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Autore: _armida    24/03/2016    3 recensioni
“Sono stupito, non credevo che un bel faccino riuscisse anche a maneggiare un’arma con tale bravura”, disse il Conte.
Elettra provò a tirarsi su, ma finì per andare ad urtare contro la lama della spada, ferendosi leggermente uno zigomo.
“Dovete stare attenta, non volete di certo rovinare tutta questa bellezza così”, aggiunse allontanando la spada dalla faccia della ragazza. Doveva dargliene atto, era davvero bella. Non lo aveva notato prima, quando Grunwald l’aveva portata all’accampamento priva di sensi, era troppo preso dal chiedere al garzone di Da Vinci dove si trovasse la chiave.
Fece cenno a due guardie svizzere di tenerla ferma, mentre lui la perquisiva in cerca di altre armi nascoste. Non ne trovò, ma la sua attenzione fu catturata da qualcosa che la ragazza teneva nella tasca sinistra dei pantaloni: si trattava del suo blocco da disegno. Quando fece per sfogliarlo, una moneta, contenuta al suo interno cadde a terra; non si trattava di una moneta comune, era in oro e presentava sulla sua superficie la faccia di un dio pagano. La raccolse e la osservò accuratamente.
“Cosa sapete riguardo ai Figli di Mitra?”
VERSIONE RIVEDUTA E CORRETTA SU WATTPAD
Genere: Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Girolamo Riario, Giuliano Medici, Leonardo da Vinci, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Elettra'
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Capitolo XXVII: “Ci vediamo a Roma, Leonardo”

La sabbia calda a contatto con la propria schiena, la piacevole sensazione del Sole sulla pelle, il rumore cadenzato delle onde del mare che si infrangevano sul bagnasciuga... 
Girolamo Riario respirò a pieni polmoni l’aria salmastra, finalmente rilassato; chiuse gli occhi, gustandosi quel raro  momento di tranquillità. Doveva essersi assopito, perchè non la sentì avvicinarsi. L’unica cosa che sentì fu dell’acqua fredda, all’improvviso, sulla propria pancia.        
Girolamo aprì gli occhi di scatto, con la mente immediatamente vigile. Un’abitudine che aveva affinato in anni e anni di addestramento e che gli aveva salvato la vita in più occasioni.

Trovò due grandi occhi azzurri, che lo osservavano divertiti dall’alto.
Elettra, in piedi di fianco a lui, finì di strizzarsi i lunghi capelli biondi. La sua bocca vermiglia aveva assunto una piega ironica.   
“Ti ho chiamato ma non rispondevi”, disse, come a cercare un’attenuante per quello che aveva fatto. “Vi siete forse addormentato, Conte?”, lo punzecchiò con quel suo solito tono impertinente.

Il lungo abito bianco, con le spalline sottile e l’ampio scollo a V era bagnato fradicio, segno che l’aveva indossato anche in acqua. Girolamo la osservò attentamente, constatando che esso copriva ben poco. Improvvisamente quell’abito si era fatto di troppo...
“Pensi di venire a fare un bagno o mi lasci sola anche adesso?”, gli chiese Elettra, osservandolo divertita.
“Pensi di toglierti quell’abito?”

La ragazza assunse un’espressione pensierosa. “Magari”. Si voltò di spalle, verso il mare. “Ma solo se riesci a prendermi”. Alzò leggermente la gonna dell’abito, per poter correre più velocemente, e si buttò in acqua.
Il Conte la osservò divertito, decidendo che se la sarebbe presa con calma, giusto per lasciarle un po’ di vantaggio e la vaga idea di potergli sfuggire. Si alzò, si spogliò, lasciando i propri vestiti sulla riva e andò verso l’acqua, senza alcuna fretta.
Vide Elettra, a una decina di metri dalla riva, osservarlo attentamente, pronta a scattare appena lui si fosse avvicinato troppo.

“Così però non vale”, protestò lei.
Nel frattempo, Girolamo cominciò a dare delle ampie bracciate a nuoto. 
La ragazza si voltò, con tutta l’intenzione di scappare ancora ma l’abito lungo, zuppo d’acqua, le fu d’impaccio, rendendola decisamente troppo lenta.  
Inutile dire che l’uomo ci mise un attimo a colmare la distanza che li divideva. La prese per un polso, tirandola a sè. “Volevo darti l’illusione della vittoria, mia diletta”, le sussurrò ad un orecchio.
Nonostante le sue guance diventate colorate, Elettra sbuffò, infastidita.

“L’abito”, le rammentò lui, ad un soffio dalle sue labbra.
“L’abito cosa?”. I suoi grandi occhi azzurri avevano assunto un’espressione innocente.
“Lo sai benissimo”, le disse, mangiandola con gli occhi.
Lei si lasciò andare ad una risatina, prima di immergersi improvvisamente.
Girolamo sospirò, frustrato, poi prese un lungo respiro e la seguì sott’acqua.

Riemersero una manciata di secondi più tardi, qualche metro più vicini alla riva, dove l’acqua li arrivava appena sotto le spalle.
Il Conte attirò Elettra a sè, ben intenzionato a non lasciarsela sfuggire, questa volta. Cercò immediatamente le sue labbra, mentre le sue dita agguantavano la sottile stoffa dell’abito, con tutta l’intenzione di sfilarglielo al più presto. 
Cominciarono lentamente ad arretrare verso la spiaggia.
“Devo farti vedere una cosa”, disse la ragazza, staccandosi dalle sue labbra e prendendolo per mano.

Girolamo fece una smorfia, piantando i piedi a terra.
“Sono certa che ti piacerà”
L’uomo sbuffò. Erano su una spiaggia deserta, lontana dalla civiltà e da ogni possibile distrazione come quadri, architetture singolari e antiche rovine; possibile che fosse riuscita a trovare qualcosa anche lì?
Si inoltrarono per alcuni metri nella fitta boscaglia che proteggeva la laguna da occhi indiscreti; tra i vari rumori che caratterizzavano il sottobosco, si poteva udire il rilassante suono dell’acqua che scorreva. Probabilmente dovevano trovarsi nelle vicinanze di un qualche piccolo corso d’acqua.

Elettra si fermò improvvisamente, voltandosi verso Girolamo con un sorriso a trentadue denti. L’uomo si guardò intorno, osservando nient’altro che alberi ed arbusti. Alzò un sopracciglio, perplesso.
Alla vista della sua espressione, la ragazza non riuscì proprio a trattenere una risatina. Scostò alcune grandi foglie verdi, appartenenti ad una pianta sconosciuta, mostrando così ciò che si celava alla loro vista: davanti ai loro occhi vi era una piccola cascata, le cui acque andavano poi a raccogliersi in una pozza poco profonda dall’aria cristallina; da essa, alla fine, fuoriusciva un piccolo ruscello.

“Soddisfatto?”, chiese Elettra, correndo sotto la cascatella. Alzò il viso verso l’alto, lasciando che l’acqua le scorresse sopra.
“Quasi”, le sussurrò lui ad un orecchio, cingendole la vita con un braccio.
Il calore del petto di Girolamo, appoggiato alla propria schiena e l’acqua fretta della cascata sul proprio volto, creavano un contrasto tutt’altro che spiacevole.

Elettra sospirò quando sentì le sue labbra calde posarsi sul proprio collo. Si girò, alzandosi leggermente sulle punte per aver il viso all’altezza di quello di Girolamo e lo baciò.
Le mani di lui corsero velocemente alle spalline dell’abito, aiutandola a sfilarselo e...


Girolamo aprì a fatica gli occhi, per nulla soddisfatto di quella brusca interruzione. Lanciò un’occhiataccia a Zita che, in piedi poco lontano dal letto, lo aveva chiamato, svegliandolo. 
La serva abissina abbassò in fretta il capo, mortificata.   
Il Conte pensò di richiudere gli occhi, con la speranza di poter riprendere quel sogno dove lo aveva lasciato, ma accantonò presto l’idea. Sospirò, pensando ad Elettra: da quando era tornato a Roma –diverse settimane prima-, non aveva ancora avuto il tempo di scriverle; i problemi della città e il proprio incarico al servizio del Papa non gli avevano lasciato neanche un attimo di riposo.
Era talmente impegnato che non era nemmeno riuscito a parlare con Sisto delle novità riguardanti la ricerca del Libro delle Lamine; non che di questo si lamentasse, anzi, era meglio così, visto che da quel lato il suo soggiorno prolungato a Firenze si era rivelato un fallimento.
“Sua Santità vi ha fatto chiamare”, disse Zita, torturandosi nervosamente le mani e tenendo la sguardo puntato sul pavimento. Anche il semplice nominare quel...non poteva chiamarlo uomo, non dopo tutto quello che le aveva fatto: i lividi della notte precedente erano ancora lì, sulla sua pelle, gli ennesimi di una lunga lista.
Girolamo sospirò, volgendo il viso verso le ampie finestre, coperte da dei pesanti panneggi di velluto scuro: a giudicare dalla scarsità di luce, non doveva essere nemmeno l’alba.
Era sempre stato abituato ad alzarsi prima del sorgere del Sole ma, da quando era stato a Firenze, certe abitudini erano venute meno.
Si alzò dal letto, congedando la serva con un gesto.
*** 

Il grande portale ligneo che conduceva ai bagni papali si aprì ed una vampata di vapore ed aria calda investì Girolamo, lasciandolo per un istante stordito. 
Prese un lungo respiro, facendo mente locale su tutto quello che avrebbe dovuto dire a Sua Santità, e si diresse all’interno con passo sicuro e la solita espressione fredda e distaccata. 

Oltre la soglia vi erano già Sisto, Mercuri e, con un certo stupore, notò anche Lucrezia Donati.
“Sei in ritardo, nipote”, disse il Papa, alzando appena un sopracciglio. Incurante di tutte le persone presenti nei bagni, si tolse la pesante vestaglia in broccato, restando completamente nudo e si diresse verso l’acqua.
Riario si limitò ad abbassare lo sguardo, ben consapevole che qualsiasi parola avesse detto, sarebbe stata inutile.
“Cosa è successo a Firenze?”. C’era una rabbia trattenuta a stento, nelle parole di Sisto, unite ad una buona dose di disprezzo.
Girolamo si umettò le labbra, nervoso. “Ci eravamo sbagliati sul conto del vescovo Aramis, non era a lui che era stata affidata la terza chiave”
Nella sua mente riaffiorarono i ricordi di quando la ricerca del Libro delle Lamine aveva avuto inizio, di quando il Cardinale Mercuri aveva nominato per la prima volta i Figli di Mitra e la sua esperienza all’interno della Confraternita. Avevano innanzitutto cercato di reperire le chiavi ma, mentre la prima metà -quella che il Conte portava sempre al collo- era stata trovata in modo relativamente semplice, per l’altra parte l’impresa si era rivelata fin da subito ardua ed allora si erano concentrati sull’ultima chiave, un cuore d’argento. Mercuri gli aveva parlato della sua proprietaria e di come era misteriosamente scomparsa, insieme ad una delle figlie, la prescelta a cui un giorno sarebbe toccato il compito di custodirlo; avevano discusso circa il destino di quel ciondolo, arrivando entrambi alla conclusione che non poteva essere scomparso anch’esso. Era troppo prezioso per i Figli di Mitra per scomparire nel nulla.
Attraverso i ricordi del Cardinale, avevano analizzato il resto della famiglia, cercando di capire a chi gli altri adepti avrebbero potuto affidare il cuore; restavano altre due possibilità: o l’unico erede maschio, oppure la figlia minore. Quest’ultima era stata da subito esclusa, visto il comportamento di Anna nei suoi confronti, che l’aveva da sempre considerata indesiderata. 
Era rimasto solo Aramis.      
Casualmente quest’ultimo si era avviato alla carriera ecclesiastica e non era stato difficile trovare un modo per portarlo a Roma; l’idea di promuoverlo vescovo e di offrirgli un lavoro come segretario del Cardinale Mercuri si era rivelata da subito ottima e, ovviamente, il giovane prete aveva accettato immediatamente, entusiasta.
Lo avevano tenuto d’occhio per due anni, con la speranza che la terza chiave spuntasse fuori da un momento all’altro, o che qualcuno dei Figli di Mitra lo contattasse. 
Invece non era successo niente.
Avevano pure provato ad accennargli del Libro delle Lamine, per vedere la sua reazione, ma il ragazzo si era comportato come una qualsiasi persona curiosa di fronte a nuove scoperte. Avevano pensato che fosse molto in gamba a mentire, convincendosi che avrebbero dovuto cambiare approccio.
E così avevano deciso di portarlo con loro a Firenze, pensando che fosse lì che teneva nascosta la chiave.
Poi aveva conosciuto Elettra. L’ultima persona che si sarebbe aspettata come custode.
Gli era stato chiaro fin da subito che quella ragazzina impertinente non avesse la minima idea di quanto fosse prezioso ciò che portava sempre al collo. Se ne avesse conosciuto l’importanza, probabilmente non ne avrebbe fatto libero sfoggio davanti a tutti.
Avrebbe potuto rubargli quel ciondolo in qualunque momento, eppure... Quei due grandi occhi azzurri e quel suo irritante modo di fare lo avevano stregato, letteralmente.
Aiutandola a scarcerare Gentile Becchi credeva di riuscire a legarla a sè ed ottenere la sua piena fiducia. Credeva di riuscire a convincerla a dargli quel ciondolo di sua spontanea volontà.
Invece era caduto nella propria trappola.
Se in quel momento Girolamo Riario avesse chiuso gli occhi, era certo di trovarsela davanti, con quel finto sguardo innocente e il sorriso rassicurante. Doveva proteggerla da Roma e dal Papa, ma doveva anche fare il proprio lavoro in quanto Capitano Generale della Santa Romana Chiesa.
Sarebbe dovuto stare attento ad ogni singola parola che avrebbe detto durante quel colloquio: se avesse parlato troppo, avrebbe firmato con le proprie mani la sua condanna a morte ma, se al contrario, avesse detto troppo poco, Sua Santità si sarebbe insospettito e il risultato sarebbe stato lo stesso.
“Dove sono le chiavi?”. Sisto sapeva tutto. Ovviamente era rimasto in contatto per lettera con i propri sottoposti, per tutti quei mesi, pretendendo di rimanere continuamente aggiornato. Godette nel vedere la faccia terrorizzata di Mercuri, che lo fissava con gli occhi spalancati e la bocca aperta, alla disperata ricerca delle parole giuste da dire. Vide il Cardinale voltarsi verso Riario, implorandolo con lo sguardo ad incominciare a parlare lui.
Il Conte si umettò le labbra per l’ennesima volta. “Il Turco aveva finalmente affidato la seconda chiave della volta all’Ebreo, che avrebbe dovuto portarla al nuovo custode ma...”. Girolamo abbassò il proprio sguardo in direzione del raffinato pavimento marmoreo; non aveva mai sopportato vedere l’ira e il disprezzo grondare dalle iridi del Santo Padre, suo padre. Il pensiero di deluderlo lo teneva persino sveglio la notte.
Quell’uomo lo aveva creato, quell’uomo lo poteva distruggere.
“Quell’infedele ha preferito morire, piuttosto che consegnarci la chiave”, concluse il Cardinale Mercuri.
Un sadico sorriso fece la sua comparsa sul volto di Sisto, rendendolo ancora più inquietante del solito. “E come ha fatto l’artista ad entrare in possesso della chiave?”
“Questo dettaglio per ora ci sfugge”, mormorò il Cardinale.
“Ve l’ha fatta sotto il naso, in poche parole”, commentò sarcastico Sua Santità. 
“Almeno sappiamo dove si trova: Da Vinci ha un contratto che non gli permette di lasciare Firenze”, ribattè in modo pacato il Conte, ritrovando almeno in parte la sicurezza che da sempre lo aveva contraddistinto. 
“Ehm...”. Ciò che si lascio sfuggire Mercuri fu un sussurro appena udibile. “E’ sorta una questione urgente”
Sisto alzò un sopracciglio; dallo sguardo, pareva volesse fulminare il Curatore degli Archivi Segreti Vaticani da un momento all’altro. Anche Girolamo lo osservò perplesso: qualsiasi cosa stesse per dire, lui non ne era a conoscenza.
Mercuri si girò verso Lucrezia Donati, rimasta fino a quel momento in silenzio, in una posizione secondaria rispetto ai due uomini, facendole cenno di parlare.
La donna fece qualche passo avanti. “Arrivo ora da Firenze, Vostra Santità”, disse, cercando ad ogni singola parola il coraggio per dire la successiva. Nella sua mente era ancora vivo il ricordo di quell’orribile giorno in cui la sua sorellina era stata uccisa. Spostò il proprio sguardo sul pavimento, incapace di guardare negli occhi l’assassino della piccola Amelia. “Da Vinci ha lasciato la città, nessuno sa dove sia”
Il Papa scattò in piedi, buttando schizzi d’acqua ovunque. “’Non avrebbe lasciato Firenze’, non è forse quello che hai appena detto, nipote?”
Girolamo tenne lo sguardo basso, ben consapevole che aprire bocca in quel momento avrebbe solo peggiorato la situazione.
“Voglio almeno sperare che conosciate la posizione della terza chiave”, disse Sisto, alzando il tono della voce.
“Possiamo recuperare quella chiave in qualsiasi momento”, provò ad imbonirlo il Conte.
“E allora perchè non ce l’hai ancora con te?”
Girolamo si umettò ancora le labbra. Lui lo sapeva il perchè. Quante occasioni aveva avuto per prenderlo? Più di una volta, con Elettra che dormiva profondamente fra le sue braccia, aveva avuto l’impulso di sfilarglielo dal collo ed andarsene. Sarebbe stato facile. E il Santo Padre sarebbe stato soddisfatto.
La verità era che, con quel ciondolo stretto fra le dita e lei addormentata accanto, i sensi di colpa arrivavano a schiacciarlo; il fatto di tenere sempre al collo il cuore d’argento era un gesto di fiducia da parte di Elettra. Fiducia che però lui non aveva mai ricambiato: la ragazza non sapeva che era lui ad avere l’altra chiave.
Sisto lo osservò attentamente, lasciandosi andare ad una risata di scherno. “Ma guardati! Dovevi solo sedurla, invece la puttana fiorentina ha sedotto te!”
Sua Santità si divertiva a provocare così i suoi collaboratori. La lieve contrazione della mascella del Conte lo convinse che aveva toccato il tasto giusto.
Si sarebbe aspettato una reazione più evidente, ma purtroppo lo aveva addestrato bene. Troppo bene, forse.
“Un’artista e una puttana fiorentini! Vi siete lasciati fregare da un’artista e una puttana fiorentini!”, continuò ad inveire, avanzando minacciosamente verso di loro. “Come posso stupirmi del fatto che Firenze mi resista così bene quando guardo la qualità dei miei alleati?”. La sua voce si era notevolmente alzata. 
“Noi cercavamo solo di servire la vostra gloria, non avevamo il beneficio della vostra guida divina”, disse Mercuri. 
Inutili furono le occhiate allarmanti che Riario gli lanciò, cercando di zittirlo. Purtroppo il Conte sapeva benissimo cosa sarebbe successo di lì a poco.
“Una guida?! Volete una guida?!”, gli urlò in faccia Sisto, prendendolo per il colletto della camicia. “Vi ricordate che cosa si prova che io sono stato scelto da dio?!”. Lo trascinò verso l’acqua.
“Così tanti accadimenti, santità”, farfugliò il Cardinale, sempre più terrorizzato.
“Il modo in cui sono sopravvissuto all'annegamento da bambino? Vediamo cosa succede con voi”. Sisto gli mise la testa sott’acqua, tenendolo fermo.
Girolamo osservò la scena irrequieto, indeciso se intervenire o meno. Il Papa avrebbe di sicuro ucciso Mercuri, se non si fosse deciso s fare qualcosa. Ancor prima di aprire bocca, però, sapeva già che quel gesto gli si sarebbe ritorto contro. “Santo padre, di certo un dio amorevole mostra pietà no?” 
“Osi domandare a me? La pietra su cui si fonda la parola di dio?”, ribattè, lasciando finalmente andare il Cardinale e dirigendosi verso di lui. 
Girolamo lo osservò avvicinarsi, ben consapevole di quello che sarebbe successo. Nella sua testa passò l’idea che ad un uomo in forma e perfettamente addestrato non ci sarebbe voluto niente per far passare a Sisto la voglia di prendersela con lui. Ma una vocina dentro di lui tornò a ripetergli che se il Santo Padre lo aveva creato, permettendogli di trovarsi lì, lo avrebbe anche potuto distruggere con la stessa facilità.
“Bacia l'anello”
Il primo pugno arrivò al naso con violenza, facendolo arretrare appena; il secondo invece lo colpì sopra al sopracciglio sinistro, facendogli perdere l’equilibrio e finire a terra. Sentì qualcosa di vischioso colargli dalla ferita aperta, sopra all’occhio.
Sisto si rimise la pesante vestaglia, dirigendosi verso l’uscita dei bagni papali.
“Il mio bagno è rovinato”, commentò con una certa amarezza.
“Metti fine a questa storia, o io metterò fine a te”, sibilò minacciosamente al nipote, dandogli alla fine un calcio.
Una volta che Sua Santità fu uscito, Girolamo si mise ad osservare Lucrezia Donati, che a sua volta lo guardava con gli occhi spalancati.
Il Cardinale Mercuri, invece, si trovava ancora in acqua, aggrappato con tutte le proprie forze al bordo, ancora intento a riprendere fiato.
La furia di Sisto faceva paura a tutti e tre.
***

L’aria era rovente e il fumo talmente denso che non permetteva di vedere ad un palmo dal proprio naso. 
Elettra si coprì la bocca e il naso con un lato del proprio mantello, cercando così di riuscire a respirare meglio. Gli occhi le lacrimavano e il caldo le arrossava il viso, rendendole ogni passo più difficoltoso del precedente. 
Vi era un forte odore di bruciato nell’aria...
Una folata di vento, più forte delle precedenti costrinse la ragazza a fermarsi. Elettra si guardò intorno, cercando di capire dove si trovasse. Tra le nubi, riuscì a scorgere le merlature delle mura della propria città: si trovava appena fuori Firenze, sulla strada che portava a Roma. Intorno a lei si stagliava la campagna toscana. O almeno si sarebbe dovuta stagliare, se non fosse stato per tutto quel fumo.
Firenze stava andando a fuoco.

Quel pensiero le arrivò alla mente rapido, mandandola in agitazione. Cosa era successo?
Istintivamente, si diresse verso la città.
Sotto alle mura, a distanze regolari, vi erano come dei falò. Poteva intravvedere la luce che si propagava dalle fiamme.
Si avvicinò, schermandosi gli occhi come meglio poté.
Un’altra improvvisa folata di vento la costrinse a chiuderli.
Quando gli riaprì il fumo era scomparso e il fuoco si era spento. Si avvicinò cautamente alle braci, ancora fumanti. 

C’era qualcosa, tra quei resti: la ragazza inorridì quando capì di cosa si trattava. C’era un corpo umano semicarbonizzato tra i resti della legna. Indietreggiò, coprendosi la bocca con entrambe le mani per non urlare.
Ritornò sui propri passi velocemente, fino a ritrovarsi sulla strada principale. Si guardò nuovamente intorno, spaventata: la città era ridotta ad un cumulo di macerie fumanti e quella strada... Elettra aguzzò la vista, cercando, con gli occhi ancora arrossati dal fumo, di mettere a fuoco ciò che la circondava. C’erano delle croci disposte ai lati della strada. Ma non erano le solite croci a quattro braccia: vi era il corpo principale che si alzava in verticale poi, dove esso finiva, ne iniziavano altri due, disposti in obliquo che terminavano con due specie di corna e tenuti insieme tra loro da una trave orizzontale. 
Ve ne erano a centinaia...e tutte occupate.
Ad ogni croce vi era inchiodata una persona.
Elettra deglutì, ripetendosi che quello era solo un brutto sogno. Doveva assolutamente essere solo un brutto sogno.
Si avvicinò alla croce più vicina, spaventando così un corvo, che si era messo a becchettare nell’orbita vuota del
cadavere. 
Gli occhi mancavano, così come la lingua. Prima di essere crocefisso, quell’uomo era stato sicuramente torturato. 
Stava per tornare sul sentiero principale, con tutta l’intenzione di tornare in città e con la speranza che quell’angosciante incubo finisse presto, quando uno dei corpi inchiodati alle croci attirò la sua attenzione. Sempre più terrorizzata, gli si avvicinò: ad ogni passo che faceva, quel cadavere si faceva sempre più famigliare.
Non riuscì a non fare a meno di urlare, quando ebbe l’assoluta certezza di chi si trattasse. “Nico...”, sussurrò, mentre sue grandi lacrime le solcarono i viso.
Non vi era solo Nico, però. Sulle croci successive vi erano Vanessa, Leonardo, Zoroastro e, se Elettra avesse continuato ad avanzare, era certa che avrebbe trovato tutte le persone a lei più care.
Le tornò alla mente il sogno di suo zio sulla ruota e, al pensiero che tutto si stesse ripetendo di nuovo, si lasciò cadere a bocconi a terra, senza più forze. La gola nel frattempo aveva cominciato a restringersi sempre di più.

Sentì un lieve tocco sulla spalla e si costrinse a voltarsi.
In piedi, davanti a lei, vi era il custode della Biblioteca d’Alessandria, Zenone. La osservava con uno sguardo apprensivo. “Elettra, alzatevi”
La ragazza, ancora incerta sulle gambe, fece come le era stato detto. Il suo viso aveva assunto un’espressione seria, a tratti persino intimidatoria. “Dovete smetterla di rovinarmi la vita in questo modo!”, sbottò. “Succederà ancora, non è vero? Succederà la stessa cosa che è accaduta con mio zio!”, urlò. 

“No, non se questa volta non vi coglierà impreparata. Facciamo due passi e parliamo un po’”. L’anziano le tese la mano, in un gesto di pace. Elettra però ignorò deliberatamente quel gesto, cominciando a camminare. Zenone si limitò a sospirare e a seguirla.
“Come avete potuto capire, questi uomini non si fanno alcuno scrupolo”, disse il bibliotecario, dopo alcuni secondi di silenzio. 

Elettra annuì mestamente, distogliendo lo sguardo dal corpo martoriato di Clarice, inchiodato ad una croce proprio di fianco a lei, e prendendo a guardare il ciottolato sotto ai propri piedi. “Chi sono?”, chiese.
“Sono conosciuti come le Ombre al centro del Labirinto, oppure come Corna dell’Increato. Uomini spietati, il cui scopo è quello di trovare e distruggere il Libro delle Lamine” 

Quando li incontrerò?”. Dalle parole appena dette da Zenone, la ragazza intuì che lo scontro era inevitabile.
“Tutto dipende dalle scelte che farete e dalla piega che subiranno gli eventi”, rispose il bibliotecario.
Elettra lo osservò attentamente, capendo che non le stava dicendo tutto quello che sapeva. “Per una volta ditemi tutta la verità”, disse. C’era una nota di amarezza nella sua voce. 
L’uomo sospirò. “Li avete già incontrati, in verità, in più di un’occasione”
La ragazza stava per fargli altre domande quando un cavaliere lanciato a tutta velocità sfrecciò sulla strada; gli zoccoli del suo cavallo producevano un rumore cadenzato contro i ciottoli dell’antica strada romana.
Si fecero entrambi da parte, per evitare di essere investiti. Elettra osservò attentamente l’uomo e il cavallo: entrambi indossavano pesanti paramenti in pelle nera e anche l’elmo era di pesante cuoio. Lei aveva già visto quello strano abbigliamento... Sbiancò, rendendosi conto di dove e quando. “Sono loro che hanno rapito Lucrezia e mia madre!”, disse, cercando di riportare alla mente più particolari possibili di quel tragico giorno.
Si voltò verso Zenone, sperando che potesse rivelarle qualcosa in più o almeno confermare la sua ipotesi, ma lui era già scomparso e lentamente anche ciò che le stava intorno svanì...


Elettra si svegliò di soprassalto, guardandosi intorno con aria spaesata. Si trovava alla propria scrivania, a Palazzo della Signoria. Si ricordò che stava studiando alcune carte... Doveva essersi assopita.
Si stropicciò gli occhi, facendo mente locale sullo strano sogno che aveva appena fatto.
‘Le ombre al centro del Labirinto’... 
La voce del bibliotecario le giunse nitida alle orecchie, quasi se Zenone fosse proprio davanti a lei. Erano loro che tenevano prigioniere Lucrezia e sua madre.
Ripensò a ciò che aveva visto, a tutti quegli uomini e donne crocefissi, con la lingua e gli occhi strappati. Nella sua mente ritornarono le immagini dei suoi amici e conoscenti, delle persone che le erano più care, inchiodati a quelle croci. 
“Maledetta memoria fotografica”, mormorò tra sè e sè, scuotendo la testa per cercare di scacciare quelle immagini.
Un pensiero, un orribile pensiero si fece spazio nella sua mente, gelandole il sangue. Poteva chiaramente sentire un brivido freddo salirle lungo la colonna vertebrale. E se Lucrezia e sua madre avessero subito la stessa sorte?
No, non poteva essere così: loro due dovevano stare bene. Dovevano assolutamente stare bene.
Una vocina malefica dentro di sè però continuava a ripeterle che non tutti i tipi di tortura erano mortali: cavare gli occhi e strappare una lingua non avrebbe implicato per forza la morte.
Cosa avrebbe fatto se avesse trovato sua sorella in quello stato?
No, doveva scacciare quei pensieri nefasti dalla mente ed essere positiva. Doveva conservare la speranza che lei stesse bene.
Dei colpi alla porta la riportarono all’interno di quella stanza ed Elettra ringraziò mentalmente chiunque ci fosse dall’altra parte per averla distolta dalle proprie preoccupazioni.
“Avanti”, disse, cercando di mantenere un tono di voce neutro, che non facesse trasparire tutta la sua angoscia.
Fabrizio entrò trafelato; dalle guance rosse e la fronte imperlata di sudore, pareva aver corso molto. “Un messaggio per voi”, disse ansimante. Le passò la lettera, piegandosi poi sulle ginocchia e prendendo dei lunghi respiri.
Elettra si rigirò alcune volte la carta fra le mani in cerca di un qualcosa che indicasse il mittente. 
“L’ha consegnata un mercante romano ad una delle cuoche, pregandola di portarla a voi al più presto”, spiegò il servitore, notando la sua indecisione ad aprirla.
Sulle labbra della ragazza si formò un largo sorriso: sapeva esattamente di chi era. Aspettava quel messaggio da molto tempo.
Osservò Fabrizio che, capendo di essere diventato ormai di troppo all’interno dello studio, dopo un leggero inchino si congedò.
Appena la porta si richiuse alle sue spalle, Elettra prese il tagliacarte, aprendo impaziente la busta. 

Roma, ghetto ebraico, locanda del Leone Blu, chiedi di Amos. Ti spiegherò tutto appena arrivi, fai il prima possibile.
Leonardo  

‘Sintetico’, pensò sarcastica la ragazza. Non aveva notizie di Leonardo, Nico e Zoroastro da mesi e l’unica cosa che Da Vinci le diceva era di muovere il culo ed andare ad aiutarli. Niente, neanche un ‘Noi stiamo bene e non abbiamo pali infilati in posti strani’. Solo di muoversi ad andare a Roma.
Sospirò,  pensando che da Leonardo non potesse aspettarsi niente di diverso da quello che le aveva appena scritto.
Si diresse velocemente verso l’armadio, dove, da settimane ormai, una sacca con tutto il necessario per il viaggio attendeva solo di essere presa ed utilizzata. 
L’appoggiò sul tavolo, raccogliendo velocemente alcune carte e documenti dallo scrittoio.
Nel mentre, la porta si aprì di nuovo e nella stanza entrò Giuliano: aveva un’aria trionfante, stampata in volto.
“So chi è la spia!”, disse con un sorriso a trentadue denti. 
Il suo sorriso però si spense presto, notando la sacca da viaggio e la lettera sulla scrivania. Sapeva cosa significassero, Elettra gli aveva spiegato tutto. Sapeva della sua folle idea di infiltrarsi negli archivi segreti vaticani. 
Il de Medici sospirò. “Sei in procinto di partire”, constatò amaramente.
La ragazza gli rivolse un leggero sorriso che però sapeva di rimorso. “Chi è la spia?”, chiese.
“Non hai risposto alla mia domanda”, ribattè lui.
“Non c’era niente da rispondere, tu lo avevi già capito”
“C’è qualcosa che posso dire o fare per farti cambiare idea?”. Giuliano però sapeva che era una battaglia già persa in partenza. Ma sapeva anche che se Lorenzo fosse scomparso nel nulla e l’unico modo di ritrovarlo fosse stato andare a Roma, non avrebbe esitato neanche un attimo a compiere gli stessi gesti di Elettra.
Lui la stimava. E le voleva bene, proprio come se fosse stata sua sorella.
La vide scuotere la testa. “Neanche tu hai risposto alla mia”
“Lo saprai al tuo ritorno”, le disse, avvicinandosi a lei e stringendola forte. “Almeno avrai un motivo in più per tornare a Firenze sulle tue gambe”, aggiunse ironico.
Per tutta risposta, ottenne un amichevole pugno su di un braccio, seguito dalla sua risata cristallina. 
“Anche io sono in procinto di partire, sto per andare a Siena a stanare la spia che ha tentato di incastrare Becchi”, le rivelò.
“Buon viaggio, Giuliano”, le disse lei, prendendo la sacca dal tavolo e mettendosela su di una spalla. Gli baciò una guancia, prima di uscire.
“Buon viaggio anche a te”, le augurò lui, mentre la vedeva aprire la porta. “Ci rivediamo al ritorno”
Lei gli sorrise. Per l’ultima volta.
***
 
Elettra osservò il cielo terso sopra alla propria testa, schermandosi gli occhi con una mano. Il cavallo su cui viaggiava nitrì, facendo così sentire la propria presenza.
La ragazza si voltò: le mura di Firenze erano ormai diventate una linea all’orizzonte. Davanti a lei, zigzagando tra le colline toscane, si estendeva la strada che portava alla Città Eterna.
“Ci vediamo a Roma, Leonardo”


Nda
Dopo quasi due mesi di assenza, rieccomi di nuovo qui con un capitolo di passaggio. Bene, tra morti e feriti sono riuscita sopravvivere a quell'incubo studentesco che è la sessione invernale di esami... Esperienza traumatica che non vi consiglio affatto ahahahah
Tornando alle cose più importanti, questo capitolo l'ho appena finito di scrivere quindi, essendo l'una e mezza di notte, spero tanto che mi passiate eventuali errori. Devo ammettere che questa parte è stata particolarmente travagliata, specialemente la parte del dialogo con Sisto...
So che dopo ben due mesi di asenza non è molto, ma spero comunque di sentire presto i vostri pareri. A presto (o almeno lo spero) ;) 
   
 
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