma Kate era già a un passo dall’uscire perché il suo sguardo era finito oltre. Oltre la cortina di fumo, oltre le scie di civili in fuga, lontano dalle vie principali della città. A individuare un agente colpito, impossibilitato a muovere un solo passo verso la salvezza.

“Ehi! Bishop! Bishop, torna indietro!” la voce dell’uomo era ormai troppo lontana. Kate si tenne rasente al muro di uno dei palazzi adiacenti. Erano solo cento metri, poteva farcela, poteva aiutarlo.

Si precipitò a testa bassa per evitare detriti e lanci di proiettili, finché non ebbe raggiunto la donna che aveva riconosciuto ancora prima di capire che stava andando a soccorrere proprio lei.

“Agente Morse!” esclamò.

“K-Kate?”

“Ti sembra il caso di restartene qui sdraiata in mezzo la strada, a riposare?” disse, raggiungendola, rendendosi conto che doveva avere una gamba rotta… oltre a una vistosa fasciatura al braccio.

“S-sai com’è… non riesco a dire di no a un comodo t-tappeto di cemento.”

Kate fece leva sotto le braccia, aiutandola a rimettersi in piedi.

“Non faccio fatica a capire perché tu e quel deficiente di Barton eravate sposati.”

“Perché siamo una coppia da copertina?”

“No, perché avete un umorismo di merda.”

La donna si lasciò sfuggire un gemito ma non accennò una sola lamentela mentre veniva trascinata via.

“Clint è ancora là dentro, vero?” la sentì domandare, mentre si avvicinavano sempre più al furgone di Stark.

“Già… quando si parla di ottime idee…”

“Siamo stati allertati della sua presenza da un avviso della polizia… arriviamo qui… e il palazzo era in fiamme e sputava orde di robot assassini…”

“Non puoi dire che Barton sia una persona con cui ci si annoia.”

“La cosa peggiore è che non l’ho mai… detto.”

Kate aprì la portiera laterale del furgoncino, aiutando l’agente Morse a salire.

“Bishop! Ma che cazzo! Ti pare un’ambulanza questa?”

“Sta' zitto, Stark.”

“S-Stark?” Bobbi alzò la testa appena in tempo per rendersi conto che il viso che stava osservando non era altri che quello del compianto milionario.

“In carne… abbrustolita e ossa?”

Kate frenò una sequela di domande che era certa la Morse non si sarebbe risparmiata. I guai legali di quella nuova scoperta non erano niente a confronto con quello che stava succedendo là fuori.

“Le domande a dopo…. dobbiamo andarcene da qui.”

“Se tu non te ne fossi uscita in gita di piacere, ce ne saremmo andati da un pezzo.”

Il motore fremette per un istante, prima che qualcosa di enorme non esplodesse sul parabrezza, facendo sobbalzare l’intero furgone.

“Che cazzo sta succedendo?” strillò la Jones al volante, ritrovandosi intrappolata da un air-bag di cui non sapeva nemmeno il furgone fosse dotato.

Stark era rimasto pietrificato ad osservare la scena, mentre Kate, sporgendosi, riusciva ad individuare un cyborg spiaccicato come un moscerino sul parabrezza ormai distrutto.

Seguirono altri rumori, tonfi attutiti più o meno vicini al punto in cui si erano fermati.

Kate tornò a riaprire la portiera laterale del furgone.

Al di là di una cortina di polvere e fumo, di pioggia sporca e proiettili, corpi di cyborg crollavano al suolo uno dopo l’altro come un nugolo di mosche colpite dalla folgore.

La guerriglia cominciava a quietarsi, a spegnersi, attonita di fronte all'inatteso spettacolo, mentre gli invincibili avversari crollavano, uno dopo l’altro, disattivati da una forza sconosciuta.

Lo sguardo corse allora oltre la strada, oltre la piazza, oltre gli sbarramenti di tubolari robotici, e su per i piani del palazzo in fiamme, su, fino a raggiungere le cima dell’inferno di vetri infranti, cuore pulsante di quel disastro annunciato.

E l’unica certezza che Kate ebbe in quel preciso istante… fu che Barton era ancora vivo.

 

*

 

Lo schermo emise un rumore inaspettato. E poi si spense.

Clint fu improvvisamente certo che era finita. In un modo o nell’altro… finita.

Natasha al suo fianco lo lasciò andare, crollando a terra, lasciandosi finalmente vincere dallo sfinimento. E lui non fu da meno nel seguirla lì, sul pavimento lucido in cui si riflettevano tutte le luci a intermittenza di quella sala buia.

“Non avremmo potuto fare più di così”, mormorò solo, indeciso se gridarlo o se perdersi nel silenzio catartico di quel preciso istante.

Era esausto. Ed era sicuro che non sarebbe riuscito a trascinarsi fuori da quel posto. Così come non ci sarebbe riuscita Natasha. Non poteva avvertire che il rumore delle esplosioni tutt’intorno si era quietato, non il crepitio del fuoco che divampava in un po’ tutte le aree del palazzo. Ma poteva vedere il fumo, quel fumo denso, oscuro che aveva preso a filtrare dai bocchettoni d’aria della stanza.

Contrariamente a qualsiasi buon senso non ne fu spaventato.

Erano riusciti a fermare i cyborg. Erano riusciti a chiudere il programma. A inviare, secondo richiesta di Natasha tutte le informazioni riguardanti il progetto a Stark, e sì, non avrebbero potuto fare più di così… letteralmente, non più di così.

Sentì il capo di Natasha poggiare sulla sua spalla, andò a cercare la sua mano, che si serrò attorno alla sua, di rimando.

Avrebbero aspettato.

Insieme. Qualsiasi cosa. Esattamente come l’ultima volta.

“Mi spiace di non averti cercato… in questi tre anni”, le disse, forse per svuotarsi la coscienza, o forse solo perché lo sentiva ancora, quel peso. Il peso di tutte le cose che si era perso in tre anni. Tutta la solitudine a cui l’aveva costretta, in tre anni. A quella in cui lui stesso si era obbligato a trincerarsi.

Di rimando sentì solo la presa alla sua mano farsi più forte; non gli ci volle uno sforzo per capire che Natasha non gli rimproverava un bel niente. Non più almeno.

Avrebbe voluto dirle altro. Rassicurarla che se anche là fuori fossero venuti a conoscenza del progetto Lazarus l’avrebbe tenuta al sicuro, l’avrebbe aiutata a sparire. Avrebbe voluto dare sfogo alle parole che non era riuscito a dirle sul tetto del palazzo solo qualche ora prima. Quando ancora non avevano idea di come si sarebbe conclusa quella storia.

Ma si limitò a restare in silenzio. A risparmiare il fiato, prima che la cortina di fumo nero non invadesse completamente la stanza.

Sentiva i sussulti del corpo di Natasha al suo fianco, sentì i suoi stessi polmoni collassare sotto la trappola mortale del fumo.
Strinse a sé la donna finché non ebbe più un solo briciolo di forza in corpo.

E poi si lasciò inghiottire dall’oblio.

 

*

 

C’era una luce.

Una cazzo di luce… alla fine del tunnel.

Era così che l’avevano sempre descritta, la fine.

Non ci aveva mai creduto ma… adesso sarebbe stato costretto a rivedere alcune delle sue convinzioni. Non che avesse poi molto importanza, ormai.

Da morto c’erano davvero cose che avevano ancora importanza?

La luce però era rassicurante.

Gli sembrava di sentirne il calore, sulla pelle.

Non faticò a credere a tutte quelle storie di gente che non riusciva proprio a distoglierne lo sguardo.

O di sentirsi un po’ come quelle cazzo di zanzare attratte dalla luce per poi venirne drammaticamente arrostite.

Perciò non si sottrasse a quell’influenza.

Ma di fatto era sicuro non si stesse muovendo. Solo quella luce diveniva sempre più intensa, sempre più materica, sempre più... somigliante a uno schiaffo in pieno viso.

“C-che cazzo... ?”

“Clint? Clint Barton, agente...”

La luce che lo stava accecando arrivava direttamente da una sottospecie di pila frontale.

Al di sotto della luce, il volto placido di Non-Jarvis ad osservarlo ad una distanza un po' troppo ravvicinata per i suoi gusti.

Represse un grido di stupore, prima che il cyborg si scostasse per dargli il tempo di respirare in modo decente.

“C-cosa? Che diavolo? Non sono…”

“Morto?”

Annuì, come a ricevere una conferma.

Il cyborg scosse la testa, prima di alzare lo sguardo sulla pioggia fitta che aveva preso a cadere all’interno dei locali.

“Meno male, s-sarebbe stata la terza volta nel giro di tre giorni.”

“L’impianto antincendio non ci tirerà fuori da qui, Clint Barton”, il cyborg non parve cogliere l’ironia, “credo dovremmo muoverci. E temo dovrai di nuovo affidarti alle mie… prestazioni.”

“Visione… un giorno parleremo in modo serio sul modo in cui ti esprimi” e poi di nuovo, “c-come hai fatto a trovarci?”

“Il signor Barton.”

“Il signor…”

“Tuo fratello. Credo. E’ sbucato dal tetto, mi ha suggerito dove trovarvi. A patto che lo aiutassi a scappare.”

“E t-tu lo hai… f-fatto?”

“Perché non avrei dovuto?”

Già, perché non avrebbe dovuto? Il bene e il male, il giusto e lo sbagliato. Barney avrebbe potuto ignorarli. O avrebbe potuto suggerire a Visione di farli fuori, per quello che ne poteva sapere… ed invece. Quanta umanità era rimasta… nel corpo di Barney?

Si ripromise di approfondire i dettagli di quell’evento in un altro momento. C’erano cose un po’ più urgenti da fare, adesso.

Fece per accettare la sua offerta a rimettersi in piedi, quando si rese conto che la propria mano era ancora stretta attorno a quella di Natasha. Rigida e fredda.

“Non respira da un po’”, sentì dire alla voce placida del cyborg, mentre una glaciale consapevolezza gli scendeva nello stomaco.

“Portaci lontano da qui, Visione”, furono le ultime parole che disse.

 

*

 

Note:

Eeeeeeee, fine! Questo era ufficialmente l’ultimo capitolo della storia. Ma non temete, manca l’epilogo. Che verrà pubblicato la prossima settimana. Questo finale necessita di qualche spiegazione. E… anche se di regola odio gli spiegoni… stavolta avremo un finale degno.

Spero.

Con questo al solito rimando i ringraziamenti finali nell’epilogo, stavolta come sempre però ringrazio tutti quelli che leggono e commentano. La mia socia e beta Sere, come sempre in prima fila e… alla prossima settimana!

  
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