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Autore: _armida    06/04/2016    2 recensioni
“Sono stupito, non credevo che un bel faccino riuscisse anche a maneggiare un’arma con tale bravura”, disse il Conte.
Elettra provò a tirarsi su, ma finì per andare ad urtare contro la lama della spada, ferendosi leggermente uno zigomo.
“Dovete stare attenta, non volete di certo rovinare tutta questa bellezza così”, aggiunse allontanando la spada dalla faccia della ragazza. Doveva dargliene atto, era davvero bella. Non lo aveva notato prima, quando Grunwald l’aveva portata all’accampamento priva di sensi, era troppo preso dal chiedere al garzone di Da Vinci dove si trovasse la chiave.
Fece cenno a due guardie svizzere di tenerla ferma, mentre lui la perquisiva in cerca di altre armi nascoste. Non ne trovò, ma la sua attenzione fu catturata da qualcosa che la ragazza teneva nella tasca sinistra dei pantaloni: si trattava del suo blocco da disegno. Quando fece per sfogliarlo, una moneta, contenuta al suo interno cadde a terra; non si trattava di una moneta comune, era in oro e presentava sulla sua superficie la faccia di un dio pagano. La raccolse e la osservò accuratamente.
“Cosa sapete riguardo ai Figli di Mitra?”
VERSIONE RIVEDUTA E CORRETTA SU WATTPAD
Genere: Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Girolamo Riario, Giuliano Medici, Leonardo da Vinci, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Elettra'
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Capitolo XXVIII: Roma, parte I

    Un paio di giorni più tardi...

Roma era... 
“Triste”, venne subito da pensare ad Elettra. 
Quello che si stava svolgendo sotto ai suoi occhi era un carnevale, la festa per eccellenza, eppure... ‘A carnevale ogni scherzo vale’, recitava il proverbio. Il popolo avrebbe dovuto festeggiare con bagordi e gozzoviglie, non osservare silenziosamente dei miseri carri a malapena decorati e rappresentanti noiose scene tratte dalla Bibbia o dalle vite di qualche santo semisconosciuto. Se per caso avesse organizzato uno spettacolo del genere a Firenze, probabilmente l’avrebbero già messa alla forca.
Firenze...
Chissà come se la stavano cavando con il carnevale a Firenze? Aveva lasciato tutti i suoi progetti ai propri sottoposti, sperando che seguissero le sue indicazioni alla lettera e che non vi fossero imprevisti. Anche a Firenze, però, quell’anno la festa sarebbe stata meno allegra del solito... 
Non si era mai persa un carnevale fiorentino, quella volta sarebbe stata la prima. Anche Giuliano si sarebbe perso i festeggiamenti, così impegnato come era nella ricerca della spia.
Al pensiero del proprio migliore amico, le venne alla mente il carnevale di due anni prima, quando, sulla cima di uno dei carri del carnevale, avevano interpretato Bacco e Arianna.
Quant’è bella giovinezza,
che si fugge tuttavia!
chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza’

Il ritornello della Canzone di Bacco e Arianna. Quei semplici quattro versi erano un puro inno alla vita, a lasciarsi andare e a cogliere l’attimo, ed erano diventati subito il loro motto per eccellenza.
Quel carnevale aveva consacrato Giuliano come Principe della Giovinezza e, che principe sarebbe stato, se non avesse avuto al suo fianco una principessa degna di quel nome? Elettra era perfetta per quel ruolo. E Firenze aveva avuto così la sua coppia di burloni.
Ma non per il carnevale del 1478.
Sospirò, tornando ad osservare quella città grigia, senza colori ed allegria. Ciò che restava della maestosità della Roma Antica non era nient’altro che uno spettro: macerie pericolanti ed edifici vuoti. Dove erano finiti lo sfarzo e la leggerezza dei banchetti e delle feste dell’epoca imperiale? Spazzati via, insieme a tutto il resto dell’impero. Le rovine del Colosseo, alle sue spalle, ne erano la prova più lampante.  
Tornò a guardare i carri che, lentamente, le sfilavano davanti. Cosa ci faceva lì? Avrebbe dovuto dirigersi immediatamente verso i ghetto ebraico, da Leonardo, Nico e Zoroastro, non perdere tempo per le vie del centro. Si sistemò meglio il proprio mantello sul capo; il rischio che qualche guardia svizzera la riconoscesse era basso, eppure c’era. Purtroppo Elettra sapeva benissimo cosa ci facesse lì: non si trovava lì per camminare tra le rovine della Roma Antica (anche se era molto tentata di farlo), si trovava lì con la speranza di poter vedere una persona. Una persona vestita sempre di nero, con l’aria impassibile e due grandi occhi color nocciola. Una persona che prima di andarsene da Firenze l’aveva rassicurata che le avrebbe dato al più presto sue notizie. 
Le settimane erano passate e dal Conte Riario non aveva ricevuto neanche uno straccio di lettera! L’avrebbe strozzato con le sue stesse mani, se le fosse capitato a tiro. 
Quell’ultima ipotesi però era alquanto remota, visto che Girolamo non avrebbe assolutamente dovuto sapere che lei si trovasse a Roma.
Elettra gli aveva promesso che non avrebbe mai messo piede nella Città Eterna. Ma tutto ciò era successo prima che il Turco le rivelasse di quei documenti nascosti negli Archivi Segreti Vaticani e riguardanti la scomparsa di sua madre e di sua sorella.
Stava per voltarsi ed andarsene, quando, a poca distanza dall’ultimo carro della sfilata, arrivò un manipolo di guardie svizzere, seguite da un calesse bianco.
“Cosa sta succedendo?”, chiese ad un uomo, di fianco a lei.
Lo vide strabuzzare gli occhi, evidentemente sorpreso dalla domanda. “Ma come? Non riconoscete Sua Santità?”
“Oh...”
In effetti quello sulla carrozza era proprio Sisto. La ragazza si diede della stupida da sola per non esserci arrivata. Era così ovvio!
“Scusate, non sono di qui”, disse, propinando all’uomo uno dei suoi migliori sorrisi innocenti. 
Probabilmente avrebbe aggiunto anche qualcos’altro, se non fosse stata completamente rapita dalla figura in abiti scuri che, dall’alto del proprio andaluso nero, di fianco al calesse papale, studiava con attenzione la folla raccolta ai lati della strada.
Sul volto di Elettra si formò un largo sorriso nel constatare che Girolamo stava bene. 

Girolamo Riario osservava attentamente la marea di persone che affollavano la via, ammassati uno sopra l’altro nel tentativo di poter scorgere anche per un solo momento Sua Santità. Studiava ogni singolo volto, alla ricerca di possibili minacce alla sicurezza del Santo Padre. Temeva che tra tutta quella folla vi fosse sempre qualche malintenzionato e toccava a lui e alle proprie guardie svizzere difendere Sisto da eventuali attacchi. Sospirò, pensando che se qualcuno avesse davvero voluto far del male al Papa, con tutta quella gente, a ben poco sarebbe stato utile. 
Strinse la mano intorno all’elsa della propria spada, riposta al suo fianco, mentre con l’altra teneva strette le briglie del proprio cavallo.
Un volto, tra tutta quella folla attirò la sua attenzione: esso era in parte coperto da un cappuccio scuro, eppure una ciocca bionda, ribelle, le ricadeva sul viso dai lineamenti delicati. Non si rese minimamente conto di aver fermato il proprio destriero, talmente preso come era. Si accorse di tutto quando una delle guardie svizzere gli si avvicinò, domandandogli cosa avesse scorto.
Il Conte Riario lo liquidò con un cenno della mano, utilizzando come spiegazione una svista dovuto alla stanchezza di quei giorni.
Quando riposò il proprio sguardo sulla folla lei era già scomparsa.
Scosse la testa: forse era davvero la stanchezza che gli giocava brutti scherzi. Lei non poteva essere a Roma. Non doveva essere a Roma. Glielo aveva promesso.

 ***
 
 Poco tempo dopo...

Elettra si fermò davanti ad una porta di legno dall’aria vissuta: a giudicare dalle condizioni in cui riversava, quell’infisso non aveva mai visto un goccio di vernice.
Sopra alla sua testa, invece, pendeva un insegna ormai quasi completamente sbiadita, rappresentante un leone di colore blu.
Quella molto probabilmente era la locanda che le aveva detto Leonardo. Sperò che fosse la locanda che le aveva indicato Leonardo. Il pensiero di dover girare ancora per il ghetto ebraico non le piaceva affatto. I vicoli erano stretti e maleodoranti e, in ogni dove, si poteva intuire la povertà di suoi abitanti.
Anche il ghetto ebraico fiorentino non era proprio il migliore quartiere della città, ma senz’altro era in condizioni migliori di quello romano. Gli ebrei a Firenze erano conosciuti sopratutto per le loro doti come guaritori ed erboristi e ad Elettra capitava spesso di passare per il ghetto a cercare qualche tipo particolare di merce. Non si era mai sentita nervosa o irrequieta a passeggiare per quelle vie. Ma non poteva di certo dire la stessa cosa in quel momento...
Osservò guardinga un mendicante seduto al lato della strada, nel fango, che guardava il suo polso con decisamente troppo interesse. Abbassò anche lei lo sguardo su di esso, osservando il proprio braccialetto in oro bianco ed acquemarine, dono di Girolamo. Imprecò, dandosi mentalmente della stupida –di nuovo- per non aver pensato di celarlo alla vista. Lo indossava sempre e, spesso, si dimenticava persino di averlo con sè,  talmente ne aveva fatto l’abitudine. 
Poggiò la mano sull’elsa della spada, anch’essa in bella vista –ma per una buona ragione questa volta-.
Rimise attentamente il braccialetto sotto la manica della camicia, in modo che restasse nascosto e, inevitabilmente, si mise a pensare all’uomo che glielo aveva regalato. 
Sentì un brivido freddo correrle lungo la schiena al pensiero che poco prima si era fatta quasi scoprire da Girolamo a vagare per le vie di Roma. Quando il suo sguardo profondo si era specchiato nel proprio, Elettra era andata per un attimo nel panico e l’unica cosa che le era venuta in mente di fare era stata quella di mischiarsi nuovamente fra la folla, sperando che lui non la seguisse. 
Scosse la testa, pensando che, tra tutta quella marea di gente, lui non poteva assolutamente averla riconosciuta. La sua paura era senz’altro infondata. O almeno riuscì a convincere sè stessa che fosse così. Girolamo doveva crederla ancora a Firenze, intenta a svolgere qualche incarico per conto della Signoria. Gli aveva promesso che non sarebbe mai andata a Roma. Non poteva permettersi di farsi beccare così.
Diede ancora una veloce occhiata al triste vicolo, prima di stringere forte la maniglia della porta ed entrare.

Elettra storse il naso a sentire l’odore che quella locanda emanava: l’aria era viziata e sapeva di fumo e vino andato a male. I suoi occhi, abituati alla luce esterna, ci misero un po’ ad adattarsi al buio di quel locale; a ben poco servivano le flebili luci delle candele alle pareti.
L’ambiente era sporco e qua e là vi erano dei lunghi tavoloni di legno grezzo. 
Nonostante indossasse ancora il suo mantello con il cappuccio calato in testa, sentiva addosso troppi occhi. Sospirò e, cercando di sembrare a proprio agio, si diresse a passo svelto verso il bancone.
“Sto cercando un certo Amos”, disse all’anziano intento a servire birra e vino. 
L’uomo la osservò con diffidenza. “Non so chi sia”
Elettra abbassò i proprio cappuccio, in modo che la potesse vederla meglio in viso. “Un amico mi ha detto di venire qui e chiedere di Amos”
Un barlume di curiosità passò negli occhi del vecchio. “E voi siete?”
“Mi chiamo Elettra”
Sul volto del suo interlocutore si formò un ampio sorriso e scoppiò a ridere. “Sono io la persona che state cercando e se mi seguirete, vi porterò dal maestro Da Vinci”
La ragazza lo guardò perplessa. Perchè non dirle subito chi era?
“Scusate se mi sono preso un po’ gioco di voi, ma quando nel ghetto arriva qualcuno da fuori e chiede di te, raramente è piacevole”

Amos portò Elettra ad una porta secondaria, che dava su di un affollato porticato dove vi erano presenti alcuni tavolini sparsi qua e là. Gliene indicò uno dove, tra una marea di scartoffie, due persone erano intente a discutere. La ragazza non potè fare a meno di sorridere, raggiante, alla vista di Nico e Leonardo.
Fece un cenno di ringraziamento all’uomo, prima di correre verso i suoi amici.
“Leo, Nico!”, urlò, prima di saltare al collo di Da Vinci e stringerlo forte a sè.
L’artista ricambiò la presa, allontanandosi subito dopo per osservare meglio l’amica. “Ti vedo bene, decisamente meglio dell’ultima volta”. Un sorrisetto malizioso si formò sulle sue labbra. “Non sarà che...”
“Tutto sistemato”, disse Elettra. Sulle sue guance si fece strada un diffuso rossore. “Anche voi sembrate in forma”, commentò, cercando di scacciare dalla propria mente l’immagine di Girolamo. Si guardò in giro, in cerca del terzo amico, ma di Zoroastro non vi era traccia. “Zo dov’è?”, chiese. C’era una sfumatura di timore nella sua voce.
Leonardo sospirò, con l’aria affranta. “In Valacchia, con un palo infilato nel...”, lasciò la frase a metà, come a darle più enfasi. Vide Elettra sbiancare. 
Se non fosse stato per Nico, che, incapace di trattenersi, si era messo a sghignazzare alle sue spalle, probabilmente quello sarebbe stato ricordato negli anni come uno dei suoi migliori scherzi.
Gli occhi della ragazza guizzarono veloci dal giovane Machiavelli all’artista; se ne fosse stata capace, lo avrebbe senz’altro fulminato lì, sul momento. “Leonardo Da Vinci, come osi scherzare su una cosa del genere?!”. Il tono della sua voce era pieno di indignazione.
Leonardo scoppiò a ridere. “Non ti facevo così permalosa”
“Non ho vostre notizie da mesi e fino ad un paio di giorni fa non sapevo neanche se foste vivi o morti e tu mi vieni a dire che sono permalosa?! Anche solo due righe con scritto ‘Stiamo tutti bene’ potevi anche mandarmele!”. Ora invece si sentiva offesa.
Le risate dell’artista aumentarono di intensità. “Oh, guardalo là l’impalato che cammina”, disse indicando un punto oltre i porticato. Zoroastro comparve poco dopo; con aria tranquilla, cercando di passare il più inosservato possibile, si avvicinò al loro tavolo. “I cambi delle guardie all’entrata sud sono serrati come le gambe di una suora di venerdì santo”, disse, osservando le varie mappe disposte sul tavole e non facendo assolutamente caso alla giovane donna che ora si trovava alle spalle di Leonardo.
“Zo!”
In modo del tutto inaspettato, il moro si ritrovò Elettra fra le braccia. Sul suo viso si formò un ampio sorriso, mentre la sua mano si spostò dalla schiena della ragazza ad un punto un po’ più basso. “Quanto mi sei mancato”, commentò.
La bionda si staccò da lui; aveva l’aria contrariata. “Passi dei mesi senza vedermi e la prima cosa che ti viene in mente è dire quanto ti è mancato il mio culo?”. Sbuffò: prima Leonardo che esordisce con un pessimo scherzo –cosa voleva, che le venisse un infarto a tutti i costi?- e ora questo.
“Ma è la verità”, disse Zoroastro, cominciando a sghignazzare, seguito a ruota da Da Vinci. “Di certo non potevo dire che mi era mancata la tua lingua lunga...a proposito, non è che a breve dovrai fare da modella per qualche quadro?”
“Pensiamo prima a tornare vivi a Firenze”, ribattè Elettra, prendendo posto intorno al tavolo, imitata dagli altri. “Leonardo, cosa pensi di trovare negli Archivi Segreti?”
L’artista la osservò in modo strano: non aveva ancora accennato alla ragazza quale era la loro meta. “Come fai a sapere che devo entrare negli Archi Segreti?”
“Il Turco è venuto a farmi visita, diverse settimane fa, e...”
“Ti ha detto altro?”
Elettra prese un lungo respiro: ora veniva la parte difficile. “Devo entrare anche io negli Archivi Segr...”
“Non se ne parla neanche!”, la interruppe bruscamente Da Vinci. “È troppo pericoloso”
La ragazza si aspettava quella resistenza da parte sua. 
“Per una volta dò ragione a Leonardo”, aggiunse Zoroastro.
Anche da lui.
“Io devo assolutamente farlo”, disse con tono sicuro, puntando i suoi occhi color del cielo in quelli castani dell’artista. C’era risolutezza nelle sue parole. E la sua solita tenacia, unita a un po’ troppa testardaggine.
Chiunque sapeva che quando Elettra Becchi si metteva in testa qualcosa, era impossibile farle cambiare idea.
“Cosa ti ha detto il Turco?”. Leonardo sapeva che i due fatti erano direttamente collegati.
“Negli Archivi ci sono dei documenti contenenti indizi sul dove potrebbero trovarsi mia madre e mia sorella”
Da Vinci annuì: chi meglio di lui poteva sapere quale forza spingesse quella ragazza ad imbarcarsi in una così rischiosa impresa? 
Zoroastro e Nico, nel frattempo, li osservavano chiedendosi come sarebbe andata a finire. Zo, però, temeva già di sapere l’esito. E l’espressione che Leonardo fece poco più tardi, non fu altro che un’ulteriore conferma. “Non vorrai portarla con te, vero?”
“Ovviamente”
 
*** 

 Più tardi (e parecchie discussioni dopo)... 

“Bene, allora io recupererò quei documenti e Leonardo invece si occuperà dell’ultima chiave della Volta Celeste”. Elettra in quel momento appariva come la personificazione della vittoria.
Zoroastro, sfinito, si lasciò cadere sulla propria sedia: aveva provato ad opporsi a quella sua folle idea di infiltrarsi negli Archivi Segreti Vaticani, ma la cocciutaggine di quella ragazzina –unita a quella di Da Vinci, ovviamente- aveva avuto la meglio.
Elettra guardò i visi dei propri compagni, in attesa di sentirli dire qualcosa. Invece ciò che udì fu solo il vociare della gente intorno a loro. Diede un’altra occhiata ai disegni disposti sul tavolo, poi decise di prendere nuovamente la parola. “Avete qualche idea su come fare?”
“Abbiamo esaminato ogni entrata, uscita, finestra, galleria, buco...entrare in Vaticano senza essere scorti è impossibile”, disse Zo.
“Sai che la parola ‘impossibile’ mi spinge a provare con più determinazione”, ribattè Leonardo.
“Maestro, le sentinelle sorvegliano ogni apertura”, provò a farlo ragionare Nico.
“Ecco che ne arrivano due”, sussurrò il moro.
Immediatamente si misero tutti e quattro all’opera per nascondere tutto ciò che c’era di eventualmente sospetto sul tavolo.
Amos, vedendoli in difficoltà, gli si avvicinò. “Non preoccupatevi amici miei, finchè vi pensano ebrei qui nel ghetto non avete nulla da temere. Non gli notano neanche gli ebrei”. Per rendere meglio l’idea ai suoi ospiti, sputò a terra: un gesto del genere solitamente avrebbe attirato l’attenzione delle guardie, invece esse gli passarono accanto senza battere ciglio; non sembravano neanche averlo notato. “ Vedete? Non fanno caso a voi perchè indossate il giallo”.
A Roma, per essere riconosciuti,, gli ebrei avevano l’obbligo di indossare un berretto giallo.
“Vi ringrazio per averci accolto”, disse Leonardo.
“Anche se non foste qui per nuocere ai nostri oppressori gli amici di Zoroastro sono i benvenuti, perchè ne ha talmente pochi”, ribattè l’anziano, dando un’amichevole pacca sulla spalla al moro; dopodichè tornò ai propri affari, sghignazzando fra sè e sè.
Da Vinci si rimise a studiare i vari disegni. “Castel Sant’Angelo, la fortezza collegata alle mura vaticane, se riuscissi a trovare un modo per raggiungere questa torre, allora...”
“Leonardo, ascoltami ti prego: questa è una prigione, è chiaro? Insomma, ti è piaciuto così tanto il Bargello che hai nostalgia delle sbarre?”, provò a farlo ragionare nuovamente Zo.
“Dietro quelle sbarre mi ci hanno messo delle persone, Zoroastro, e devono pagare per la loro follia”  
Alle parole dell’artista, lo sguardo di Elettra si abbassò sulle proprie mani, poggiate sul tavolo. I suo volto, solitamente solare, si rabbuiò: sapeva benissimo a chi Leonardo si stesse riferendo e non poteva fare a meno di sentirsi in colpa al pensiero di ciò che Girolamo gli aveva fatto. C’erano delle notti in qui il senso di colpa la teneva sveglia ed altre in cui si svegliava di soprassalto, con ancora viva la sensazione delle proprie mani grondanti del sangue di qualche innocente. Come poteva quel sentimento che gli univa essere sbagliato? Poteva provare ad ingannare anche sè stessa, eppure sapeva che quella era la verità; se la storia di loro due fosse venuta alla luce, nessuno avrebbe esitato a bollarla come traditrice.
Chiuse gli occhi, sforzandosi di non pensarci: quello non era nè il momento, nè il luogo adatto. 
“Perchè siete convinti di voler entrare a tutti i costi di soppiatto, senza essere notati?”. Elettra aveva ideato un suo piano durante tutte quelle settimane. E non era neanche così folle. 
“Perchè altrimenti verremmo scoperti ed imprigionati, se non peggio...”, le rispose Zoroastro, con tono ovvio..
“E se entrassimo con la...ehm...autorizzazione di un qualche pezzo grosso?”
Nelle iridi di Leonardo brillò una strana luce. “Spiegati meglio”
 “Potrei facilmente procurarmi una falsa autorizzazione scritta del Cardinale Mercuri”
“ ‘E perchè il Cardinale Mercuri autorizzerebbe una funzionaria dei Medici ed un artista  ad accedere agli Archivi Segreti Vaticani?’, qualche sentinella potrebbe farti questa domanda”, fece notare Zo, scettico.
Elettra sorrise: aveva già pensato anche a quello. “Perchè sia il Cardinale Mercuri che il suo fedele assistente, nonché mio fratello, saranno indisposti a causa di alcuni problemi di salute e, visto che il Cardinale avrà un bisogno urgentissimo di alcuni documenti conservati nel suo studio, la dolce ed innocua sorellina nel vescovo Becchi si offrirà gentilmente di andare a prenderli per lui”
“Non se la berranno mai”, ribattè. “È un’idea folle”
“Che però potrebbe funzionare”. Leonardo guardava Elettra con ammirazione, segno che quel piano gli piaceva. “L’unico problema è che in quel modo potrai entrare solo tu, io troverò un altro stratagemma”
Già, quello era l’unico problema.
“E se qualcosa dovesse andare storto? Come pensi di fare ad uscire? La porta d’entrata è da escludere”
Elettra aveva pensato anche a quello. “Mio fratello tempo fa mi ha parlato dei cunicoli sotterranei che si estendono sotto tutta Roma. Mi procurerò una mappa e male che vada utilizzerò quei passaggi per uscire”
“A proposito di materiale da reperire: dove pensi di trovare il necessario per falsificare l’autorizzazione di Mercuri?”, chiese Leonardo.
“A casa di mio fratello, ovviamente. Insieme alla mappa dei sotterranei di Roma: a tutti gli impiegati degli Archivi ne viene fornita una copia”
“Quindi pensi di coinvolgere anche lui?”. A Zoroastro sembrava così strano che Elettra fosse in grado di mettere a rischio in quel modo la sicurezza di suo fratello.
“Certo che no”, rispose prontamente lei. “Ma per nostra fortuna so dove abita Aramis e, a grandi linee, conosco anche i suoi orari: andrò a dare un’occhiata mentre lui è fuori di casa”

 ***
 
Quella notte...  

Leonardo aveva svegliato tutti di soprassalto, urlando e vaneggiando di avere finalmente trovato un modo per entrare in Vaticano senza essere visto. Con la testa completamente zuppa d’acqua e quella solita espressione da pazzo, aveva esposto agli altri il suo geniale piano. Parola chiave: le fogne.
Zoroastro lo aveva guardato con un misto di scetticismo e sonno, dandogli retta più che altro per  poter tornare a dormire il prima possibile che realmente interessato al progetto; tanto sapeva che Da Vinci avrebbe ripetuto tutto il mattino seguente.
Anche Nico, mentre ascoltava il proprio maestro, sembrava più che dormisse in piedi che altro.
Elettra, invece, sembrava la più attiva di tutti; in realtà lei era grata a Leonardo per averla svegliata. Aveva passato quasi tutto il resto della notte a rigirarsi tra le coperte e, quando finalmente si era assopita, era piombata in uno dei più frequenti incubi: c’era Lucrezia, la sua sorellina, che con la mano tesa la implorava di aiutarla, ma Elettra poteva solo osservare quella mano allontanarsi sempre di più, incapace di muoversi. 
Da quel tragico giorno di nove anni prima gli incubi avevano minacciato spesso il suo sonno ma, con l’affetto di suo zio e la pittura prima, e con la compagnia di Girolamo dopo, era riuscita ad evitarli. Ma da quando Girolamo era partito, essi erano tornati, con sempre più frequenza. Sua sorella, Firenze in fiamme, Girolamo che tramava alle sue spalle...aveva davvero troppe preoccupazioni in quel momento.
Si rigirò nuovamente tra le coperte, cercando una posizione più comoda. Ormai intorno a lei si era nuovamente calmato tutto e ognuno era tornato nel proprio letto.
Anche Leonardo, che si trovava nella parte in basso di quel letto a castello, continuava a muoversi, segno che qualcosa gli stava turbando il sonno. 
“Elettra?”, lo sentì chiamare sottovoce, per non svegliane Nico e Zo, ormai nel mondo dei sogni.
“Si, Leonardo”, rispose lei, mettendosi a pancia sotto e allungando un braccio verso il basso.
Da Vinci sospirò: voleva farle quella domanda appena l’aveva vista arrivare, ma poi altri fattori l’avevano fatta passare in secondo piano. “Tu conosci una certa Celia Lisymachus?”
Elettra ci pensò sù un po’. “È un nome ebraico”, ragionò tra sè e sè. “No, non la conosco”
“Riario ti ha mai parlato di lei?”
Ci fu ancora del silenzio. “No, mai...perchè me lo chiedi?”
“L’ho visto portare dei fiori sulla sua tomba”
La ragazza sospirò. “Mi dispiace Leonardo ma non ne so niente. Girolamo sa più cose di me di quante non ne sappia io, eppure io di lui non so quasi niente. E quel poco che so, non me lo ha di certo rivelato lui”. C’era dell’amarezza nelle sue parole, mista a u po’ di malinconia.
Ci fu di nuovo del silenzio, nel quale Leonardo continuava ad aprire e chiudere la bocca, indeciso se parlare o meno. Alla fine decise. “Lo ami?”
Elettra lo sapeva che prima o poi avrebbe dovuto affrontare quel discorso con Da Vinci. Prese un lungo respiro, mentre sentiva la mano dell’artista stringersi intorno alla sua, ancora a penzoloni. “Non lo so...”. Il suo fu un sussurro appena udibile. “So solo che mi sono affezionata a lui”
Leonardo non stentava a credere che ciò che lei gli stava dicendo fosse la verità: nei confronti di Lucrezia Donati lui provava gli stessi sentimenti contrastanti.
“E se fossi costretta a scegliere tra...”
Elettra non gli lasciò completare la frase, rispondendo immediatamente. “La mia fedeltà va innanzitutto a Firenze. Tu dovresti saperlo meglio di me”. Il suo tono di voce era sicuro, fermo e deciso.
Sarebbe stato difficile, eppure non avrebbe esitato un attimo a preferire la propria città a Girolamo. Anche lui avrebbe fatto lo stesso. Le parole che si erano detti, il giorno in cui lui era ripartito per Roma, non le lasciavano alcun dubbio.
‘Io a Roma non posso proteggerti’ 
Anche lui aveva scelto la fedeltà alla propria città.
“Il giorno in cui se ne andò da Firenze mi fece promettere che non avrei mai messo piede a Roma”, disse Elettra, dando così voce ai suoi pensieri. 
“Almeno hai un motivo in più per evitare di farti beccare a spasso per il Vaticano”. Il tono di voce dell’artista si era fatto ironico.
La ragazza sorrise fra sè e sè, pensando alla faccia contrariata del Conte; era sempre divertente la sua espressione da offeso. “Unito al fatto che non mi va di finire arrostita”. La conversazione ormai era finita sul ridere.
Leonardo ridacchiò, mentre sentiva Elettra scendere dal proprio letto. Poco dopo sentì le proprie coperte alzarsi e il calore del corpo di qualcuno, accanto al suo.
“Non sono più abituata a dormire sola”, disse la ragazza.
Da Vinci la abbracciò. “Ed immagino che quando gli hai fatto quella promessa a Riario eravate più vicini di noi in questo momento”, le sussurrò ad un orecchio. “E decisamente meno vestiti”
Le guance di Elettra presero velocemente colore. “Leonardo Da Vinci, sempre a pensare a quello!”
“Dimostrami che non era così”
“Girolamo era vestito e io quasi”
“Oh...allora capisco perchè lo hai fatto”
“Mi stavo rivestendo”
“Interessante...”, commentò l’artista fra sè e sè.
Elettra si voltò, in modo da poter avere il viso di Leonardo di fronte al suo. “Sei forse invidioso di me, artista?”, lo punzecchiò.
Da Vinci la osservò con uno dei suoi soliti sorrisi strafottenti. “Beh...se si tralascia il fatto che mi ha quasi messo al rogo, non è proprio niente male”, disse ironico. “E poi io sono curioso di natura quindi...”
“Buonanotte, Leonardo”, lo interruppe Elettra, chiudendo gli occhi, certa che almeno per il resto della  notte gli incubi l’avrebbero lasciata in pace.

 *** 

Il pomeriggio successivo...

Elettra si guardò intorno sospettosa, sistemandosi meglio il cappuccio dell’elegante mantello color prugna e delicati arabeschi dalle sfumature violacee. Le venne da sorridere al pensiero della facilità con cui Zoroastro riusciva a procurarsi qualsiasi cosa. E per qualsiasi cosa intendeva vestiti dall’aria costosa, adatti a passare inosservata nei quartieri più ricchi della città e che, sopratutto, le calzassero a pennello.
In quel momento, mentre gli altri tre erano impegnati nella messa a punto della speciale tuta subacquea di Leonardo, lei camminava tranquillamente per uno dei quartieri più lussuosi di Roma. La sua meta? L’abitazione di Aramis.
Era certa di poter arrivare a casa sua per l’ora dei vespri e, ovviamente, a quell’ora suo fratello si sarebbe senz’altro trovato in qualche cappella del Vaticano a svolgere...Elettra ci pensò sù, ma non le venne in mente in cosa potessero consistere i vespri, a parte sgranare qualche perla del rosario. Scosse la testa: certe cose non facevano decisamente per lei.
Si era dovuta vestire elegante per non attirare troppo l’attenzione. Fortunatamente, quel poco di educazione da alta società che Gentile Becchi aveva tentato con tutte le sue forze di inculcarle in testa, ogni tanto veniva fuori, permettendole di passare inosservata in situazioni come quella.
L’unico lato negativo di quel momento era che, per raggiungere la casa di Aramis, Elettra doveva assolutamente passare di fianco a Palazzo Riario, residenza del Conte Girolamo Riario.
Sbuffò, sistemandosi nuovamente il cappuccio; la dea bendata non poteva avercela così tanto con lei da farle incontrare Girolamo di nuovo. Se il Conte l’avesse scorta per quelle vie, sarebbe stata la fine del suo brillante piano.
Eppure, come ogni volta, la curiosità ebbe la meglio su Elettra; si fermò a bordo strada, osservando con attenzione l’edificio che si ergeva dal lato opposto: Palazzo Riario a prima vista appariva come un’anonima palazzina di tre piani, con la facciata austera e ben pochi fronzoli o decorazioni; una vera rarità in quel periodo. Alla ragazza non fu difficile immaginarne il motivo...certamente un certo Conte aveva fatto di tutto per ridurre al minimo indispensabile ogni elemento architettonico. 
Vide uno dei portoni aprirsi e per un istante il suo battito cardiaco si fermò: era certa di sapere chi fosse. Cercò con lo sguardo una via secondaria in cui svoltare o un ostacolo dietro cui nascondersi ma, con rammarico, dovette constatare che l’unica possibilità era la Chiesa di Sant’Apollinare, situata proprio alle sue spalle. Si calò il cappuccio più che potè sul viso e si voltò verso il portone di legno massiccio. Gli si avvicinò e poggiò una mano su di esso ed entrò, lasciando aperta appena una fessura.
Con sua grande sorpresa, da Palazzo Riario uscì una donna dalla pelle scura e con indosso abiti molto umili. Doveva trattarsi senz’altro di Zita, la serva abissina di cui Girolamo le aveva tanto parlato.
Non riuscì a tirare un sospiro di sollievo che una mano le si posò su una spalla, facendola sussultare. Dovette mordersi la lingua, per non lasciarsi scappare un urlo ed evitare di estrarre lo stiletto che teneva nascosto tra la stoffa dell’abito.
Si voltò lentamente, trovando ad osservarla incuriositi due occhi dall’aria rassicurante.
“Non era mia intenzione spaventarvi, madonna”, disse l’uomo sconosciuto.
Elettra lo osservò meglio: dal saio e il particolare taglio di capelli intuì che si trattasse di un frate. Un frate anziano, a giudicare dall’intricato labirinto di rughe che gli solcavano il volto. Aveva l’accento fiorentino. Eppure, nonostante quello e il sorriso rassicurante, c’era qualcosa in quell’uomo che non convinceva troppo la ragazza.
Anche se chiaramente sulla difensiva, Elettra tentò di apparire con la sua solita aria innocente. “Non preoccupatevi, sono io che mi allarmo per qualsiasi cosa”
“Dall’accento direi che siete fiorentina pure voi”
“Già”, rispose garbatamente lei.
Il modo in cui quel frate la osservava, però, non le piaceva affatto.
“Mi chiamo Girolamo Savonarola”, disse.
Elettra aveva sentito parlare di quell’uomo: aveva contestato i Medici in più di un’occasione, accusandoli di aver portato alla rovina Firenze con il loro modo di fare frivolo e dissoluto.
“Piacere di conoscervi”. Si diresse verso la porta. “Ora dovrei andare, scusate per l’interruzione”
“Il piacere è stato mia, madonna Becchi”
La ragazza si irrigidì di colpo: come faceva a sapere il suo nome?
“Vostra madre mi ha parlato molto di voi”
Quell’inaspettata rivelazione riuscì quasi a convincerla a restare, per chiedergli cosa sapesse su Anna, ma il suono delle campane, che annunciavano l’inizio dei vespri, le ricordò quale era il suo obbiettivo per quel giorno: non aveva tempo da perdere; sarebbe di certo tornata poi.
“Arrivederci”, disse prima di uscire.

La casa di suo fratello era proprio lì, davanti ai suoi occhi: era una modesta palazzina di due piani, grande pressapoco come la casa di Elettra.
La ragazza si guardò intorno, per accertarsi che non vi fossero occhi indiscreti. Non possedeva le chiavi, quindi l’unico modo per entrare era forzare la serratura. E non era il caso di farlo con un pubblico attorno; se qualcuno l’avesse beccata, la situazione sarebbe stata complicata da spiegare...
Fortunatamente, da quando le campane avevano preso a suonare, le strade si erano completamente svuotate. 
‘Tutti uomini timorati di Dio da queste parti’, pensò Elettra con sarcasmo, mentre armeggiava con un paio di forcine nella serratura.
Quando udì lo scatto di apertura, abbassò la maniglia e con nonchalance entrò in casa.

La casa di Aramis era semplice e minimalista, senza fronzoli eccessivi. E ordinata. Esageratamente ordinata.
Ad Elettra passò per la mente l’idea di mettergliela un po’ in disordine, giusto per i gusto di immaginarsi la faccia sconvolta del fratello quando sarebbe ritornato a casa, proprio come faceva da bambina, ma il tempo stringeva e poi Aramis non doveva assolutamente sospettare che qualcuno si fosse introdotto in casa sua.
Dopo una rapida occhiata all’atrio, prese le scale che portavano al piano superiore, dove vi era lo studio.
Sorrise, mentre osservava i quadri alle pareti: vi era uno scorcio di Firenze, con la cupola del Brunelleschi che svettava in tutta la sua grandiosità sopra ai tetti delle abitazioni; poco più in alto invece vi era un ritratto di Aramis, con indosso la veste vescovile e, nel punto più alto, dove tutti lo potevano osservare, vi era un altro ritratto. Quel ritratto era di una famiglia. La loro famiglia, quando erano ancora tutti insieme; come tutti gli altri quadri della casa, era stata Elettra a dipingerlo.
Era una rivisitazione di una quadro che la famiglia aveva affidato al Verrocchio una decina di anni prima; la ragazza ne aveva dipinto quattro copie: una l’aveva lei, una Gentile Becchi, una Aramis e l’ultima, la più recente, si trovava incartata sulla scrivania di suo padre, nella casa di famiglia, in attesa del ritorno a casa di Filippo.
Nel quadro vi erano tutti loro: Gentile Becchi era in piedi, a sinistra, di fianco a lui vi era Filippo e a destra,in posizione seduta, si trovava Anna; Elettra e Aramis si trovavano davanti ai due capifamiglia, con le loro mani appoggiate sulle spalle mentre Lucrezia si trovava più a destra, insieme alla madre, in una posizione più distaccata rispetto agli altri componenti.
Si fermò un attimo davanti ad esso, osservando pensierosa il viso sorridente della piccola Lucrezia.
“Ti troverò, è una promessa”, sussurrò, prima di svoltare nel corridoio che portava allo studio di Aramis.
Anche quella stanza,  come il resto della casa presentava un’ordine maniacale. Ordine che a Elettra dava alquanto sui nervi. Lo avrebbe sistemato lei suo fratello, un giorno che le sarebbe capitato sotto mano.
Osservò il pendolo e, a giudicare dall’ora che segnava, doveva sbrigarsi a reperire ciò che le serviva.
Si mise a cercare qua e là. In fondo ad un mobile di legno massello trovò la mappa dei sotterranei che si estendevano sotto a Roma mentre, da uno dei cassetti della scrivania estrasse alcune lettere scritte dal Cardinale Mercuri. Ne osservò attentamente la calligrafia e poi, con mano sicura (tipica di chi era abituato a falsificare firme da anni), aprì il barattolo dell’inchiostro e ci intinse il calamaio, cominciando lentamente a comporre delle parole.  

*** 

Elettra non sapeva quanto tempo era passato, aveva paura ad alzare la testa ed osservare il pendolo. I vari fogli appallottolati, buttati alla rinfusa sul pavimento, erano la testimonianza del tempo, ormai agli sgoccioli.
Dannazione a quell’inchiostro a lenta asciugatura e al suo essere mancina! Ogni volta che per caso sbavava con il fianco della mano, doveva ricominciare da capo.
Aveva quasi finito –entità ultraterrene permettendo-, quando dal piano inferiore si udirono delle voci e dei rumori alquanto sospetti.
Il respiro le si bloccò in gola e il cuore prese a martellarle all’impazzata. Chiuse gli occhi, sforzandosi di pensare razionalmente. Non poteva essere così sfortunata; se Aramis era in compagnia di qualche ospite, non era detto che si sarebbero diretti proprio nello studio, potevano sempre rimanere nel salotto.
Tese l’orecchio, attenta a scorgere ogni singolo rumore: la prima voce che sentì fu quella di suo fratello, poi ne udì un’altra, sconosciuta, decisamente più bassa, ma non seppe dire se fosse di una donna o di un uomo. Infine le cose cominciarono a farsi decisamente strane, quando cominciò ad udire sospiri pesanti e sussurri appena accennati.
Le sue guance si tinsero di rosso, al pensiero di ciò che stava succedendo al piano inferiore.
Poi il rumore di passi si fece sempre più vicino ed Elettra capì che stavano salendo le scale; sentì qualche gemito e dei tonfi. La situazione si stava facendo sempre più imbarazzante.
Se stava davvero succedendo quello che la ragazza intuiva, senz’altro lo studio sarebbe stato l’ultimo posto in cui sarebbero andati. O almeno così pensava.
L’abbassarsi della maniglia della porta, però, la contraddisse per l’ennesima volta. Si guardò in giro, in cerca di un nascondiglio.

“Devo lavorare”, disse Aramis, con il fiato corto e assolutamente nessuna voglia di interrompere quello che stava succedendo. Si voltò afferrando distratto la maniglia della porta del proprio studio.
Alle sue spalle udì uno sbuffo frustrato. “Tu lavori troppo”
“E chi lo sente il Cardinale domani, se non gli porto quei resoconti?”. Entrò nella stanza con gli occhi momentaneamente chiusi, mentre con una mano si massaggiava la tempia, che aveva preso a pulsare in modo fastidioso; la giornata era stata pesante ed oltretutto aveva trovato la porta di casa non chiusa a chiave: avrebbe dovuto fare una bella ramanzina alla signora che ogni mattina svolgeva i lavori domestici per aver lasciato, per l’ennesima volta, la porta aperta.
Sospirò: sapeva esattamente di cosa aveva bisogno, ma non ne aveva il tempo. Ci mancava solo Mercuri e quelle incombenze dell’ultimo minuto che gli aveva affidato!
Tutti quei pensieri però svanirono nell’attimo in cui due mani gli si poggiarono sul petto, stringendo la stoffa viola dell’abito vescovile ed attirandolo verso due invitanti labbra vermiglie. Labbra che si posarono con foga sulle sue, ritrasportandolo in un vortice di piacere.
Aramis sospirò pesantemente: era esattamente quello di cui aveva bisogno.
Quel momento di pace però si infranse poco dopo, quando un rumore di cocci in frantumi, alle sue spalle lo riportò violentemente alla realtà. In un gesto dettato dal puro istinto, si staccò da quelle labbra, afferrando velocemente il tagliacarte appoggiato sul basso mobiletto al suo fianco. Lo puntò verso la finestra, coperta completamente da un pesante tendaggio in broccato, lungo fino a terra.
“Chi c’è?!”, chiese, tentando di apparire il più sicuro possibile e soprattutto cercando di incutere timore.
La tenda si scostò leggermente e la figura dietro ad esse uscì lentamente dal proprio nascondiglio.

Elettra si era portata due mani alla bocca quando, attraverso il tendaggio, aveva visto suo fratello baciare...un uomo! Aveva sbattuto più volte le palpebre, cercando di convincersi che era la sua vista a farle brutti scherzi, eppure quello era proprio un uomo. E non era un uomo qualunque: a giudicare dal modo in cui era vestito era pure un cardinale!
Istintivamente, aveva fato un passo indietro, in direzione della finestra. Peccato che sul davanzale ci fosse poggiato un vaso di fiori, che aveva urtato, facendolo finire a terra.
Un paio di santi in quel momento avevano avuto un brusco atterraggio sulla Terra.
Inutile dire che ai due amanti clandestini il rumore di un vaso che andava in frantumi non era passato inosservato.
Ed ora si trovava proprio davanti a loro, con le mani alzate in segno di resa e il viso rosso per l’imbarazzo.
Il volto del fratello era, se possibile, ancora più rosso. 
Il lampo di paura che la ragazza aveva inizialmente visto nelle iridi azzurre del fratello, era ormai scomparso, però vi era ancora dell’inquietudine nel suo sguardo.
“Aramis, abbassa il tagliacarte per favore”, gli disse in tono pacato.
Il giovane vescovo osservò la propria mano, che teneva ancora stretta l’improvvisata arma e che tremava vistosamente. “Scu-scusa”, balbettò, lasciando cadere il tagliacarte sul tavolo. 
“Ma come, non sei felice di vedermi?”, chiese lei, cercando di smorzare la tensione e l’imbarazzo con dell’ironia. Si sedette sulla scrivania, cominciando a giocherellare con l’arma improvvisata.
“C-certo”, rispose suo fratello, osservando l’oggetto che la ragazza rigirava con abilità fra le mani. Deglutì rumorosamente: gli oggetti contundenti non gli erano mai piaciuti e già gli bastava il Conte Riario con il suo stiletto. “Sono felice di vederti, ma sarebbe stato meglio se prima mi avessi avvisato”. 
Elettra non riuscì a fare a meno di ridacchiare, coprendosi la bocca con una mano; il suo sguardo nel frattempo spaziava da quello color peperone del fratello a quello dell’uomo vestito di rosso, rimasto leggermente in disparte: era giovane, probabilmente aveva qualche anno in più di lei, i capelli biondi, di qualche tonalità più scuri di quelli dei due fratelli Becchi, lisci, gli arrivavano appena sopra alle spalle. A differenza del fratello, appariva tranquillo anzi, ad osservare la sua espressione, appariva fin divertito da quella singolare situazione. 
La fissò a sua volta con due grandi occhi azzurri che trasmettevano un’immediata simpatia.
“Aramis, non mi presenti il tuo...”, Elettra non sapeva come definirlo. “...Cardinale?”
L’amante di suo fratello si mise a ridere di gusto; fece un passo avanti, avvicinandosi. “Cardinale Raffaele Riario Sansoni”, si presentò. “Al vostro servizio, madonna”, aggiunse facendole l’occhiolino. Le prese la mano, facendole un baciamano.
La ragazza gli sorrise caldamente. “Voi dovete essere il cugino di Girol...ehm...del Conte Riario, vero?”. Stava per tradirsi e per l’imbarazzo le guance le si colorarono di rosso.
Raffaele la osservò divertito. “Io sono il cugino carino e simpatico di Girolamo”, ribattè ironico. “E datemi del tu, per favore”
“Anche tu”, ricambiò lei. Osservò suo fratello, che però non sembrava affatto essersi tranquillizzato.
“Elettra”, esordì con un tono estremamente serio. “È inutile che io ti dica che quello che hai visto non deve assolutamente uscire da queste mura. Se certe voci arrivassero alle orecchie sbagliate...”
Elettra non gli lasciò finire la frase e gli prese una mano tra le sue. “La pena dell’angoscia è un pessimo modo per morire e io non posso permettere che accada”, gli disse, sorridendogli dolcemente. “E poi devo ammettere che hai scelto proprio bene!”, aggiunse scherzosa.
Erano i Becchi ad avere un debole per i Riario o viceversa?
Lo sguardo di Aramis, nonostante tutto ancora  troppo imbarazzato per alzarsi su quello della sorella, vagò per la stanza, posandosi sulle carte in disordine poggiate sulla superficie della scrivania e che Elettra aveva tentato di nascondere con il proprio corpo. “Cosa ti porta da queste parti?”, le chiese, cambiando improvvisamente il discorso. Cominciava a fiutare l’odore di bruciato. Anche la sua espressione mutò.
“Mi mancava il mio fratellone, ovviamente”, rispose prontamente lei, facendo i suoi soliti occhi a cerbiatto.
Aramis si avvicinò alla scrivania, cominciando ad osservare attentamente le carte. Il suo sguardo passò dalla mappa dei sotterranei romani al timbro papale e la ceralacca appoggiata di fianco ad un calamaio aperto e, infine, alla lettera che la sorella stava scrivendo. Con mani tremanti la prese e cominciò a leggere.

Con la seguente missiva io, Cardinale Lupo Mercuri, autorizzo alla signorina Elettra Becchi l’accesso agli Archivi Segreti Vaticani. In seguito a mia impossibilità e a quella del mio segretario a svolgere il seguente compito, affido alla già citata persona l’incarico e il permesso di entrare nel mio studio e recuperare alcuni importanti documenti di estrema necessità.
Cordiali sal...’

“Elettra!”. Aramis in quel momento avrebbe strozzato sua sorella con le sue stesse mani. La osservò con un’espressione glaciale, mentre lei prese a torturarsi un labbro con insistenza.
“Per favore, dimmi che questa non è la calligrafia del Cardinale Mercuri e che tu non stai per fare quello che immagino”, la implorò.
Questa volta fu lei ad abbassare lo sguardo, incapace di osservare lo sconcerto e la delusione che traspariva dagli occhi di Aramis.
Sospirò: non voleva coinvolgerlo in quella brutta storia ma... “Temo invece che sia proprio come pensi”, mormorò.
Vide suo fratello appoggiarsi con tutte le sue forze alla scrivania e serrare gli occhi, cercando di calmarsi e non fare una scenata davanti a tutti. Un pesante silenzio scese nella stanza, mentre cercava le parole giuste da dirle. Sentì Raffaele passargli affianco e raccogliere la lettera, che aveva lasciato cadere sulla scrivania.
“I miei complimenti”, disse il Cardinale, ironico. “Sembra davvero la calligrafia di Mercuri”
Elettra gli rivolse un timido sorriso, mentre Aramis gli lanciò un’occhiataccia: ci mancava solo lui e il suo sarcasmo.
“Scriverò immediatamente a zio Gentile, per informarlo di venire a prenderti e riportarti a Firenze il prima possibile”, li interruppe Aramis, con un tono di voce estremamente serio.
Sua sorella boccheggiò, cercando qualcosa da dire. “Ti prego, non farlo”, mormorò.
Nei suoi occhi passò un lampo di paura e il fratello comprese. “Lui non sa che tu sei qui”
La ragazza prese un lungo respiro. “Crede che io sia a Pisa con Leonardo”
“Ovviamente”, ribattè sarcastico. Chi altri poteva aver coinvolto, se non quel folle artista? Da Vinci, per la sua esperienza, faceva rima con guai. 
Ci fu ancora del silenzio. “Elettra, cosa stai combinando? Prendi in giro le persone che hanno fiducia in te, entri in casa mia forzando una porta e tenti di entrare negli Archivi Segreti Vaticani!”, le rinfacciò, alzando, senza rendersene conto, la voce. La osservò negli occhi. “Sai qual’è la pena per chi viene scoperto a rubare? Vengono tagliate entrambe le mani!”
“Io verrei messa al rogo”, gli confessò Elettra.    
Aramis sbarrò di nuovo gli occhi; le gambe avevano cominciato a tremargli. Deglutì, racimolando le ultime forze per parlare. “Gli eretici vengono messi al rogo”, disse in un sussurro appena udibile.
La vide annuire lentamente; la sua faccia, solitamente allegra e solare si era oscurata. “Aramis, siediti”, gli consigliò. “Io devo dirti una cosa”
Elettra sperava di poter rimandare quel discorso, ma ormai non era più possibile; avrebbe voluto parlare delle nuove scoperte su Lucrezia e la mamma al ritorno del padre da quel suo viaggio intorno al mondo, quando sarebbero stati tutti assieme. 
Raffaele, nel frattempo, si guardava in giro per la stanza, a disagio. “Vado a prendervi un po’ d’acqua”, disse, allontanandosi.
“Prendi qualcosa di più forte”, ribattè Aramis.
“Molto più forte”, aggiunse Elettra.
Il giovane Cardinale si diresse verso un armadietto, prendendo una bottiglia dall’aria invitante e tre bicchierini. “Peccato, avevo sperato di poterla aprire in circostanze decisamente differenti, ma mi rendo conto che serve di più ora”, ironizzò, cercando di alleggerire un po’ la tensione.     

Si trovavano tutti e tre riuniti intorno alla scrivania: Aramis e Raffaele seduti su due poltrone ed Elettra sulla liscia superficie di legno. 
La ragazza si rigirò tra le mani il proprio bicchierino, pensierosa; se lo portò alle labbra, bevendo tutto d’un fiato il liquore di colore scuro al suo interno. “Hai mai sentito parlare dei Figli di Mitra?”, chiese, guardando il fratello dritto negli occhi.
Aramis ci meditò sopra per alcuni secondi. “Mercuri mi fece la stessa domanda tempo fa e io gli risposi che non li avevo mai sentiti nominare. Poi mi fece un altro nome...”, aggrottò le sopracciglia, mentre cercava di concentrarsi e ricordare meglio. “Il Libro delle Lamine, se non ricordo male. Da quello che mi ha raccontato è una reliquia leggendaria, un po’ come il Santo Graal”
Elettra annuì. “È una setta considerata eretica”
Vide il viso di suo fratello contrarsi in una smorfia.
“Uno di loro, il Turco, contattò me e Leonardo circa un anno fa, parlandoci di quel libro...”, i suoi occhi si focalizzarono di nuovo su quelli di Aramis, della stessa tonalità. “E di nostra madre e di Lucrezia”
Sospirò: ora arrivava la parte difficile. “La famiglia di nostra madre fa parte dei Figli di Mitra da secoli e nei suoi piani, Lucrezia avrebbe dovuto prendere il suo posto un giorno”
“Ecco perchè Lucrezia non ha avuto come tutore lo zio ma la mamma!”, la interruppe Aramis. “La stava addestrando!”. Nonostante fosse arrivato a quella conclusione da solo, la rivelazione lo fece impallidire.
“Aramis, noi siamo sempre stati collegati a loro. Non ci hanno mai persi d’occhio”
“Che intendi dire?”
“Ora ti farò due nomi di persone che un tempo erano Figli di Mitra”
Elettra attese un cenno di assenso, prima di ricominciare a parlare. “Cosimo de Medici”
“Quel Cosimo de Medici?!”
Annuì. “Il Mago. E Lupo Mercuri”
Raffaele  emise un lungo fischio di sorpresa, mentre Aramis guardava la sorella ad occhi sbarrati. 
“Tradì i Figli di Mitra qualche anno prima della scomparsa di nostra madre e di Lucrezia”, continuò Elettra. Prese in mano ancora la bottiglia, riempendo nuovamente i bicchieri di tutti. Guardò ancora una volta suo fratello negli occhi, prima di tornare ad osservare quel liquido scuro dall’aspetto così invitante; sospirò: ora veniva la parte difficile. “Aramis, bevi. Per quello che sto per dirti ti servirà parecchio alcol”
Il fratello annuì, vuotando il bicchierino in un solo sorso.
“Il Turco è venuto da me un po’ di tempo fa”, riprese a raccontare la ragazza, “Mi ha aiutato a ricordare cosa successe quel giorno, nove anni fa”
Aramis gli appoggiò una mano sul ginocchio, cominciando ad accarezzarlo lentamente, cercando di tranquillizzarla: sapeva l’effetto che le faceva parlare del giorno della scomparsa della mamma e di Lucrezia.
“Ricordo tutto”, la sentì mormorare, mentre i suoi occhi diventavano lucidi. Elettra abbassò per un attimo il capo, tirando sù con il naso. Quando rialzò gli occhi, le sue iridi celesti parevano un mare in tempesta. Tutte le emozioni che aveva cercato di trattenere avevano trovato sfogo in quello sguardo deciso e a tratti guerriero, così in contrasto con la sua figura giovane ed esile.
“Aramis, loro sono vive. Prigioniere ma vive”
“Non...non è poss...”, balbettò lui.
“Mercuri ha fatto delle indagini a suo tempo. I documenti relativi sono conservati negli Archivi Segreti, per questo devo assolutamente entrare”, disse Elettra, poggiando una mano su quella del fratello, ancora abbandonata sulla sua gamba. “Io te lo avrei detto...ve lo avrei detto a tutti, una volta che papà fosse tornato a casa”
“Elettra, lascia che li prenda io quei documenti...non posso lasciarti esporre ad un rischio così grande”
“Non voglio coinvolgerti in tutto questo”, ribattè lei, abbozzando un timido sorriso.
“Ma io ormai ci sono già dentro!”, esplose Aramis, alzandosi di scatto e prendendo a camminare per la stanza.
“Se proprio vuoi aiutarmi, dimmi un luogo nello studio di Mercuri dove quelle carte potrebbero trovarsi”
Suo fratello ci pensò un po’, prima di rispondere. “C’è un armadietto che resta sempre chiuso a chiave, solo il Cardinale può aprirlo. Non permette neanche a me di accedervi”, disse a malincuore. Per quanto avesse potuto tentare di intralciarla in quella folle impresa, sapeva che lei ci avrebbe tentato comunque. Tanto valeva semplificarle le cose, per quanto gli fosse possibile.
“Grazie”, sussurrò Elettra, riprendendo in mano la lettera e il calamaio per finire quello che aveva incominciato. Appose la firma di Mercuri, poi sciolse sopra alla lettera chiusa un po’ di ceralacca, imprimendoci alla fine il marchio papale.
“Elettra, non fare cazzate”, le raccomandò Aramis, guardandola in modo serio negli occhi. “Non sei più a Firenze, qui nessuno sarà clemente con te se dovessi essere beccata”
Lei annuì, ben consapevole di tutto. Le sue labbra non poterono fare a meno di assumere una piega ironica, a sentire quel linguaggio, così inusuale per suo fratello. “E tu fai finta di non avermi mai vista”, disse, raccogliendo le sue cose.
“Scrivimi appena sarà tutto finito e tu sarai al sicuro”
“Lo farò”. Elettra si diresse verso la porta ma, prima di uscire, si voltò verso Raffaele. “Prenditi cura di lui, per favore”
“Farò del mio meglio”, rispose il Cardinale, facendole un cenno di saluto con il capo. 
La ragazza prese un lungo respiro, poi abbassò la maniglia ed uscì.
 

Nda
Salve a tutti! Rieccomi qui con un nuovo capitolo. Innanzitutto voglio partire con alcune precisazioni. Primo ho fatto alcune ricerche e ho scoperto che Palazzo Riario esiste davvero (ora però si chiama Palazzo Altemps) e fu costruito per ordine del Conte e completato nel 1480 (dai, ho un po’ anticipato i tempi, ma neanche di tanto ahahah). Diciamo che da fuori non è proprio il massimo, ma c’è di peggio.
Secondo: come avrete già notato –visto che non è la prima volta che la cito- anche qui sono presenti alcuni versi della Canzone di Bacco e Arianna. La poesia fu scritta nel 1490 da Lorenzo, ma anche qui ho anticipato un po’ i tempi. Scusatemi, ma mi piace troppo. 
Terzo (ed ultimo): la scena dell’incontro con Girolamo Savonarola sembra un po’ buttata lì per caso, ma ha anch’essa la sua funzione; diciamo che dopo attente analisi della terza stagione e dai ricordi di terza superiore, ho fatto un po’ un parallelismo tra il frate e il misterioso Architetto del Labirinto, trovando parecchi punti in comune. Quindi, visto che nella serie non si fa il minimo accenno al vero nome dell’Architetto, ho deciso di dare una mia personale interpretazione al tutto; in fondo quel gran rompiscatole del bibliotecario lo aveva detto che Elettra avrebbe avuto presto a che fare con loro...
Bene, ci risentiamo alla prossima puntata, quando Elettra entrerà finalmente negli Archivi.
   
 
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