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Autore: Leonhard    08/03/2016    5 recensioni
Alla fine il suo mondo si era sempre ridotto a quello: un intero universo, il suo, che partiva dalla porta e finiva alla finestra. Ed in mezzo lui, in silenzio, ad interrogarsi sul perchè una cosa come quella era successo proprio a lui: un'altra domanda che non avrebbe mai avuto risposta. Aveva affrontato Streghe, Cavalieri, mostri di ogni tipo e poi era arrivato bello bello un RubRum Dragon che aveva provveduto a mettergli addosso una catena che mai, mai sarebbe riuscito a togliersi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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NOTA DELL’AUTORE

Salve a tutti e bentornati. Grazie della pazienza che avete avuto. Alla fine, il capitolo non è cambiato più di tanto, ma almeno adesso mi soddisfa abbastanza: è già qualcosa.

Il prossimo capitolo sarà l’ultimo e spero veramente che vi soddisfi come finale; per chi mi conosce, chi ha letto anche altro di mio sa che il mio concetto di lieto fine è molto, MOLTO, particolare. Anche qui, spero di non deludere le aspettative.

Ci leggiamo presto.

Leonhard.


 
TO CRY

Il Gunblade non s’inceppa mai: questa era la frase che ha promosso la diffusione di un’arma innovativa all’interno dell’esercito Galbadiano. Bisognava tornare indietro ai tempi della prima Guerra della Strega: allora la richiesta di armi copriva parecchie azioni di spionaggio e addirittura di sabotaggio tra le industrie di armi da fuoco e quelle bianche. La proposta di un ibrido che accontentasse entrambe le parti era sembrata veramente un’ottima idea e la prima cosa che Galbadia aveva pensato era stato darlo in dotazione all’esercito.

Ecco l’arma che ucciderà la Strega e porrà fine alla guerra. Spada o fucile? Perché scegliere, quando si possono avere entrambi! Il Gunblade, l’arma infallibile: non si inceppa mai.

Non si inceppa mai.

Non ci misero molto a capire che quell’arma non appianava le divergenze tra due mondi di armi valide: lei vendite dei Gunblade sotterrarono in poche settimane quelle di qualunque altra arma e presto le industrie non ebbero altra scelta se non quella di specializzarsi sul loro commercio e produzione. Gli eserciti continuarono la guerra con talmente tanti Gunblader che era strano trovare qualcuno sprovvisto.

Esthar ovviamente ci mise il suo: le falci erano a raggio inferiore, e vero, ma vogliamo mettere la comodità? La rapidità di estrazione nonché il perfetto bilanciamento. Qualcuno riuscì persino a trasformarlo in un’arma da lancio.

Spada, pistola e boomerang tutti insieme: si può desiderare di più?

La prima versione del Gunblade pesava nove chili da armato. L’esercito galbadiano chiamò pomposamente esperti del Gunblade chiunque fosse tornato da una battaglia con tale arma ancora in pugno e a guerra finita Galbadia contava ancora il maggior numero di fruitori di questa miracolosa arma, che mai una volta si era inceppata, mai una volta aveva fatto prigionieri.

Il Gunblade concepisce solo la morte, non ha importanza di chi.

Poche settimane successive i primi sconvolgenti clamori: i più fortunati se la cavarono con un’artrosi cronica, ma non mancarono casi di necrosi ossea. La spiegazione fu immediata, breve e lapidaria: troppo sbilanciato sulla lama.

E cosa si aspettavano? Che un metro di lama pesasse esattamente come venti centimetri mal contati di fucile? Della serie più sono grossi più sono stupidi. L’esercito ritirò l’arma dal suo contingente, riservandola solo ai pochi che ancora avevano il coraggio di impugnarla. Furono veramente molto pochi i temerari che osavano sfidare la sorte e guardare in faccia il rischio di una lesione che dava dolore cronico. Tra essi vi furono due giovani matricole del Garden di Balamb. Per entrambi fu un colpo di fulmine per quell’arma e poco gliene fregava dei rischi.

La prima volta che un undicenne Squall vibrò il suo Revolver si beccò un’infiammazione ai tendini del polso e per una settimana fece fatica anche a reggere la penna per scrivere. Il dolore era sordo e pulsante, ma ormai la sfida era stata lanciata e lui l’aveva raccolta: glielo si leggeva negli occhi ogni volta che si voltava verso il Gunblade datogli il dotazione dal Garden, un vecchio Revolver preso da chissà dove nel magazzino delle armi. La lama era scheggiata, il calcio scolorito in più punti e graffi e righe rendevano frastagliata la superficie del tamburo.

Ma nemmeno quell’arma si era mai inceppata.

La scrutava con gelo per ore, studiandone il profilo, saggiandone il peso e controllando il filo smussato con il polpastrello.

Non vincerai, bastardo. Non su di me, ti do la mia parola.

I giorni di convalescenza li passò a Balamb. Nel negozio di armi, la lama venne uniformata ed affilata, il calcio ridipinto ed il tamburo levigato. Non fu una spesa indolore, ma il badge del Garden di Balamb fornì l'indirizzo a cui spedire il conto e per le strade del paese fu avvistato un ragazzino con un Revolver in braccio.

Quando fu nuovamente in grado di imbracciarlo lo fece con ore ed ore di studio sulla sua tecnica e sulle sue caratteristiche: non si sarebbe limitato a saperlo usare, sarebbe diventato uno specialista. Il suo primo avversario fu un giovane ma non meno strafottente Seifer e si presentò davanti a lui con un Hyperion. Squall ebbe la peggio dopo pochi minuti e la risata sprezzante dell'avversario gli fece sentire più dolore in dieci secondi di quanto avesse fatto il polso in una settimana.

Fu quella, a sua memoria, la prima ed ultima volta che pianse.

Ma lì, in quel quando ed in quel dove, in quella camera d'ospedale, in quel momento in cui era sdraiato in mutande davanti ad un dottore che gli studiava le gambe, percepì nuovamente lo stesso dolore ed avrebbe allontanato l'uomo, se non fosse stato l'unico con il potere di fare qualcosa, se ci fosse stato effettivamente qualcosa da fare. La risonanza magnetica pose fine ad ogni dubbio.

“Signor Leonhart...” chiamò il dottore, con voce bassa e lenta, che fingeva abilmente solidarietà e cordoglio. “Lei ha una lesione al midollo spinale lombare, probabilmente dovuto all'attacco di quel drago. Dobbiamo ancora fare dei test e degli esami, ma non voglio mentirle: c'è la seria possibilità che lei perda l'uso delle gambe. Mi dispiace”.

Mi dispiace: la chiusura della frase preferita dai medici. Era una bugia, ovviamente: se avessero dovuto dispiacersi per tutti quelli che non uscivano dall'ospedale perfettamente sani sarebbero caduti in depressione dopo appena un mese, ma l'etica medica imponeva loro almeno un apparente empatia.

Squall non sentì quelle parole: la sua testa era un vorticante buco nero in cui rimbalzava solo la diagnosi. È probabile che lei perda l'uso delle gambe. Ma stiamo scherzando? Quell'uomo gli stava dicendo che lui, che a malapena sopportava un pomeriggio passato sul letto della sua camera e che avrebbe volentieri mangiato in piedi da quanto odiava star seduto, sarebbe stato costretto su una sedia a rotelle per il resto dei suoi giorni?

Non era divertente: come scherzo non faceva ridere nessuno.

Sentì i passi del dottore farsi più flebili, più lontani. Non si volse quando sentì la porta chiudersi con delicatezza: la sua attenzione era focalizzata sul lenzuolo che gli copriva le gambe, immobili ed ormai inutili. Si volse verso la finestra a contemplare il panorama: il gesto gli sembrò destabilizzante, lo sforzo immenso, peggio di una gita in montagna con Rinoa che gli saltellava esuberante qualche metro più avanti.

La porta si riaprì e passi cauti si avvicinarono a lui. Non si mosse, rapito com'era dal panorama fuori dalla finestra, o meglio dall'infinità di scene che gli passavano davanti agli occhi: passeggiate, combattimenti, gite, corse ed escursioni. Tutte cose che sapeva aveva perduto. Sentì una lieve carezza mentale in mezzo a tutta quella confusione colorata di eventi irripetibili e seppe che Rinoa si stava avvicinando. Lo chiamò piano, con la voce rotta ma seria, grave: il dottore aveva parlato anche con loro. Lui non si volse. Dalla parte della ragazza arrivò un sospiro.

“Io...non so cosa dire...” mormorò.

(Allora non parlare) pensò lui. (Cosa vuoi che ci sia da dire?).

Percepiva la cautela della ragazza, lo smarrimento, la paura di ferirlo più di quanto non lo fosse già ed il nervosismo di trovarsi davanti uno Squall rotto come non lo era mai stato. Tutto quello che seppe fare fu invadergli la mente con un carico di pace e di sollievo: lo fece delicatamente, senza forzare, fermandosi immediatamente ad ogni minimo cenno di resistenza per poi riprovare con cautela.

Rimasero lì insieme, senza parlare. La mente di Squall era invasa dal fiotto di sollievo che la Strega gli trasmetteva, ma non riusciva a confortarlo, né a consolarlo. Allora gli sfiorò la mano e, quando non ci fu alcuna reazione la strinse delicatamente, sempre in silenzio. Le parole erano superflue, inutili, anzi quasi pericolose: avrebbero avuto il potere di confermare ciò che entrambi sapevano, mettere sulla paralisi il timbro con scritto REALE e nessuno dei due voleva questo. Non ancora almeno.

Passarono pochi minuti, poi entrarono gli altri. Rinoa si volse, ma Squall non si mosse di un centimetro: così immobile sembrava una statua di sale.

“Ehi Squall” salutò Irvine senza enfasi. “Tutto bene?”. Domanda idiota numero uno: Selphie gli piantò nel fianco una gomitata adatta a tutte le occasioni. Fu la volta di Quistis.

“Abbiamo parlato con i dottori” disse. Si avvicinò al letto, ma Rinoa la fermò con lo sguardo, scuotendo la testa. Ripiegò sulla sedia contro il muro opposto e si sedette. “Ci sono ancora test ed esami da fare: non è detto che vada così”.

“Ah no?” commentò Seifer. “Sai, le tue lezioni erano noiose ma Anatomia la ricordo bene”.

“Seifer...!” ammonì Zell, grave. “Se proprio non riesci a tacere, almeno modera i termini”.

“Può essere una lesione parziale” disse Quistis scuotendo la testa. “In questo caso avrà bisogno di aiuto, ma sarà autosufficiente”.

“Avete finito?” ringhiò Rinoa. Nella sala tacquero tutti. “Non credo proprio che sia il momento”. Per la prima volta da quando era uscito il dottore, Squall si mosse. Si girò e guardò uno per uno i suoi amici, compagni di una squadra a cui oramai non avrebbe mai più preso parte: li guardò uno per uno, senza riuscire a capacitarsi di quanto sembrassero alti tutti quanti. Il suo sguardo era assente, vacuo, eppure pregno di un tale gelo da far correre sgradevoli brividi lungo le schiene.

“...fuori...” mormorò. In quel momento, la mente di Rinoa fu espulsa da lui con tale violenza che lei rintuzzò, lasciando istintivamente la sua mano.

“Squall...” chiamò la Strega. Tentò nuovamente di avvicinare la sua mente, ma trovò come una gigantesca saracinesca chiusa. Premette delicatamente una volta sola, ma quella non si mosse: il ragazzo non le permetteva di comunicare.

“Sicché...” mormorò ancora, tornando a guardare fuori dalla finestra. La voce era bassa e stentorea. “Un incontro casuale mi ha piazzato su una sedia a rotelle...”. Selphie scosse la testa, mentre Quistis si avvicinava a lui.

“Era un alfa, Squall...” disse, ma lui continuò come se nessuno l'avesse interrotto.

“...per colpa di un RubRum Dragon adesso dovrò portare il catetere a vita” constatò. Non disse altro ma non era necessario aggiungere altro: era stato volutamente definitivo. Lentamente, Rinoa gli cinse la schiena in un abbraccio.

“Ci siamo noi Squall” sussurrò. Zell annuì, cercando di assumere un'aria rassicurante.

“Ci mancherebbe!” esclamò. “Parleremo con i dottori, troveremo una quadra: puoi contare su di noi, su tutti noi”.


Altre risonanze, esami dei riflessi, reazioni a stimoli esterni, reazione al dolore: tutti gli esami che gli fecero portarono alla tanto sospirata diagnosi: la lesione era parziale, il recupero di parte della mobilità era possibile, ma non facile e nemmeno immediata. L'unica notizia che Squall dentro di sé giudicò meno schifosa era che almeno il pannolone se lo poteva risparmiare.

Venne registrato come paziente in riabilitazione e messo in lista. Due sedute al giorno, a cui a turno tutti quanti aiutavano, facevano domande ed ogni tanto gli parlavano, lo rassicuravano come potevano e come sapevano fare: Zell non faceva altro che sospirare alla birra di gruppo che avrebbero fatto tutti insieme, Irvine sogghignava a raccontargli i pettegolezzi che giravano sul pugile e la ragazza con la treccia, Seifer si comportava come se nulla fosse.

Rinoa lasciava raramente il suo fianco; parlava, sorrideva, ma una patina di preoccupazione non lasciava mai i suoi occhi lucidi. Squall sospettava che quel dolore che sentiva lei avrebbe dovuto essere suo, ma proprio non riusciva a capire il motivo di quella sua apatia estranea, come se non fossero sue le gambe che si ostinavano ad ignorare ogni sorta di comando.

Il fisioterapista, un ragazzo sulla trentina dalla voce pacata e gentile, ogni volta lo invitava a cercare di muovere la gamba e non si faceva intimorire dall'occhiata raggelante che gli scoccava ogni volta.

“Fa parte della fisioterapia” spiegava. “Deve cercare di stimolare i muscoli a fare i movimenti a cui li sto forzando io”. La sedia a rotelle era qualcosa di traumatizzante; la sentiva perennemente scomoda, ma ciò che lo faceva veramente star male era la consapevolezza di non potersi alzare quando voleva, anzi di non potersi alzare e basta.

E Rinoa era sempre lì al suo fianco, sia fuori che dentro: poteva sentire la sua presenza all'interno della mente, al di là della barricata che aveva eretto, come se fosse seduta sulla soglia di una porta chiusa. Non osava bussare e lo amava quanto bastava per rabbrividire di disgusto all'idea di forzarlo a farla entrare.

“Ce la faremo, Squall” sussurrava ogni volta che erano soli. Si sporgeva su di lui e lo baciava, accarezzandogli il viso con una dolcezza infinita. “Sono con te: ce la faremo”.


Alla fine il suo mondo si era sempre ridotto a quello: un intero universo, il suo, che partiva dalla porta e finiva alla finestra. Ed in mezzo lui, in silenzio, ad interrogarsi sul perché una cosa come quella era successo proprio a lui: un'altra domanda che non avrebbe mai avuto risposta. Aveva affrontato Streghe, Cavalieri, mostri di ogni tipo e poi era arrivato bello bello un RubRum Dragon che aveva provveduto a mettergli addosso una catena che mai, mai sarebbe riuscito a togliersi.

Passò un'altra settimana e in un momento di solitudine, ormai così rari, Squall si guardò intorno: la sua camera era invasa di maniglie e barre di ferro per facilitargli le operazioni una volta così elementari, come il coricarsi sul letto o il sedersi sul gabinetto. Le porte si aprivano verso l'esterno, le maniglie erano più basse ed aveva sentito una volta Seifer commentare l'assenza di scale come la più grande delle fortune.

Era stato portato al Garden per l’ispezione sanitaria ed aveva in grembo il foglio delle mansioni alternative che un SeeD aveva la facoltà di fare all’interno dell’accademia. Lo guardava ormai da un’ora ed ancora non riusciva a vederlo.

Zell, Selphie ed Irvine avevano ricevuto una missione poco fuori Dollet e quella mattina non aveva aperto a Rinoa. Dalla finestra poteva vedere la Tomba del Re Senza Nome, misteriosa e silenziosa, le fronde del santuario erano increspate da quel vento tiepido che entrava dalla finestra socchiusa.

Come panorama non è male...

Uscì dalla stanza e sospinse la carrozzina fino al giardino: prendere le rampe anziché le scale gli venne automatico, come se già si fosse abituato all'idea di rimanere seduto per tutta la vita. Con movimenti lenti e lo sguardo ancora fisso sulle sue ginocchia, si avvicinò alla fine del giardino.

Durante la battaglia con il Garden di Galbadia la piattaforma si era spaccata ed era rimasta una spessa crepa, circondata da transenne e nastri di isolamento: una spaccatura che separava il mondo in cui c’erano le mattonelle pulite e ben curate da quello in cui le lamiere si fondevano con la terra e le rocce in sospeso sul vuoto. Si avvicinò al buco e si affacciò, guardando l'anello vorticante del Garden. Una porzione di terra grande quanto bastava per farci stare un palcoscenico si era sgretolata al semplice contatto: questo gli aveva detto Zell, durante un rapporto che lui aveva seguito con la piccola parte di sé che non era nell'infermeria, accanto ad una comatosa Rinoa.

Sotto di esso vi erano ancora una buona decina di metri d'aria fresca prima dell'impatto con il terreno brullo. Rimase sulla crepa senza mettere i freni alle ruote, mentre quell’idea gli cullava la mente devastata.

In fondo che male c'era? Cosa sarebbe successo se una volta, solo una in tutta la sua vita, si fosse arreso? Lui si era sempre rifiutato di farlo, anche quando la situazione precipitava, anche quando si accorgeva che era troppo grande.

Nessuno l'avrebbe biasimato se avesse deciso di arrendersi davanti alla nomina di Edea come capo di Galbadia, in quello che sembrava il preludio allo scoppio di un'altra Guerra della Strega.

Nessuno l'avrebbe biasimato se non se la fosse sentita di saltare nello spazio con la bombola d'ossigeno vuota, forte solo di un sordo desiderio e dell'anteprima dei successivi tre minuti grazie ad una visione di Ellione.

Anche contro Artemisia, se avesse stabilito che era troppo grande per lui, nessuno avrebbe avuto da ridire.

Ma quello. Ecco, quello era semplicemente troppo per lui.

Rimanere barricato in una camera d’ospedale per l'imbarazzo dello spettacolo che dava, la faccia di Rinoa e dei suoi amici quando lo venivano a trovare, le occhiate che gli erano arrivate per i corridoi del Garden, l'umiliazione di quelle volte in cui non aveva fatto in tempo ad issarsi sul gabinetto o era caduto nel tentativo: ogni volta aveva seriamente pensato, quasi desiderato di trovarsi in quella situazione e di chinare le spalle in avanti. Al resto ci avrebbe pensato madre natura: lui non avrebbe dovuto fare altro.

Le medicine non funzionavano, la fisioterapia dava scarsi risultati, la compagnia di Rinoa non funzionava: che cosa stava facendo? Si svegliava la mattina ed aspettava la sera per andare a dormire: erano passate due settimane appena e non aveva nessuna intenzione di far passare una vita intera in quel modo.

“Squall?” chiamò una voce. Non ebbe nemmeno bisogno di voltarsi: Quistis lo stava guardando a debita distanza, con il panico nella voce. “Che stai facendo?”. Non giunse risposta. Pochi secondi e si mosse in avanti, lentamente, senza movimenti bruschi.

“Ehi, ehi! Che sta succedendo?” chiese la voce di Seifer. “Adesso Squall vedi di calmarti; non facciamo cretinate”. Il tono era cauto, la voce ferma, ma pervasa da una sottile vena di agitazione. Squall mosse una ruota e si girò, dando le spalle a quel buco: quel vuoto era così invitante, così denso di allettanti promesse che quasi ci soffrì. Quistis e Seifer erano poco lontani, con gli sguardi fissi su di lui: sembrava avessero a che fare con un cobra pronto ad attaccare a pochi centimetri dal loro naso.

“Non succede nulla Squall” mormorò Quistis, cercando disperatamente di trasmettere calma. “Adesso facciamo tutti un bel respiro e chiacchieriamo un po'”. (Hyne fa che non capiti Rinoa da queste parti. Non adesso).

“Chiacchierare?” borbottò lui. “Cosa c'è da chiacchierare? Che cosa ti è sfuggito della mia situazione?”.

“Non farai mica sul serio vero?” chiese Seifer. Anche la sua voce era ferma, ma a differenza della donna, la sua era fredda. “Chi glielo spiega alla streghetta? Ed al gallinaccio? Hai pensato al gallinaccio?”. Squall ci aveva pensato, certo che ci aveva pensato, ma per quanto si fosse impegnato non era riuscito a trovare per loro un'importanza sufficiente da spingerlo ad andare avanti. E lo aveva ferito il non riuscire a trovarla. Dopo anni passati a temere l'abbandono dei suoi amici, ora era lui che abbandonava loro.

“Quistis, hai mica visto Squall?” chiese una voce dietro la SeeD. Rinoa guardò la sua schiena per qualche secondo, poi allungò lo sguardo oltre la sua spalla ed il mondo si fermò. Ebbe il tempo di realizzare lo spettacolo che aveva davanti, poi lasciò cadere gli asciugamani ed il libro che portava e scattò verso la carrozzina. Quistis la seguì con lo sguardo, ma non cercò nemmeno di fermarla. Squall mosse la testa all'indietro e le ruote presero a scorrere verso la spaccatura che l'avrebbe portato ad un morte certa.

Vide il cielo e pensò che non era brutta come ultima visione del mondo che stava lasciando. Sentiva le ruote andare all'indietro, seguendo sempre più velocemente le scanalature e le imperfezioni che portavano al buco e non sentì niente, nulla di nulla, solo la piacevole carezza di un alito di vento.

Sentì uno schiocco e la carrozzina, con un sussulto, si fermò: abbassò uno sguardo confuso sul bracciolo, attorno a cui era avviluppata saldamente la frusta di Quistis. Pochi istanti ed un paio di braccia forti lo presero da sotto le ascelle e lo scaraventarono a terra, lontano dalla voragine, al sicuro.

“Ma che ti dice la testa?” ruggì Seifer. “Hai perso l'uso delle gambe o del cervello?”. Sentì le braccia di Rinoa attorno alle spalle per qualche istante, poi il biondo la sposò di peso ed afferrò il bavero della sua giacca: era furibondo. “Sei un imbecille! Pensi veramente che ci siamo fatti tutti quanti un mazzo così solo per guardarti mentre getti la spugna? Eh?!!”. A sorpresa, lo colpì: un pugno forte, dritto sullo zigomo. Squall stramazzò a terra, impotente, ma Seifer lo afferrò nuovamente per il colletto e lo ritirò su.

“Seifer che stai facendo?” esclamò Rinoa scandalizzata. “Smettila! Mettilo giù!”. Tentò di avvicinarsi, ma Quistis la fermò scuotendo la testa ed intimandola a lasciar fare.

“Lascialo fare” disse, con voce tremante. “Se c'è qualcuno che in questo momento è in grado di scuoterlo, quello è Seifer”.

“Adesso te lo dico io cosa farai, coglione che non sei altro” ringhiò il ragazzo. “Adesso tu monti su quel trabiccolo e te ne torni in ospedale. A partire da oggi pomeriggio fai le tue sedute di fisioterapia...E GUARDAMI IN FACCIA QUANDO TI PARLO!”. Con un ennesimo strattone, lo costrinse a guardarlo: quasi schiumava dalla rabbia. “Se viene fuori che non le fai verrò personalmente ad obbligarti, anche tutti i giorni per anni. E se per disgrazia mi giunge all'orecchio che hai tentato nuovamente il suicidio ti sbatto in una clinica di recupero, sorvegliato a vista, con una camicia di forza legata addosso ed un pezzo di pelle incastrato in bocca finché non ne uscirai da solo o su una barella nascosto da un lenzuolo: ci siamo capiti?”.

Il viso di Squall tornò espressivo, gli occhi luccicarono rabbia. Staccò il bavero dalla presa di Seifer e cadde seduto. Aprì la bocca per ribattere, ma la voce non gli uscì; cercò forsennatamente le parole, scandagliò ogni centimetro del suo cervello per trovare qualcosa di abbastanza offensivo da dirgli, ma tutto quello che sentì fu la gola venir lentamente invasa da un groppo.

“Ti puzza l'alito...” sbottò. Seifer si alzò in piedi: il suo volto era ancora contratto da una smorfia irata.

“Ci siamo capiti?” ripeté, ringhiando in segno di avvertimento. “Spero che sia tutto chiaro perché la prossima volta passerò per le vie di fatto e sai che lo farò”. Certo che lo sapeva: Seifer non aveva mai parlato a vanvera e se diceva che avrebbe fatto qualcosa era solamente per precisare le sue intenzioni. Incapace di parlare Squall annuì soltanto, spostando lo sguardo oltre la sua spalla. Per quanto deglutisse quel dannato nodo alla gola non ne voleva sapere di scendere, ma dentro di lui sapeva che sarebbe salito.

Con la coda dell'occhio vide Rinoa avvicinarsi e, nuovamente, il tocco della sua mente contro la sua. A quel contatto, la saracinesca che chiudeva fuori il mondo da lui si distrusse: finì come una colata di ferro fuso e ciò che la Strega vide dietro di essa fu un ragazzo distrutto, spezzato, fragile come non l'aveva mai visto. E lacrime dappertutto. Dentro e fuori.

Cadde in ginocchio e gli strinse la testa a sé, accarezzandogli i capelli e posandogli piccoli baci, rassicurandolo con una voce prossima al pianto. Anche Quistis si inginocchiò accanto a lui, ma si limitò a posargli una mano sulla spalla, che sussultava preda di singhiozzi isterici. Seifer si grattò la testa, poi si volse e scoccò ai presenti un'occhiataccia.

“Beh? Vi divertite?” abbaiò rivolto ai curiosi che non si perdevano una scena. “Mi dispiace che dobbiate sloggiare, allora!”. Tutti colsero l'ordine celato e, nel giro di pochi minuti, furono soli.

La Strega alzò gli occhi verso il ragazzo: si era calmato e anzi si sentiva vagamente in colpa alla vista di come era ridotto il suo Comandante: non lo aveva mai definito amico, probabilmente perché ne avevano passate troppe ed il numero dei loro dissidi, più o meno seri, era ancora gravoso. Lo guardò con occhi lucidi e, quando ottenne la sua attenzione, mimò un silenzioso 'grazie' con le labbra.

Squall era premuto contro di lei, distrutto, desideroso di volatilizzarsi come per magia. Non riusciva a frenare le lacrime e dopo un po' smise di provarci: era con Rinoa e con lei poteva permettersi il lusso di crollare.

Pianse per tutto quello che gli venne in mente, pianse per tutti gli anni in cui non l'aveva fatto, pianse per tutte le volte che avrebbe dovuto farlo ma che aveva preferito mordersi la lingua fino a farsela sanguinare. Pianse per le occasioni sfumate, per le promesse non mantenute, per le umiliazioni, le sconfitte, i fallimenti, gli abbandoni, le morti.

Ed infine pianse per sé stesso, per le sue gambe e per che razza di piccolo uomo in realtà fosse. Pianse per ciò che aveva, per ciò che non aveva e per ciò che avrebbe voluto avere. Ma soprattutto pianse perché stava per perdere tutto quello per cui piangeva.

Ed in mezzo a tutte quelle lacrime comparve una consapevolezza, una decisione ferma e lucente come un faro in una notte di tempesta: emerse da sola, come se fosse sempre stata lì da qualche parte. Parlò, consapevole che almeno Rinoa lo stava ascoltando.

Voglio andare via da qui.
   
 
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