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Autore: Daleko    10/03/2016    0 recensioni
Alla fine mi sono trasferito in Francia, a Montpellier. I sensi di colpa mi attanagliano ogni volta che quei ricordi mi sovvengono alla mente e forse mi riterrete un pazzo per essere venuto qui; probabilmente la pazzia mi muove sin da quando ho cominciato a scrivere questi diari, più di due anni fa, ma non riesco a liberarmi dei miei demoni attribuendoli a qualche tipo d’insanità mentale; no, quelle sono faccende da arcaico simbolismo russo e di certo non tangono me, stupido venticinquenne di provincia troppo impegnato a crogiolarsi in realtà passate per agire nel presente. Se voglio confessare tutta la verità, mio malgrado, devo ammettere d’agire in modo insensato più che disattento: e così, nella mia giovanile noncuranza verso il rischio e la stoltezza che mi muovono, m’è d’uso ormai farmi chiamare John.
Attenzione, Questo racconto è il seguito di "Queste non sono le mie memorie". Non dovrebbe comunque essere difficile comprendere la storia in quanto ci sono dettagliate ricapitolazioni riguardo i precedenti avvenimenti, tuttavia questo racconto risulta essere, ovviamente, molto più gradevole se letto in seguito al primo.
Genere: Fluff, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Diari'
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L'aria era fredda, ma non ho potuto esimermi dal forte bisogno di passeggiare che mi è solito attanagliare la mente dopo il lavoro. Con indosso la camicia immacolata che s’addice a un insegnante e una cravatta Hermès color prugna, oggi ho però preso un taxi e mi sono diretto fuori città: non potevo resistere oltre al dolce richiamo della plage de l’Espiguette. Sono ormai settimane che il pensiero della sabbia bianca e soffice mi lambisce con voluttà, e quasi tremavo dal desiderio di affondare in essa. Ho sfilato lentamente i Karl Moc di Rautureau color pece e, denudati i miei piedi, ho calpestato quella candida rena nella più profonda solitudine. Nessun uomo all’orizzonte, in alcuna direzione: vi eravamo io e le grida acute dei gabbiani, i soli oltre me a godersi il lento sciabordare delle onde sulla riva. La vista delle dune carezzate dal vento e il progressivo tingersi del cielo d’un colore vermiglio m’infondevano un vago senso d’angoscia; mi sono seduto, quasi accasciandomi, a qualche metro dall’acqua cristallina e, allentando il nodo alla cravatta, ho lasciato che le palpebre scivolassero verso il basso. I mocassini accanto a me gettavano ombra sulla mia mano ossuta, e il vento agitava pigramente l’Hermès come una inusuale bandiera di cachemire. Il bagliore del crepuscolo filtrava tra le ciglia portatrici d’oscurità, donando un’ombra purpurea ai miei pensieri.

È da quel giorno che ho smesso d'intrattenermi con la pipa, da quella spiacevole cena. Quando le memorie di quella sera irrompono nella mia mente non posso far altro che cercare di allontanarle, rinchiuderle in qualche angolo remoto dei miei ricordi… Ma poi, ecco: sono seduto lì, sulla tiepida sabbia al calar della sera e la mia mano, fuggendo alla candida rena corre a sfiorare le labbra secche che giacciono inaridite sul mio viso. Sospiro mentre il gracchiare d’un gabbiano si trasforma nel dolce suono della sua risata: la mano trema e le mie membra, d’un tratto, sono deboli e bisognose d’un comodo giaciglio dove trovare ristoro. Cos’altro posso fare? All’imbrunire dedico un ultimo, malinconico sguardo alla riva solitaria e, nell’oscurità della notte, siedo qui: uno gelido scotch, Schubert sul giradischi e io, febbricitante, intento a battere antichi tasti per comporre queste desolanti parole. Ancora una volta devo ammettere, a me stesso come a queste pagine lattee, di subire fortemente e ineluttabilmente il suo fascino: Marie, Marie, Marie. Posso davvero scriverlo? M’è lecito pensarlo? Temo di no, ma devo lo stesso: Marie… Torna da me!


 
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