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Autore: L0g1c1ta    15/04/2016    1 recensioni
Settembre 1939, cade la resistenza polacca. La Polonia svanisce dalla cartina geografica. La città di Varsavia viene distrutta, mattone dopo mattone dai tedeschi e dai russi.
Polonia è morto e Lituania non riesce a superare la morte dell'amico. Con la morte nel cuore, lentamente viene guidato verso la follia e gli verranno aperti gli occhi sulla sua vita.
Polonia, fantasma e defunto, accompagnato da un insolito pulcino, osserva, fra le mura della villa di Russia, il dolore di Lituania.
Entrambi ripercorrono un cammino, entrambi si rendono conto di ciò che avevano e di ciò che hanno perso, per sempre...
...
Luglio 1952, la Polonia rinasce sotto una nuova bandiera. Polonia è morto, ma viene accompagnato nel suo viaggio da Toris e da una nuova presenza. Lituania vive la sua nuova vita con freddezza, nonostante i cambiamenti avvenuti in casa di Russia. Ma ogni cosa cambia con una scoperta avvenuta in una casetta abbandonata nel bosco.
Polonia, in questo mondo cartaceo, osserva i ricordi e gli anni che lo hanno separato dalla sua patria. E si rende conto di quanti sbagli abbia commesso in vita.
Entrambi percorrono un secondo cammino. Chi in un treno per Varsavia, chi con frammenti di ricordi perduti.
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Baltici, Lituania/Toris Lorinaitis, Polonia/Feliks Łukasiewicz, Russia/Ivan Braginski
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Russia, di recente, pensa che Lettonia sia diventato grande. Un piccolo uomo. Forse anche un po’ saggio. Crede che il piccolo Baltico abbia cominciato a sviluppare una coscienza più adulta e matura. Crede che possa, un giorno, diventare un uomo molto paziente ed intelligente. Lettonia parla spesso di suo fratello con lui. Vede nei suoi occhi la luce di meraviglia e bellezza di un bambino di fronte ad un eroe. Eppure, il piccolo aggiunge spesso, che trova Lituania molto strano e diverso. Gli mormora di vederlo come un tempo, anni addietro, cavaliere forte e maestoso. Russia non ha mai visto un cavaliere nella sua terra, per questo lo ascolta con piacere.

Lettonia parla di Lituania come un bimbo dolce racconta con ammirazione e tormento del proprio idolo. Ricordando le parole, le labbra e gli occhi del piccolo, Russia vede ciò che vede ora. Vede Lituania coi ferri, i calzari, il mantello bagnato di sangue non proprio, i capelli stretti in una coda, le braccia cinte dietro la schiena, il capo alto e fiero di un guerriero. Vede i suoi occhi vivi di blu, toccati da bianche stelle, mangiate dalle iridi valorose. Eppure, come Lettonia, vede lo sguardo quasi prepotente di un giovane uomo, non più ragazzo, cresciuto con la schiena spaccata e il capo reclinato sui marmi del proprio oppressore. Vede l’ombra, ormai morta, di ciò che fu Lituania e vede ciò che è ora. Lettonia è troppo piccolo per essere riuscito a trovare le parole esatte per esprimere i suoi dubbi. Ma Russia è un uomo che ha visto molto nella sua terra e comprende comunque.

Lettonia va spesso via, lo lascia solo nel dubbio di ciò che ha udito, ma il più vuoto fra i due è il più piccolo. Russia comprende i mormorii stentati e confusi del Baltico quando, coi pensieri fissi sul ragazzino, vede Lituania. Vede ciò che gli ha detto Lettonia. Ogni parola spezzata gli sembra più chiara e vera. Russia si rende conto che il ragazzino stia crescendo. Si rende conto di ciò che avrebbe dovuto rendersene conto anni fa. Forse non l’ha nemmeno visto, impegnato nella guerra e nel sollievo di aver rivisto il proprio angelo ritornare in vita. Ricorda un vecchio capitano, anziano e morto ormai sotto la neve dell’Inverno. Gli disse che nulla ritorna mai com’era in principio. Gli disse che i cambiamenti sono fili di destino tagliati e recisi nell’arazzo che è la vita. Spezzato il filo, non potrà più ritornare solido come un tempo. Potrai fare nodi e rimpiazzarlo con altre cuciture, ma comunque sarà visibile uno sfregio, un filamento in meno nell’arazzo. Nonostante tutto, nulla potrà mai ritornare come prima. Russia ricorda le parole del vecchio capitano e si meraviglia che non l’abbia ascoltato con attenzione quel brutto inverno, coi tedeschi dietro le spalle.

Guarda Lituania, alla finestra, cavaliere di nascita e si sente più basso, più debole, più schiavo di com’era il ragazzo. Si chiede spesso se sia cresciuto, se qualcosa sia cambiato nel fisico del suo angelo. Lo vede più alto, più robusto di spalle, forse anche con braccia più forti. Ma è solo un’illusione, Lituania è un ragazzo e il suo paese non è mutato di un granello di terra, né di qualche foglia di quercia. Eppure gli pare che qualcosa sia maturato in lui. Ricorda Lettonia e comprende ancor di più le sue parole. Sente un battito di meraviglia e ammirazione dentro di sé. L’orgoglio per Lituania è forte e gli fa brillare gli occhi come gemme. Ma sente comunque che qualcosa di diverso e sbagliato sia entrato nelle vene del ragazzo.

Ricorda quando lo vedeva come un giocattolo e si chiede se non abbia rotto qualcosa dentro di lui. Il battito forte si evolve in debole e stentato. Lettonia gli mormorava anche dell’anima nuova di suo fratello e di come l’incanto e l’angoscia lo prendevano quando i suoi occhi si poggiavano su quelli del cavaliere. Ricorda le mani fredde del ragazzino, nervose, sfregianti fra di loro, non per il gelo. Ricorda l’aria di febbraio sulle gote rosse del piccolo, di come feriva la sua pelle, ma senza alcuna attenzione dal Baltico. Lettonia aveva raccontato la sua preoccupazione per il proprio fratello e lui l’aveva liquidato come se gli avesse raccontato uno scherzo infantile. Si pente di non averlo ascoltato, di non avergli dato ragione. Un padre dev’essere sempre pronto per aiutare i propri figli, ma lui non ha fatto nulla di simile.

L’ombra di pentimento non raggiunge in tempo gli occhi del generale. Lituania sta osservando qualcosa. Se prima quello era uno sguardo di sfuggita alla finestra, ora questi sono veri occhi interessati. Russia fa qualche passo, alza il capo più in alto, segue gli occhi del ragazzo. Due bambini, incuriositi dal giardino variopinto e dal massiccio cancello, allungano i colli oltre le sbarre e si voltano meravigliati, curiosi ed increduli. Russia non si sorprende, non sono i primi visitatori a poggiare gli occhi sulla sua casa. Avere una grande villa a Mosca è naturale, avere una grande villa ben oltre la periferia della capitale è incredibile. Spesso qualcuno poggia gli occhi sulla sua casa, incredulo, curioso o semplicemente noncurante. Quei due bambini non li ha mai visti prima d’ora, ma non se ne preoccupa. Spera quasi che Lettonia sia in giardino, che abbia finito di lavorare, che sia nei dintorni. Gli farebbe piacere che parlasse con i due, anche se più piccoli del Baltico. Pensa spesso che il ragazzino debba avere un amico della sua età, pensa che anche lui debba giocare e divertirsi, ed avere un compagno di giochi. Avere un amichetto non lo farebbe più preoccupare molto per i suoi fratelli.

I due piccini saltellano da una parte all’altra del cancello. Forse vorrebbero provare ad entrare di nascosto, pensa Russia, intenerito dai due. Poggiano i nasini rossi tra i ferri del cancello, comprimono le guance tra le spranghe e allungano il più possibile gli occhi, ancor più che meravigliati. Adocchiano i girasoli gialli, gioielli tra la terra bianca. Spalancano gli occhietti, ammirati e sbalorditi. Russia è anche lui fiero di quei fiori. È tentato di correre in giardino e di regalarne un paio ai due, tanto sembrano apprezzati. Lituania è ancora immobile, gli occhi fissi sui due intrusi.

Il battito confuso di ammirazione ed inquietudine cinge il corpo del generale, un’altra volta. Russia ha occhi di un uomo che ha trascorso gli anni nella neve, in cerca di oro nei fiumi ghiacciati di un terra maledetta. Un uomo con occhi svegli. Vede il filo spezzato lì, sulla schiena alta e forte di Lituania. Vede i nodi, le cuciture incerte, i filamenti strappati. Vede il lavoro di fortuna che è riuscito a fare e gli sembra assolutamente orribile. Nulla ritorna com’era prima e Russia credeva il contrario per anni, ingenuo bambino. Lituania ha occhi di lupo, severi, virtuosi ed agghiaccianti. Specchio di un’anima strappata troppe volte. I due bambini al di là del cancello vedono il cavaliere alla finestra. Vedono i suoi occhi fissi su di loro, loro sono ben più innocenti e deboli rispetto ai virtuosi del lituano. Pare un falcone che adocchia due coniglietti lì, in mezzo alla neve, troppo piccoli e lenti per il loro predatore.

Il ghiaccio negli occhi blu trafigge il corpo dei due piccini. Uno dei due abbassa il capo, intimorito. Striscia, imbarazzato ed indifeso, dietro il suo amichetto. Il secondo bambino, col naso rosso e le guance bianche, continua la prova di coraggio. Con sguardo dolcemente truce, affronta le iridi di Lituania. Il suo compagno, tremante, si stringe al più coraggioso. Il cavaliere è crudele, affonda la spada nella carne dei due piccini e il gelo li percuote come elettricità gialla e sprezzante. Anche il secondo bambino abbassa la testa, mancato il coraggio. Russia nota la famigliarità di questi gesti troppo tardi, troppo meravigliato. La testa bionda del più coraggioso, strascicata troppe volte dal vento, si nasconde dietro al cappotto colorato del piccolo compagno. Questo, incredulo per essere stato scoperto, ciuffi color cioccolata sotto la lana del cappello, trema con più forza. Il biondino, più che intimorito, afferra la manina dell’amichetto e lo trascina via, per la discesa, lontano dai loro occhi.

Lituania sa di aver vinto una battaglia già vinta. Chiude le palpebre, non prende il merito di nulla, virtù in ogni gesto ed in ogni forma. Russia lo rivede ancora più adulto, più diverso rispetto all’angelo che conosce già. L’occhio poggia di nuovo le sue spire sulle costole del cavaliere. Vede sotto i suoi vestiti segni neri di un passato non troppo lontano per essere dimenticato. Russia sente la propria anima scavare sotto la pelle del petto, per volare via, per non vedere più l’ovvio. Il generale vuole indietro il suo angelo, ma si rende conto di non poterlo riavere mai più. Si sente più pensante e triste. Qualcosa dentro il ragazzo è morto. Ciò che è morto non tornerà mai più in vita. Lituania vede i suoi occhi nel vetro appena pulito. Volta, calmo, sereno, virtuoso, il capo. Il corpo lo imita. Nessun tremito, nessun sobbalzo: da tanti anni il russo non vede queste cose nei Baltici. In qualche modo ne è felice.

“Sì, signore?” sono due parole, ma Russia sente comunque il suono morbido e rigoroso di un guerriero. Nella terra di Russia non ha mai marciato un cavaliere, mai hanno toccato i confini ghiacciati del Generale Inverno, quindi non sa dire se sia l’anima di un cavaliere o un filo spezzato nel cuore del ragazzo. Ma ne è comunque ammirato ed incredulo, Russia. Guarda un ragazzo, ma vede un uomo con la spada nella destra e lo scudo nella sinistra. Russia non ha mai visto un cavaliere, ma è certo che se dovesse vederne uno allora sarebbe come Lituania.

Inclina, paziente, la testa, Lituania. La risposta tarda, ma lui è comunque sereno, non vuole dare peso al proprio padrone. È il dolore più dolce mai provato da Russia. Qualcosa, forse un vecchio istinto quasi dimenticato, forse una consapevolezza tarda a farsi scoprire, forse semplicemente gli occhi molto fieri del cavaliere, lo fanno abbassare lo sguardo. Come se fosse più piccolo ed insignificante del ragazzo. Russia pensa che quel che stia vedendo sia orribile e meraviglioso, insieme in un abbraccio più che ridicolo per essere due opposti. Ora sente lui qualcosa spezzarsi dentro al suo cuore. Forse una vena troppo carica di tristezza è scoppiata e sta allargando un canale di sangue nel suo petto. Russia non lo sa, ma vorrebbe aver visto anni prima gli occhi di Lituania, anziché oggi, ritardo di anni. Si chiede se possa mai essere un padre per lui. Per i Baltici. Per un qualsiasi bambino.

Un altro istinto gli fa alzare il braccio rigido. Con le dita afferra e carezza la stoffa della camicia del lituano, vecchia e trascurata. Anche il ragazzo abbassa lo sguardo sulle dita bianche del padrone. Sfiora col blu, dolce e silenzioso, la cicatrice perlacea. Come il fratello, come Estonia, si chiede come abbia fatto a fregiare in quel modo il muscolo del pollice. È un pensiero ed una domanda così minuta che la dimentica subito. Russia, però, è un uomo orgoglioso. Pensa che non sia del tutto vero. Pensa che sia ingiusto che ogni cosa non possa ritornare com’era prima, forse anche in meglio. Crede che voglia il bene di Lituania quasi più delle risate del suo popolo. Un sospiro ed un sorriso nascono sulle sue labbra.

“Sai, Lituania, credo che dovremmo fare qualcosa per questi vestiti. Non ricordo quando li abbiamo cambiati” Lituania alza il capo, ma rimane in silenzio: nemmeno lui lo ricorda, nemmeno a lui è importato molto. Eppure, a Russia ora pare una cosa fondamentale. Non sa cosa voglia dimostrargli, ma ne è curioso. Le dita del generale cadono all’ingiù, il sorriso ancora aperto “Che ne dici se oggi pomeriggio andassimo in città?” il ragazzo inclina di nuovo la testa, interessato e curioso “Faremo un giro e compreremo un po’ di vestiti. La prossima volta porteremo con noi anche Lettonia ed Estonia. Che ne pensi?” è una domanda, ma Russia spera e prega di avere un’affermazione. Non pretende più da anni un o un no. Non pretende più di avere ragione. Non ne ha avuta per anni e probabilmente non ne ha per molte cose. Vuole sinceramente che il ragazzo sia felice. Lituania, in qualche modo incredulo, trattenuto con gli stessi occhi seri, annuisce. Qualcosa brilla nel blu e il generale è quasi innocentemente contento.

“Bene, dopo pranzo usciamo. Ti voglio pronto!” Lituania annuisce con più forza. Qualcos’altro brilla nei suoi occhi. Una luce più forte ed infantile, anche se col volto di cavaliere. Qualcosa nel cuore di Russia si scalda.

Quel pomeriggio, quando Lituania uscì dal camerino vestito diversamente dal solito, Russia si rese conto di amare il suo sorriso più di quanto amasse sentire le sue ossa frantumarsi sotto i suoi pugni. È il gesto più semplice e dolce del mondo, ma per Russia vale più delle lacrime e del sangue di un angelo senza ali.

Russia riapre gli occhi. Si è addormentato sulla poltrona del salotto, quasi scura dietro le ombre delle tende. Si rialza in piedi, incredulo per ciò che ha fatto, quasi tradito dal proprio corpo. Dimentica il sogno e il ricordo dietro di esso, non ha il tempo per ricordare. Teme di vedere il corpo di Polonia, eppure continua a cercarlo per la casa. Ora sa per certo che è ritornato in vita. Qualche ora prima, con tutto il coraggio in corpo, era uscito in giardino. La tomba scoperta e le rose marce sono state uno sparo al cuore.

Continua a cercare, terrorizzato dal fantasma di una persona ancora addormentata.

 

 

 

 

 

 

“E’… è veramente un miracolo! M-Ma respira veramente o me lo sto immaginando?”

“No, Lettonia, respira. Il battito è lento, ma regolare”

“Estonia, perché quella faccia? Sono felice come non mai questa notte! Guardami: potrei volare in cielo come una colomba! Non sei felice per me?”

“Si, molto…”

 

In realtà, Estonia non sapeva affatto dire come si sentisse. Avrebbe mentito e fatto il bastardo se avesse detto di essere felice: Polonia rinato, respirante e addormentato nel loro scantinato non l’ha reso per niente felice. Eppure ha mentito a Lituania. Con gli occhi fissi al soffitto, la schiena di pietra sul materasso del loro letto, le labbra ancora secche, la gola disidratata e la mente scomposta, si chiede perché abbia detto qualsiasi cosa tranne che la verità. Forse perché era troppo scioccato per ciò che ha visto quella notte, qualcosa di così irrazionale da portarlo nella più completa confusione. Forse perché non voleva continuare a seguire l’ira e a respirare di nuovo l’anima malsana e vermiglia del suo vecchio cuore spezzato. O forse perché vuole bene a Lituania. Non è certo che sia la terza, ma anche le altre due sembrano troppo scontate. Si maledice. Maledice il suo cervello. Chiude gli occhi, troppo stanco. E si addormenta subito. Il giorno dopo sarà una giornata orribile, ne è certo. E non vuole sembrare un morto proprio quel giorno.

 

“Ma… ora che cosa potremmo fare?”

“Beh, di sicuro non può stare qui per troppo tempo: fa freddo, il corpo non ha più grasso né muscoli per proteggerlo e… Oddio, non ci credo che sto pensando a queste cose! Mi… mi sembra tutto così strano…”

“Comunque, hai ragione, Estonia… Ah, Lettonia, coprilo con le tue coperte, per cortesia”

“Uh… Secondo voi dobbiamo dirlo al signor Russia, nonostante… tutto quel che è successo?”

“…”

“No”

“C-Cosa!?”

“M-Ma che diavolo dici, Lituania?!”

“Russia lo ucciderà, se scoprirà tutto questo”

 

“Ragazzi, svegliatevi, sono le sei” pare che nessuno abbia dormito veramente in quella stanza. Estonia si è addormentato solo per un paio d’ore, ma sente già l’ansia e la stanchezza premere sulle sue spalle, maledette e pesanti catene d’acciaio. Lettonia, scattante, brillo di coraggio, si alza veloce dal letto. Inizia a vestirsi, preso da una mania per la velocità. Lituania non si fa pregare: scende subito dal letto, inizia anche lui a vestirsi, frettoloso. Hanno entrambi qualcosa che Estonia non ha. L’estone li invidia per questo coraggio, questa sveltezza. Questa sicurezza. Debole, tremante, Estonia inizia a vestirsi. Pantaloni, camicia, giacca. Dubbio, tristezza, paura. Il ragazzo ha un gran male allo stomaco. Guarda i suoi fratelli, già pronti, e si chiede come facciano ad essere così sicuri di sé. Eppure non stanno per fare una sciocchezza. Guarda Lituania e pensa che sia più uomo di quanto lui non lo sia mai stato. Guarda Lettonia e pensa che stia crescendo. E che sia più coraggioso di lui. Deglutisce il nulla, non ha più saliva. Vorrebbe il loro coraggio, a costo di rubargliene ogni granello in corpo. Perché è diventato più debole di loro?

 

“C-Cosa?!”

“Lituania, sei pazzo?! Vorresti tenerlo qui per sempre?!”

“No, morirebbe comunque. Se rimane per troppo tempo lontano dal proprio paese rischia di morire. Siamo praticamente dall’altra parte del mondo per la Polonia”

“…uh?”

“Che diavolo stai dicendo?”

“Ascolta, Estonia: nel libro di Russia si parlava anche di questo. È accaduto un’altra volta, ma ad una Nazione che oggi non esiste più. Trovatasi di nuovo in un coma come questo, per farla ritornare in vita, hanno dovuto riportarla al proprio cuore. Così riuscì ad aprire gli occhi. Perciò questo funzionerà senza dubbio anche con Polonia”

“Cosa…?!”

“C-Cuore…? Che cos’è?”

“La propria capitale”

“Quindi… Varsavia?

“Esatto”

 

“Hai preso tutto?” Estonia domanda troppe volte, tutto ciò sommato con l’ansia e il terrore. Vorrebbe tagliarsi una parte di cervello. Vorrebbe non saper più pensare. Gli toglierebbe tutta la paura e il terrore dell’essere scoperti. Avere sulla coscienza le teste dei suoi fratelli è troppo per lui. Lituania ricontrolla: baule, soldi, qualche coperta, un paio di stivali per Polonia per quando si sveglierà, qualche panino, passaporti… Estonia sente la testa girare. È tutto troppo assurdo. È tutto troppo anormale, troppo diverso dalla realtà che ha vissuto in questi anni di pace. Il cuore è più pesante del suo intero corpo. Sente di star facendo lo sbaglio più grande della sua vita. Sente già la punizione dietro le proprie spalle. La schiena di Lituania è aperta, sporge la carne, mangiata dai vermi. Il suo corpo ribelle non vuole la stessa cosa anche per sé. Non vuole farsi del male. Ha un brivido lungo la schiena, in mezzo alle scapole. Sente di star per mandare tutto all’aria, di prendere la chiave di quella stanza, di chiudersi dentro, insieme a quei due pazzi dei suoi fratelli. Poi di spingere la chiave sotto la porta. Restare lì dentro fino a quando Russia noti la loro assenza e li liberi. Manderebbe al diavolo Polonia, tutto il male che il suo corpo li ha fatto, tutti i guai che ha portato. Non vuole sacrificarsi per una persona che aveva reso pazzo il proprio fratello. Non vuole dare la propria carne per Polonia. Eppure i suoi fratelli cominciano ad avviarsi fuori dalla stanza. Lituania si trascina il baule dietro di sé. Estonia non chiude a chiave la stanza. Non si muove, non apre bocca. Lascia che ciò accada. Si maledice e tira su il naso. Ha paura.

 

“No… Lituania, ti prego, non dire stupidaggini. Ti prego, Lituania, ti prego…! Oddio, Oddio… No, no… Lituania non pensarci nemmeno, non devi nemmeno pensare di fare una cosa del genere… Non dopo tutto quel che è successo! Lituania… Lituania… Fratello… Fratello, ti supplico di dirmi di no!”

“No, ci vado, Estonia. Ho deciso. Su, smettila di piangere…”

“E come diavolo faccio?! Dopo tutto quello che ti ha fatto… che ci ha fatto! Non farei mai nulla per lui, mai! Non pensarci nemmeno, Lituania. Pensa a noi. Pensa a Lettonia: vuoi che ritorni tutto com’era prima? Sai bene cosa ti è successo. Non voglio rivederti di nuovo pieno di sangue, non voglio più vederti come prima! Non voglio che Russia ritorni com’era prima! Ti prego, Lituania, ti sto supplicando!”

“Estonia…”

“Estonia, questa cosa riguarda solo me. Non posso lasciarlo morire in questo modo, lontano da casa sua. Mio Dio, Estonia… non piangere, non devi piangere…”

“Ma mi hai ascoltato?! È proprio questo quello che mi preoccupa! Non voglio più vederti in quella casetta, dopo… dopo… E non solo in quella casetta, ma anche… anche… anche… Oddio, no…”

“Estonia, non piangere…”

“Estonia, non fare così…”

“Lituania, ti prego, dimentica Polonia… torniamo a casa… si sta così bene ora che Russia è cambiato… Ti scongiuro, Fratello, non andare a Varsavia… non portarti dietro quel corpo morto… siamo così felici ora… Ti prego, Lituania…”

“…mi conosci, Estonia. Mi conosci”

“…”

“Estonia, non piangere…”

 

Il corridoio pare una marcia nel deserto ed i passi di Estonia sono sempre più pesanti. Non ha più la forza per maledire qualcuno. Per qualche ragione ha quasi dimenticato l’esistenza di Polonia. Lituania e Lettonia camminano veloci. Il più piccolo tira fuori le chiavi della macchina di Russia: non era nello studio quella notte, così è riuscito a prenderle. Estonia ha il capo rotto, spaccato, tendente verso il pavimento. Un condannato a morte. Guarda i suoi piedi. Un lampo di follia gli fa chiedere il motivo per cui non li possa rompere, spaccare, tagliare. Vorrebbe morire, solo per fermare i suoi due fratelli a questa follia. Farebbe qualsiasi cosa. Si sparerebbe ai piedi, solo per fermarli. Ogni metro tagliato dalle sue gambe è un frammento della poca sicurezza che ha ricevuto nel sonno. Lituania ha il capo alto e le spalle fiere. Si chiede perché sia così sicuro della propria pazzia. Tira ancora su il naso. Ricorda, Estonia. Ricorda la carne aperta, il vetro conficcato disgraziatamente nella schiena, le cuciture, il sangue, gli occhi morti, l’anima spezzata di suo fratello. Non vuole di nuovo tutto questo. Lettonia segue il maggiore, sicuro come il moro. Estonia scuote la testa, il cuore ancora più pesante. Lettonia sembrava crescere, sembrava più maturo.

 

“Lituania…? Ma perché vuoi aiutare Polonia?”

“…”

“Perché ho fatto un giuramento, Lettonia. Ogni cavaliere ne fa uno: servire il proprio sovrano. Polonia è stato il mio principe per molti anni e, lo sai, sono ancora un cavaliere. Non posso lasciarlo morire mentre io sto qui a mangiare e a dormire come se nulla fosse. E poi… perché voglio ancora molto bene a quest’idiota, anche se è passato un po’ di tempo da quando ero per davvero un cavaliere”

“…non è vero… Sei solo un’imbecille che si sta vendendo per una carogna!”

“Estonia, ti prego, voglio parlare io. Lituania, sei sicuro di quel che stai facendo? Il signor Russia si arrabbierà tanto e stai già facendo piangere Estonia”

“Si, ne sono”

“…”

“Allora… posso venire anch’io con te…?”

 

È stata la più velenosa freccia mai scoccata nel povero cuore di Estonia. Anche Lettonia non è cambiato per niente. È ancora un bambino, vive ancora nella fantasia di fate e folletti, di cavalieri e principi. Quei tempi sono finiti, morti e ricordati solo dai libri di storia e nelle novelle antiche. Estonia guarda al futuro, detesta il passato: nulla potrebbe mai ritornare com’era prima, soprattutto con la follia che stanno facendo ora. Ma il ragazzo continua ad essere un pezzo di legno, un giocattolo col meccanismo rotto che comunque continua a camminare, nonostante il male che facciano le molle e gli ingranaggi assemblati goffamente. Estonia, anche in giardino, vede e non vede. Vede la macchina nera coi vetri scuri aprirsi con le chiavi rubate, Lituania gettare nel portabagagli il baule e poi chiudere. Non sente le loro voci. Capisce che ora devono prendere solo il corpo e poi partire. Estonia si sente sempre più confuso da tutto ciò che sta vedendo, dalla volontà dei suoi fratelli. Eppure li segue ancora. Forse vuole assicurarsi che staranno bene. Forse dovrebbe smetterla anche lui di dire stupidaggini, di continuare a mostrare la sua rabbia per ogni cosa. Ricorda anche ciò che disse Lettonia. Non sa se considerarlo un tradimento, un’immaturità da parte del ragazzino. Però ricorda bene il litigio che avvenne in seguito, i suoi due fratelli contro di lui, calmi, lui furioso. Ricorda le urla, i tremiti d’ira, il cuore in tempesta, le lacrime amare. Non poteva farli cambiare idea. Non poteva fare nulla. Era sempre stato uno scrivano, ed uno scrivano non può nulla di fronte ad un cavaliere e al suo volere. Anche per questo è sempre stato debole. Anche per questo è diverso da Lituania. Suo fratello darebbe la sua anima per ritornare indietro fra duelli e giavellotti. Lui sarebbe felice solo di rinchiudersi in uno studio, anche vuoto. Gli basterebbe solo la pace e il silenzio. Trova anche questa disparità molto triste: come cavaliere, Lituania conosce il dovere e la virtù. Uno scrivano sa solo scrivere e fare di conto. È triste e frustrante questa nuova conoscenza. Lituania scende nello scantinato, nonostante il buio vede il piccolo principe. Lettonia riafferra le due coperte con cui l’ha coperto e le piega. I capelli mori iniziano a toccare, a sfiorare i raggi del sole. Estonia si pente di ogni cosa, ma non può fare più nulla. Ormai l’ha già detto.

 

“Allora… allora vengo anch’io con voi”

 

Così non sarete soli, avrebbe voluto aggiungere. Ha sempre desiderato avere una lingua più lunga per questo genere di cose. Ma non si può avere l’impossibile ed Estonia sente di non avere un cuore abbastanza aperto per dire una cosa così potente e forte. Ma sente di non avere molte cose nel proprio cuore. Uno scrivano ha solo una penna e dei fascicoli di carte e pergamene. Per questo sospira sconsolato. Lettonia dice qualcosa sul poggiare le coperte nel baule. Estonia non li ascolta, capo ancora basso, sguardo sui fili d’erba e sui propri piedi. Non si è mai pentito così tanto di una frase da lui pronunciata. Alza, leggero, gli occhi. Lituania porta in braccio, piccolo e bianco, Polonia. Non vede i suoi occhi, ma riconosce chiaramente le sue labbra alzate, dolci, verso le guance. Vede i denti bianchi, perle di luce, tra le labbra sottili. Estonia non crede di capire molte cose. Deglutisce ancora. Si domanda se desideri un bicchiere d’acqua prima di partire. Forse stanno per rompere qualcosa per sempre, qualcosa che avrebbe potuto durare per l’eternità. Sì, Russia li maledirà, si infurierà. Forse li farà del male. Di sicuro li troverà. Russia potrebbe trovarli anche dall’altro capo del mondo. Estonia sospira. Quel che ha detto ha detto. Non può cambiarlo. Eppure sente il rimorso e la paura gorgogliare nel suo stomaco, un veleno avvolto nel dolore.

“Allora, siamo pronti?”

“Sì… Cioè, no!”

“…Lettonia?”

Raivis! Ho dimenticato il mio diario! Lì avevo scritto anche quel che è successo ieri sera prima di andare a dormire!”

“L-Lettonia! Va bene, non è ancora successo niente. Vai a prenderlo. Non farti vedere da nessuno, se accade non sembrare strano, non pensare di star facendo nulla di diverso dal solito. Io ed Estonia portiamo Polonia in macchina, ci metteremo poco. Torna indietro e sta’ attento a Russia!”

“Sì, sarò velocissimo!”

Lettonia svanisce dietro l’angolo della casa. Estonia guarda Lituania e spera ancora che qualcuno di loro cambi idea, prima che le cose prendano il verso sbagliato.

 

 

 

 

 

Non ha dormito nemmeno per un istante, se non sul divano, giusto per pochi minuti, nemmeno per un ora. In cucina, cercando discretamente, Katja gli aveva detto di avere una faccia da malato. Anche se molto meno emotiva del solito, riuscì a comprendere l’angoscia che avesse per lui. Anche se con tante preghiere, aveva rifiutato di mangiare: la paura gli blocca lo stomaco. Conosce gli spettri e i fantasmi, tanti ne ha visti insieme al vecchio Inverno. Sa che molti di loro detestano la luce del sole quasi quanto il risveglio. Quando vide l’alba, alla finestra, penetrare dietro le tende, una briciola di coraggio in più gli si era formata vicino al cuore. Polonia, anche se vendicativo, non potrebbe toccarlo se circondato dai raggi bianchi. Si sente più tranquillo, ma comunque stanco e preoccupato. Il corpo è pur sempre riemerso dalla terra, deve ancora trovarlo, se lo troverà. O se troverà solo il fantasma di un principe morto in guerra.

Ha girato in ogni angolo della villa. È entrato, con timidezza quasi vergognosa, dentro ogni stanza e sgabuzzino. Ha trovato le sue sorelle in giro nella villa, per pochi minuti ha parlato con Natalya e in cucina c’era Katja. Dal piccolo uscio della porta ha visto il letto dei Baltici e ha contato le loro tre sagome durante la notte. Lì ha avuto più paura, lì ha temuto di vedere lo spirito bianco ed eterno di Polonia. Credeva di vederlo seduto sul materasso, illuminato dalle stelle, con una mano a pettinare i capelli mori di Lituania. Aveva quasi avuto l’impressione di vedere la sua sagoma sopra le coperte, abbracciato alla schiena dell’amico. I lunghi capelli biondi intrecciati nei mori. Il petto fragile contro le spalle robuste del lituano. Aveva sobbalzato, il cuore aveva raggiunto la gola, batteva, si dimenava nel petto troppo grande. Ma, fortunatamente, invano. Era Estonia, solo Estonia. I capelli biondi l’avevano tratto in inganno. Aveva sospirato con occhi umidi. Aveva ringraziato Dio e il Cielo. Mai stato tanto felice di rivedere i tre piccoli Baltici, stretti fra loro. Aveva richiuso la porta e continuato la ricerca. Quando il sole divenne alto, era uscito in giardino, temendo di immaginare e forse di tremare per qualcosa di falso. Vide la tomba aperta ed era scappato via, con diavolo alle spalle, come un bambino. Come lo faceva da piccolo. Vergognatosi di sé stesso, era rientrato in casa e aveva continuato le ricerche.

Apre la porta della stanza dei ragazzi. La luce del mattino entra dentro, avvolge e mangia tutta l’oscurità, in ogni angolo. La porta smette di scricchiolare, completamente aperta. Russia caccia dentro la testa. Non c’è nessuno. Un pugno, dritto alla bocca dello stomaco, gli spezza il respiro. Un brivido sulla schiena, gli occhi si dilatano. I Baltici non ci sono. Il cuore ricomincia a battere, disperato e tremore. In un secondo, un breve secondo, immagina qualsiasi cosa. Immagina Polonia, sorridente, bastando, abbracciato a Lituania, al suo cavaliere col cuore di ghiaccio. Immagina che Polonia l’abbia reso sin dal principio, prima di tutti questi anni, di nuovo il suo servitore. Ma Lituania è un cavaliere e un cavaliere non vive senza il suo signore. Per questo si è spento in questi mesi ed anni. Per questo non vive più bene. Se non si è appagati per essere servili col proprio sovrano, il cavaliere soffre quasi più per il rifiuto della propria dama. Per questo Lituania soffre, per questo ha l’anima morta. Polonia gliel’ha presa, l’ha resa sua. Polonia è ritornato principe e Lituania, fedele cavaliere, attende solo di servirlo.

Sobbalza, il ginocchio è sbattuto pesantemente contro lo spigolo della scrivania. Scosso, poggia la mano sul legno per reggersi. Si tocca la rotula, quasi del tutto intatta. Non si è fatto nulla, è troppo grande e robusto per farsi del male in questo modo. Un brivido freddo e maligno lo congela e blocca la sua spina dorsale. Teme un’altra cosa. Il cuore batte piano, reso più cauto e controllato. Sa che deve stare calmo, eppure è difficile. I fantasmi sono prepotenti e vendicano la propria morte con la morte di un secondo. Ha il terrore di vedere un piede bianco, minuto, oscillante sulla scrivania dov’è poggiato. Teme di alzare lo sguardo e di cadere in trappola. Di vedere le labbra fini arricciate, quasi maliziose, saette negli occhi e capelli di grano. Teme, Russia, ma la curiosità è più forte dell’uomo. E Russia è un uomo molto curioso. Gli occhi oscillano all’insù. Nessuno. Il cuore si blocca, quasi incredulo nel vedere la stanza vuota. Ricomincia a battere, terrorizzato per ciò che vede ora. Come se dovesse materializzarsi proprio lì, il piccolo Polonia.

Il cervello, più adulto e saggio in questi anni, ritiene che debba iniziare a ragionare con buonsenso. Ritiene che debba avere una posizione più vantaggiosa rispetto al cuore, che in queste ore ha preso troppo tempo nell’anima del gigante. Russia gli dà ragione e incomincia a ragionare. Nota il letto fatto e i pigiami nascosti sotto ai cuscini. Capisce che non possa essere accaduto nulla di violento, nulla di diverso: i tre Baltici si devono essere semplicemente svegliati prima del solito, testimone il letto e i pigiami piegati. Il cuore si quieta del tutto, ritiene l’ipotesi più che giusta. Un sospiro bollente, carico di ansie e timori, lascia le labbra di Russia. Caldo, abbandona l’aria marcia fuori dalle labbra tante volte, grande è il sollievo. Si passa una mano sul volto e fra i capelli disordinati. Il cuore deve ancora contenersi. Fa scendere la mano, quella senza cicatrice, dal suo volto. Il sollievo penetra nelle vene. Si sente confortato, ma comunque vigile: non si sa mai con i fantasmi. Non si sa mai con Polonia.

La mano, più leggera di pochi minuti fa, scende completamente dalle guance del generale. Si posa sulla scrivania, le dita s’intrecciano sotto al legno. Sente uno spazio aperto fra la tavola e il legno sottostante. Un tiretto è stato lasciato aperto. Russia, perplesso ed interessato, poggia gli occhi sulla nuova scoperta. Aggrotta le sopracciglia, apre il cassetto. Un grosso libro, con copertina scura in pelle, è stato lasciato lì. Le iridi di Russia hanno un lieve sobbalzo. Ricorda gli anni addietro. Ricorda un Lettonia più tremante, costretto nella solitudine e nella paura. Ricorda sua sorella maggiore, molto dolce, che gli regala un libro scuro. È un diario, disse lei, quando non riuscirai a parlare con qualcuno usalo per sentirti meglio. Lettonia, scettico, aveva accettato il dono.

Russia, forse, è un uomo fin troppo curioso. Sinceramente interessato, lo apre. Non legge nulla, lo sfoglia come un grande tomo. È pieno di scritte, è quasi completo: mancano solo poche pagine alla conclusione del diario. Il gigante bianco non sa se esserne felice oppure no. Sarebbe orgoglioso di Lettonia per aver accettato appieno il dono di sua sorella, ma è pur sempre un diario per compensare la solitudine. E Russia non sa se essere felice per tutte quelle pagine. Più curioso, Russia ritorna bambino. Legge le date. Fortunatamente sono quasi tutte legate ad un passato molto lontano dal presente che vivono ora. Sono date incatenate agli anni prima della guerra, quando Lituania stava male. Le date si allontanano molto le une fra le altre man a mano che i mesi passano. Anni dopo la fine della guerra e della malattia del fratello. Russia si sente un po’ più rincuorato.

Più curiosità, ancora più forte è la tentazione. Russia dimentica per un attimo Polonia, dimentica la ricerca che sta facendo dalla scorsa notte. Dimentica persino che sia un diario quello che ha fra le mani. È il diario di Lettonia, lì ha scritto di sicuro cose che non dovrebbe leggere nessun altro. Eppure, la curiosità è bambina. E anche Russia è un po’ bambino. Forse più di quanto credano ora i tre Baltici.

Curioso, sempre più curioso, decide di leggere le ultime pagine.

 

 

 

 

 

L’aria del giardino sa di bosco, di estate, di caldo, di un bacio di dama. Polonia è ancora lo spettro di una radice, senza sangue e più marroncino che bianco. Eppure Lituania lo vede diverso. Lo vede con la carnagione ghiacciata, lattea. Morbide le guance quando, felice, sorrideva. Si facevano rosse per il batticuore, le guanciotte di Polska, quando erano più piccoli, quando riusciva a farlo ridere di gusto. Lo rivede coi capelli di un oro vivo, appena raccolto dalla terra, brillante di vita e di forza. Rivede le labbra di porcellana, sottili e non tagliate. Estonia non è riuscito a fare nulla per mimetizzare il labbro quasi leporino. Lo rivede con vestiti più colorati, più sfarzosi. Lo rivede con la luce dei gioielli negli occhi smeraldini. Lo rivede col rosso di un mantello che il vento tenta di strapparglielo via, troppo invidioso della porpora e della ricchezza dell’indumento. Riapre gli occhi. Vede ciò che è in realtà il piccolo principe. Rivede la pelle macchiata, il labbro rotto, le braccia e le gambe innaturalmente magre, la veste antica e vissuta.

Immagina di nuovo e di nuovo. Non si stanca mai, tanta è forte la felicità. Non pensa ad Estonia, di fronte a lui, scuri gli occhi. Lituania, riaperte le iridi, vede ciò che avrebbe dovuto vedere sin dall’inizio. Forse non l’ha fatto per non dar fastidio al fratello, sapendo del suo odio per l’amico. Forse perché non voleva vedere lui: troppi dialoghi inutili, troppi litigi, troppo strazio. Parlare di qualcosa del genere con l’estone è sconfortante. Ma Lituania non vuole essere sconfortato da qualcuno, non vuole cambiare idea su niente. Vuole farlo. Vuole sacrificare Russia per avere Polonia. Forse è una scelta egoista e dettata solo dal cuore, ma lo vuole fare. Aveva detto la verità la scorsa notte: se il suo padrone avesse scoperto che uno dei suoi nemici sia ancora vivo, a pochi passi da casa sua, l’avrebbe ucciso. Probabilmente anche di fronte a lui stesso.

Lituania non si sente meschino nel pensare a ciò. Russia è cambiato, è diventato un buon padrone. E forse anche qualcos’altro a cui non riesce a dare un nome. È dolce, gentile, paterno con loro. Ma, prima di tutto ciò, Russia l’aveva maltrattato. L’aveva torturato per due settimane senza cibo né acqua. Aveva calpestato la sua Nazione e quella dei suoi fratelli. È cambiato, ma non si può cancellare il passato. Anni prima, prima ancora della sua malattia, Lituania credeva che Russia volesse sfogarsi su di loro. Forse perché, come grande Nazione, aveva molti pensieri e preoccupazioni. Forse per un passato che non conosce bene. Ma credeva che quel che faceva, anche alla luce del sole, anche fuori in giardino, all’aperto, per lui fosse un modo per dimenticare qualcosa. Credeva che, man a mano negli anni, ciò fosse diventato più un istinto che un’abitudine. Pensa, anche oggi, che Russia abbia lo stesso temperamento. Che può controllare con molta più facilità, ma c’è comunque. Un istinto non è possibile strappare dal proprio subconscio e questo Lituania lo sa bene. Non aveva affatto esagerato la notte prima: Polonia, anche se da morto, gli ha fatto del male. Ha fatto molto più male a lui, ma il suo male è passato da persona a persona nella loro casa. Russia ha sofferto molto del male che gli ha lasciato il polacco. Sa che se qualcuno fa del male al generale, quest’ultimo fa in modo di vendicarsi. E quale vendetta è la migliore nell’uccidere colui che ha dato tanto dolore, anche a loro tre piccoli Baltici, suoi sottoposti? Ma forse non è solo questo. Lituania non riesce ad odiare Russia, nonostante tutto quel che gli ha fatto, anche se uno sfogo. Lituania ora gli vuole bene e spera di non perderlo. Spera che possa averlo, anche insieme a Polonia. Estonia continua il cammino, passo più lento. Lituania comprende e annuisce fra sé e sé.

“Estonia, non è ancora tardi: se vuoi restare, resta qui” il minore rallenta ancor di più il passo, troppo pesante per un’anima orgogliosa come la sua. Lituania vede anche questo. La testa di Polonia si poggia, casualmente, sul suo cuore, crespi i capelli. Estonia aspetta, volta leggermente gli occhi blu. Il moro vede l’iride spenta, mare invernale, quieto ma stanco “So che non vuoi venire, ma sai che non ti darei mai alcuna colpa” il fratello ferma del tutto il passo, gli stivali pesanti. Anche le costole sono una gabbia troppo pesante per il proprio cuore. Il cadavere di Polonia viene sfiorato dalla brezza estiva “Non ti importare di cosa pensino gli altri. Pensa solo a ciò che desideri” l’occhialuto pare più duro, più insensibile. Un pezzetto di iride riesce a concentrarsi sulle dita intrecciate, minute e magre, del corpo morto del principe. La brezza si sposta sui capelli chiari. Spirito giocoso, passa le dita fra le ciocche incolori. Estonia non riesce a smettere di odiarlo. Per colpa sua accadrà un’altra rogna, qualcosa di altrettanto orribile, forse più della malattia di Lituania. Si volta, le lenti degli occhiali si concentrano sugli occhi del fratello.

“Infatti, sto facendo quello che voglio io” afferma, inespressivo, duro di sguardo. Lituania ricorda il passato, quando per la prima volta si scaraventarono pugni a vicenda. Ricorda gli occhi folli di odio, gli occhiali rotti sotto le sue nocche, il corpo più debole del fratello sopra al suo, molto più allenato ma provato per il sonno e la schiena ancora aperta. Lituania ricorda questo, ma crede che Estonia non abbia più tutte queste cose. Anche suo fratello è cambiato, ma non molto. Estonia avrebbe voluto non avere più ira nell’anima. Avrebbe voluto che, appena Lituania sarebbe stato completamente guarito, si sarebbe guarito anche lui stesso. Perché Estonia, disperato e frustrato, si vedeva anch’esso malato. Sente ancora la malattia punzecchiarlo spesso sulle spalle e nello stomaco. L’ira, la sua nuova preoccupazione, non è mai cessata di esistere. È sempre lì, è sempre forte, forse molto più equilibrata. Negli anni Estonia ha imparato a contenerla tutta dentro di sé. Granello dopo granello, è riuscito a rinchiuderla tutta in un contenitore dentro al proprio cuore, abbastanza grande da racchiudere anche altri mali. La tristezza e la delusione. La paura e la preoccupazione. Queste riempiono ancor di più il suo recipiente, più violente dell’ira. Sta straripando, sta per uscire fuori. Estonia lo sente, ma non fa nulla. Ormai è troppo tardi. Lituania tanto pensa solo a sé stesso. A Lituania non interessa di loro due.

“Estonia, non voglio che tu faccia qualcosa che tu non voglia” Lituania ha qualcosa di diverso negli occhi. Il cavaliere virtuoso è scomparso. Il contenitore del biondo smette di straripare, interessato “Voglio solo che tu sia felice delle azioni che scegli. Non voglio che tu vada contro le tue idee o contro la tua natura” Lituania poggia gli occhi sul fagotto che ha fra le braccia. Polonia è incredibilmente più leggero di come lo ricordava. Potrebbe stringerlo forte in un abbraccio, anche se lui è immobile, con la testa contro il proprio petto. Riesce a riscaldarlo questa sensazione. Non è solo un inganno della propria mente per mentirgli: Polonia è vivo ed è felice di questo e di qualsiasi cosa che stia facendo. E non vuole che suo fratello paghi le conseguenze delle scelte che fa. Rialza gli occhi. L’azzurro viene baciato dal sole, le ciglia s’impigliano fra i raggi tiepidi. Estonia rivede suo fratello, rivede il suo sorriso. Lituania interpreta male l’espressione del minore. Il contenitore inizia a prosciugarsi “Estonia, torna a casa. Fai finta di non avermi visto per tutto il giorno. Resta qui insieme a Lettonia. Russia non si arrabbierà con voi, ne sono certo. Non punisce mai chi non ha colpa. Lo faceva anche prima…”

L’abbraccio di Estonia lo prende alla sprovvista. Sente le sue braccia dietro al collo, imbranate nell’afferrarlo, per colpa di Polonia, in mezzo a loro. Sente il corpicino del principe iniziare a schiacciarsi sulla sua pancia e fra le costole del fratello. Il volto, dietro al suo collo, è tiepido, il ferro degli occhiali è ghiacciato. I capelli biondi e corti s’intrecciano, fratelli anch’essi, fra le sue ciocche more. L’abbraccio caldo dell’estone sa di carta appena stampata, di abiti nuovi, di paura. Estonia, si rende conto, di avere paura. Non per lui stesso. Il corpo del polacco è ancora stretto in mezzo a loro, accaldato troppo. Estonia si stacca. Il volto non è mutato, ma l’iride pare più leggera e vivace. Un mare più gentile e allegro, anche se serioso “Non dire stupidaggini: quel che ho detto, ho detto” si volta, i passi fermi e veloci “Andiamo” non apre più bocca. Il contenitore pieno di male è vuoto. Lituania non sa mentire, ne è certo.

Lituania pensa prima a loro che a lui stesso o a Polonia. Questo piccolo, maledetto tassello lo assillava da anni. Ora il sollievo è forte. Volta l’angolo della casa, vicino al capanno degli attrezzi, col profumo di papaveri nelle narici, dolce e forte come miele. Sorride, speranzoso, orgoglioso del fratello maggiore. Il sorriso muore, inghiottito dal terrore. I papaveri sembrano macchie di sangue ai suoi occhi tremuli. Il vento dolce che porta il loro profumo pare sonnifero per le sue carni. Il cuore batte nella sua testa. È come se vedesse tutto piano, con una lentezza asfissiante, tanto da registrare i nanosecondi e i battiti impazziti del suo cuore troppo provato. Ben oltre a loro, lontana ma comunque pericolosa, Bielorussia sta camminando. Estonia non erra, non si sbaglia: gli stivali scuri della ragazza puntano verso di loro. Anzi, verso di lui: Lituania e Polonia sono ancora dietro l’angolo, fuori dalla vista della bielorussa. Estonia, ancor più che incredulo, continua ad osservare la ragazza. No, non erra affatto: si dirige verso di loro. Il passo fermo e deciso non la fa e non potrebbe modificare la meta. Estonia arretra velocemente. Lituania, non avendo visto nulla, arriccia le sopracciglia. Estonia non parla, le labbra si muovono per non farsi sentire: Bielorussia.

Panico, terrore, cuori in gola. Polonia, addormentato, si stringe ancor di più al petto dell’amico, avvertito anch’esso il pericolo.

 

 

 

 

Russia ha appena finito di leggere.

Sgomento.

 

Lettonia, nonostante non debba farsi sentire da nessuno, corre forte nei corridoi. L’altra notte non riusciva a dormire. Pensava a tutto e a niente. Pensava a Polonia e ai suoi fratelli. A Russia e alla loro casa. La notte era molto buia e fredda, aveva un po’ di paura. Stanno per fare l’impossibile, è normale che abbia paura, ma Lettonia non vuole più avere terrore. È stanco di essere un codardo da troppi anni. Ormai non ne è quasi per niente, ma quella notte si era rannicchiato all’angolo del letto e aveva pensato a qualsiasi cosa. Pensava addirittura che Russia potesse trovare Polonia, quella notte, nello scantinato. Pensava al peggio e aveva paura, il piccolo Lettonia. Stufo per la sua mancanza di coraggio, si era alzato dal letto e aveva scritto a Raivis. Aveva scritto di Polonia, del funerale, del cadavere riemerso dalla terra e del loro futuro viaggio. Sfogato e molto più quieto, era ritornato a dormire, con un sorriso sulle labbra. Nessuno li avrebbe trovati, nemmeno Russia.

 

Incredulità.

 

Lettonia è veloce: schizza per i corridoi come una molla. Non come un ladro inseguito da una guardia, ma come un cercatore d’oro alla rincorsa dell’ultima pepita appena trascinata dalla corrente del fiume. Gli occhi svegli e maturi scattano in ogni angolo e stanzetta che incontrano. Ha scelto di fare il giro lungo, per evitare il salotto e la cucina. E, soprattutto, l’ufficio di Russia. Potrebbe librarsi in aria, tanto sono veloci i suoi piedi, tanto l’anima desideri prendere il volo. Non pensa al pericolo. Si sente al sicuro, come sotto un mantello onnipotente, fra le braccia dei propri fratelli. Non pensa, ingenuo, a ciò che potrebbe distruggere ogni cosa che, in quegli anni di strazio, hanno creato con Lituania ed Estonia. Non immagina nulla, il piccolo Lettonia, il coraggio fin troppo forte e vivo nelle sue vene. Senza pensare, senza riflettere, entra nella loro stanza.

 

Confusione.

 

Russia è dietro la porta. Si accorge di Lettonia, Lettonia non si accorge di lui. Aveva posato il diario, aperto, sulla scrivania. Non voleva credere a nessuna parola di quel che ha scritto il piccolo Baltico. Non vuole e non può credere a qualcosa del genere. Lettonia si sente protetto, ma non invincibile: vede qualcosa di strano. Prende Raivis in braccio, ma è perplesso. La scorsa notte l’aveva lasciato nel solito posto, dentro al cassetto della scrivania. Preso fra le mani il diario, si sente confuso. Russia, nascosto fra le ombre della stanza, fa un passo avanti. Lettonia lo vede. Russia diventa sordo, il cuore batte forte, sconvolto ed incredulo. Non riesce a riordinare i pensieri, il gigante. Lettonia ha il cuore in gola. L’anima, prima libera e coraggiosa, si rintana di nuovo nel corpo magro del ragazzino, terrorizzata. L’istinto è veloce, più veloce del cuore e del cervello. I passi del Baltico corrono vicini all’uscita. Eppure, anche se l’istinto lo fa muovere, immediatamente ferma le sue gambe. Non può scappare di fronte a Russia. Ha dimenticato come si fa. Il gigante, in attesa, sente il proprio cuore spaccarsi in due. Esce fuori sangue bollente, colmo di passione. Poggia una mano sul volto, tenta, cerca di ritornare ad avere la propria calma. Invano. Lettonia lo guarda in volto, guarda il suo diario, nota che è stato letto, fino all’ultima pagina. Comprende, il cuore scosso e tremore per essere stato scoperto. Tutto per colpa sua.

“S-Signore, vi posso spiegare… Io, E-Estonia e… e…” Lettonia abbassa lo sguardo, tremiti nel corpo, vecchi tremiti che avrebbe voluto eliminare per sempre. L’occhio di Russia, fra gli spazi tra le dita, brilla di un viola profondo e violento. Il generale ispira e un meccanismo, antico e morto, ritorna in vita dentro di lui. Cade la mano dal volto e anche l’altro occhio brilla, affamato di morte. Lettonia alza poco gli occhi. I tremiti smettono, paralizzati. Il ragazzino sente la stessa tensione dell’anima di Russia sul proprio piccolo corpo indifeso. E quegli occhi, fiamme d’Inferno, brillano di sangue, bruciano il suo coraggio. Lettonia ritorna tremante. Vede ciò che vedeva anni fa.

 

Tradimento.

 

Dal cuore di Russia sgorga anche sangue nero, denso del suo vecchio essere, denso ed affamato della sua vecchia natura. Il ragazzino ha paura, terrore, ricordi ritornano a galla, infami. Lettonia sente le proprie ginocchia lottare fra di loro, scontrandosi, tentando di farlo inciampare. I piedi implorano di fuggire. Il corpo troppo pesante per ubbidirgli. Lettonia sente di nuovo il vecchio e acre sapore della paura, della mortificazione, dei colpi sul proprio capo, di un padrone troppo crudele. I denti litigano e tentennano, il fiato mozzato. Le braccia hanno tremiti, ma non demordono: non voglio abbandonare Raivis. Si aggrappano al diario, disperate, all’unico riparo e compagno che hanno. Faceva sempre così, ricorda, ma non aveva un diario. Aveva Estonia e Lituania. I passi ancora troppo lenti, troppo piccoli, non come i prepotenti di Russia, che calpestano il pavimento e reclamano il corpicino minuto del Baltico coperto di sangue e lividi neri. Russia ha il cuore sgorgante di melma scura, non riesce e non desidera ritornare rosso, il sangue. Più i suoi occhi si posano su Lettonia e più lo immagina strappato degli abiti appena comprati, della pelle rosata e dei vivi riccioli biondo scuri. Il peso del tradimento schiaccia il suo grosso cuore, rovente d’ira.

“S-Signore…” è un sussurro indistinguibile, quello di Lettonia. I denti, ancor più tentennanti, si rifiutano di stare fermi, per formulare delle spiegazioni. Per impedire ciò che potrebbe accadere. Gli occhi violacei di Russia pesano come dozzine di spade taglienti puntate sul proprio capo. La sciarpa del generale si muove alle spalle del proprio padrone, come due spire di serpenti. Il coraggio accumulato in questi anni scompare, divorato del tutto dagli occhi violacei, dai passi pesanti, dal cuore scoppiettante di rabbia, dal corpo massiccio di Russia. Troppo grande ed imponente per lui, piccolo Baltico. Lettonia vorrebbe dire qualcosa, vorrebbe tentare, non più di spiegarsi, ma di chiedere perdono. La codardia rimpiazza il coraggio.

Il ragazzino non ne ha il tempo. Russia non dà mai il tempo per salvarti. La pistola, sempre nascosta nella giubba fino a quella notte, si mostra. La mano destra urla di dolore. La cicatrice sul muscolo tira e si lamenta per lo sforzo del pollice. Russia è sordo. Solo l’istinto lo comanda. Solo il sapore aspro del tradimento lo rende bestia. Gli occhi cerulei di Lettonia sono due spilli, increduli. La canna della pistola, nera, lucente al sole, lo ha paralizzato. I denti non litigano più, le ginocchia non cigolano, il cuore non ha più battiti. Come un bianco manichino, Lettonia resta fermo. Raivis diviene pesante e ruvido tra le piccole mani del Baltico. La paura scompare. La codardia viene sottomessa dal vuoto. Il piccolo Lettonia non riesce a credere a ciò che sta vedendo.

La sicura viene tolta. Il grilletto viene premuto. La canna nera s’illumina e solo in quel momento Lettonia si rende conto di ciò che sta accadendo.

 

 

 

 

 

La rosa bianca carezza la sua compagna rossa. S’abbracciano, emozionate per il loro futuro, sapendo di poter giacere con un principe. Le foglie sono vivide, emozionate, impregnate di rugiada. Giusto quella mattina sono state raccolte, le più belle e floride. Sono contente di essere state scelte proprio loro. Sanno di poter raggiungere le loro sorella, ancor più fortunate per essere state per una notte con quel bel giovane. L’emozione le prende e s’abbracciano con più forza, dimentiche di avere le spine strappate, per non rovinare la pelle del principino. Dimenticano le ferite e gli fregi, della linfa che fuoriesce dove le spine occupavano i loro fusti. Il nastro bianco e rosso le veste, pronte per incontrare il loro amore, il loro futuro amato. Bielorussia guarda le due rose che ha in mano e si chiede se stia facendo una buona cosa, se visitare Polonia sia qualcosa che dovrebbe fare anche lei.

 

“So che vi siete conosciuti, tanto tempo fa. Perché non provi ad incontrarlo? Potresti anche regalargli queste, se vuoi”

 

La sera prima non riusciva a stare immobile, nella sua stanza. Non riusciva a leggere, a cucire, a dormire. Vedere Polonia le ha fatto molto più male di quel che credeva. Non appena i suoi occhi si chiudevano vedeva della pelle grigiastra, ossa senza carne, capelli senza alcun colore, vestaglia bianca. Si chiede anche ora se il fantasma di Polonia possa già visitare la sua casa solo dopo un giorno dal seppellimento. Si chiede se l’anima del ragazzo sia in pace, nonostante l’assassino di fronte alla sua tomba. Conosce i fantasmi, meglio di suo fratello, eppure non sa cosa rispondersi.

Conosceva Polonia. L’ha conosciuto con la maschera dello stupido, con un sorriso sempre in volto e occhi furbi di gatto. E l’ha sempre odiato, quando indossava quella maschera e le stava attorno. Eppure, talvolta, riusciva a vedere qualcosa, sotto quell’ipocrisia e quel sorriso. Vedeva qualcosa che solo Lituania aveva visto. Ha visto solo uno scorcio di Polonia. Ha scorto, alzata delicatamente la maschera, della pelle fredda, labbra sottili e basse, una lacrima sotto al mento. Quando riusciva a vedere qualcosa, Polonia le toglieva le mani e l’ipocrisia copriva di nuovo il suo volto. Era un attore, Polonia, si era resa conto Bielorussia. Tuttavia, non ebbe mai il tempo né il desiderio di vedere il vero volto del principe polacco. Aveva anche lei una storia da percorrere, dei fratelli da riabbracciare. E, alla fine, dimenticò Polonia. Lo dimenticò, fino a quando non seppe della sua morte. Poi avvenne la guerra e, alla fine, lo ritrovò nel suo cortile, a casa sua e di suo fratello. Quelle due rose le aveva ignorate per tutta la notte, quelle che Ivan le aveva poggiato sul comodino, parlandole e raccontandogli i suoi incubi. Pensava che il mattino dopo le avrebbe gettate via, ma la malinconia e la vergogna l’hanno fatto ragionare, e ha deciso di far visita a quell’imbecille. Dopotutto, non era cattivo e chiunque merita di essere ricordato.

Ha tenuto il capo basso, verso le due rose, fino ad ora, ancora indecisa sulla sua futura decisione, nonostante i passi decisi verso la nuova casa del morto. Sobbalza, la ragazza. Le rose, altrettanto spaventate e timorose, smettono di abbracciarsi, scoperte nella loro felicità. Quasi imbarazzate per i loro desideri. Bielorussia fulmina Estonia, parato d’un tratto di fronte a lui. O forse, semplicemente, non l’aveva visto. Anche se per errore suo, continua ad aggrottare gli occhi, furiosa. Le iridi blu urlano di svanire, di correre via, di fuggire da lei. Eppure, nonostante l’avvertimento, l’estone è ancora di fronte a lei.

“Che vuoi? Levati” la pazienza di Bielorussia continua sempre più ad assottigliarsi, ad affusolarsi e a svanire nella fredda aria estiva. Estonia comprende tutto ciò, comprende anche che non può restare per sempre lì. Lituania e Polonia non sono più dietro di loro, eppure teme ancora che possa vederli. Il capanno degli attrezzi è abbastanza grande e sufficientemente sgombro per farli nascondere dentro. Estonia non crede che Lituania possa stare in quelle quattro mura, in piedi, con un cadavere in braccio per troppo tempo. Occhi svegli e attenti sono quelli della bielorussa: l’estone ha uno sguardo troppo teso, la pelle troppo pallida, gli angoli delle labbra sollevati troppo, inappropriate. Estonia sorride, come sorrideva a Russia anni fa, per non farsi toccare. Eppure, per il cuore fragile, le gambe altrettanto gracili, sente il volto tentennare e sudare per il timore. Bielorussia nota anche questo, quasi dimentica le rose in mano.

“B-Buongiorno, Bie-Bielorussia!” esclama, ancor più che inappropriato, volto fin troppo contento “C-Che fai qua, in giardino?” le sopracciglia si distendono, presa in contropiede. Questa domanda le fa cadere gli occhi sulle rose, intrecciate fra loro, di nuovo unite ed emozionate per il futuro. Una vena carica di ricordi, tristezza e lieve timore s’ingrossa nella gola bianca. Ricorda Polonia e si rattrista. Ricorda il fratello e una parte del suo orgoglio sta cedendo solo per il desiderio che ha riguardo le due rose. Un abbaglio fa brillare, scuri, i suoi occhi. Rialza il volto, meno minaccioso, più severo. Ricorda che Estonia non è nulla ed è sollevata: se qualcuno, uno dei suoi fratelli, la vedesse e comprendesse i suoi intenti, l’umiliazione cadrebbe sulle sue spalle. Polonia lo detesta e non è dispiaciuta che sia morto. Eppure la memoria del cadavere è ancora un pensiero vivo. Non sa bene perché abbia deciso di fare il gioco di Ivan. Forse non detesta quel principe come credeva. Forse è semplice compassione. Nonostante ciò, si ritrova ad una cinquantina di passi dalla tomba del morto. Le palpebre sbattono, la luce blu illumina le iridi, ricorda di avere di fronte Estonia.

“Niente che ti riguardi. Tu, invece, che cosa fai qui?” Estonia non mente da anni, non indossa maschere né recita da tempo. Per questo sobbalza, forse non aspettandosi nemmeno questa domanda. Ha dimenticato ogni cosa che ha imparato quando Russia era pazzo del loro sangue. Il cuore batte forte. L’occhio scatta spesso dietro di lui, alle sue spalle, sul capanno. L’iride è ritornata ingenua e bambina: crede che guardando verso Lituania possa salvarlo dalla ragazza. È piccola, ma difficile da tenere a bada, l’iride. Le labbra sono scosse ed ignoranti: credono anche loro che, sorridendo, possa imbrogliare la bielorussa. È ritornato ingenuo anche il volto teso, pallido e bagnato di sudore bollente. Il fiato corto rende il cuore più pesante e il corpo più tremante.

Le labbra si aprono, escono suoni sconnessi, mutano in parole rovinose. Estonia non ha la minima idea di cosa dire, con quale argomento aggirare la ragazza. Sa che è difficile. Sa che la sorella del suo padrone non è ingenua né stupida. Anche questa consapevolezza, agghiacciante e crudele, s’impunta sulle sue scapole. Il cuore batte con più forza, una maglia a vapore senza alcun freno. Le perle di sudore tagliano il volto bianco dell’estone. La paura lo scuote e lo fa parlare a vanvera. Teme per Lituania, che il loro piano vada in malora, che non possano più scappare ed aiutare Polonia. Non fa questo per Polonia, ma per Lituania. Suo fratello ha un desiderio impossibile, ma ha abbastanza coraggio per provare a realizzarlo. E lui non è nulla per impedirglielo, ma non è nemmeno tanto insignificante per starsene con la coda fra le gambe nella loro stanza. Estonia vuole aiutare Lituania, con tutto il suo cuore, e questo desiderio e la naturale codardia umana lo fanno scuotere come una foglia al vento. L’occhio si getta ancora alle spalle. Bielorussia nota anche ciò e il sospetto carezza la sua mente. La lingua di Estonia cerca disperatamente un freno alle sue frasi sconnesse.

“Smettila di dire scemenze!” ritorna il silenzio. Estonia ha male al petto, sbattuto troppe volte per la gabbia attorno al cuore. Le costole si dimenano per il dolore e le povere vene continuano il loro pesante lavoro, troppo sangue trasportano quest’oggi. Lo stesso colore, la diversa forza. Gli occhi di Bielorussia sono cani feroci contro le tentennanti prede blu dell’occhialuto. Sono forti, fermi, cuore brusco, le bestie assassine. Estonia ha paura, la consapevolezza di aver fallito trancia le scapole e s’impossessa dell’anima e del cuore troppo provato. La piccola speranza di poter salvare il fratello è quasi nulla, inghiottita dalle fauci dei cagnacci severi di Bielorussia. L’occhio scappa, intimorito, lancia un altro sguardo al capanno. Le labbra del ragazzo s’innalzano, più carne fresca per le iridi aggressive “Perché diavolo sorridi?” deglutii, nervosismo, cuore in gola. La bielorussa nota anche questo.

“P-Perché non dovrei sorridere? È una cosa che non dovrei fare?”

“Non il giorno dopo un funerale” il cuore di Estonia riceve quest’altro pesante, aggressivo, colpo. La gabbia toracica spruzza sangue, scossa troppo, al limite. Implora di smettere, di non essere così vicino al pericolo. Ma Estonia non può farci niente. Il sangue schizza fuori dal cuore, l’ossigeno trabocca e si libera fuori dai polmoni. La gola non si preoccupa di coglierlo, anch’essa paralizzata. I denti sono rigidi, non riescono a sussurrare nemmeno un suono. L’iride è ancora ingenua. Pretende ancora di guardarsi alle spalle. L’occhio di Bielorussia è ancor più veloce di quello di Estonia. Vede ciò che vede il biondo. Il sospetto e la curiosità si fanno prepotenti “Levati di torno” Estonia non riesce a dire nulla, a fare nulla, che la ragazza lo spinge e lo fa inciampare. Bielorussia apre la porta del capanno. Il buio si leva di fronte ai suoi occhi. Il legno scuro divora ogni pezzetto di sole. Perplessità.

Nulla di anormale. Nulla di insolito. La luce del mattino inonda lo stanzino pieno di cianfrusaglie con raggi gialli e bianchi. Eppure, nonostante l’oscurità sia del tutto svanita, non vede niente d’insolito. Nulla di potenzialmente pericoloso o strano. Entra nel capanno, alza gli stivali per non inciampare tra gli attrezzi. Affila gli occhi, stringe forte le ciglia per vedere meglio, anche negli angoli più stretti e travagliati tra le quattro mura. Nulla. Ancora nulla. Non capisce. Non si volta verso l’estone, ancora per terra, inciampato per essere stato spinto. Estonia, ancor più incredulo di lei, sollevato, riesce a nascondere un sospiro colmo di felicità. Bielorussia aguzza ancora lo sguardo, non riesce a capire. La sensazione di essere stata presa in giro l’avvolge e imporpora le sue orecchie. Si volta, l’estone è ancora sorridente, forse ironico. La ragazza assottiglia gli occhi, vorrebbe che il biondo avesse timore di lei. Invano, l’occhialuto pare brillare di luce propria.

“Che c’è, Bielorussia?” un sibilo lascia le sue labbra. Stringe forte il pugno, desideroso di spaccare gli occhiali del ragazzo. Ma si ferma, le dita carezzano i fusti verdi e le foglie ruvide. Ricorda le rose, ricorda che non deve perdere tempo. Anche se il sorriso di Estonia comincia a strappare quella poca pazienza ricevuta nel capanno vuoto. Non ha visto nulla. Ma pensa comunque che il biondo debba avere una lezione, non solo affidandosi a suo fratello.

Non avrebbe visto niente anche se avesse alzato gli occhi, troppo il buio. Fra le assi del capanno, sopra la sua testa, c’era i due che cercava. Lituania ha la schiena rigida, poggiata sul legno dell’asse. Non riesce a tirare un sospiro di sollievo. Deglutisce, la pancia troppo dura e pressata. Polonia, ignaro di tutto, ancora dormiente, poggia la testa sotto al collo dell’amico, il corpo poggiato precariamente sopra al suo. Stretto al polacco, Lituania sente fuori, al caldo, la voce di Bielorussia. Non comprende nemmeno una parola, ma basta per capire che non l’abbia visto. Con fatica, ancora schiacciato, sospira. Il corpo, forse avvertito sui suoi capelli l’aria calda di Lituania, sospira anch’esso, beato del caldo della pelle del ragazzo. La vestaglia bianca, per l’affanno della corsa, fa sporgere le sue gambe. Fa troppo freddo là dentro. Il corpo rabbrividisce, tentenna sopra al lituano. Involontariamente, la mano ossuta inizia a stringersi su sé stessa, tentando di avere più calore, che ne è affamato sin da quando era sotto la terra, coccolato dalle rose. Lituania, troppo concentrato nell’equilibrio, non nota nulla. Ha freddo anche lui, ma la pelle sottile e ghiacciata di Polonia è troppo fredda. Vuole scendere da lì. Sta per impazzire per essere schiacciato, per il freddo e per il timore di essere scoperto. Qualcuno entra, scatta dentro al capanno. Aguzza l’occhio, non potendo sospirare, deglutisce. Estonia non è mai troppo prudente quando ha paura.

“Lituania?”

“Estonia, sono qui!” sussurra, teme di vedere i capelli nivei di Bielorussia. Il fratello alza gli occhi, lo vede. Inizia ad arrampicarsi per aiutarlo. Gli occhi blu e i celesti urlano di scappare, di essere veloci. Non c’è tempo. Non c’è affatto tempo.

Bielorussia respira, inspira, respira ed inspira. Calma riavuta, ritorna a camminare. Riguarda le rose, ora con odio e disprezzo. Per colpa loro è stata presa in giro da uno dei Baltici. Lo dirà a suo fratello, subito dopo aver compiuto il suo compito. Gli stivali neri graffiano, pestano l’erba verde. Le cinture in cuoio tentennano come campanelli. La suola sbatte, ora, su della terra marcia, vergine senza erba. Appena avrà poggiato le due rose sulla tomba, immediatamente correrà da Ivan e gli dirà i suoi sospetti. Crede ancora che il Baltico nasconda qualcosa. Ricorda il volto teso e i tremiti nelle gambe. E gli occhi sul capanno. Non ha idea cosa stia nascondendo ed è curiosa di sapere cosa c’era lì dentro. Ma non è compito suo scoprirlo, dovrà farlo suo fratello. Forse per il cuore troppo orgoglioso o per la vergogna di poter essere di nuovo presa in giro. Così volta per una seconda volta l’angolo della casa. L’erba qui non cresce, nemmeno un’erbaccia macchia la terra.

L’elettricità la scuote, le iridi si paralizzano, forte il colpo. La mascella rischia di cadere. Il cuore, fermo, si agita e ritorna immobile, congelato e scioccato. Le due rose, strette fra loro, lasciano la presa le une dalle altre. La bianca, scossa, viste le sorelle abbandonate dall’amato, gettate e strappate dal giaciglio, sussulta e lacrima rugiada fredda. Il vento le tocca i petali, gioca con le foglie della sorella rossa. Questa, incredula, si lascia scuotere dal vento. Piange e si dispera, la linfa abbandona il suo gambo e la lascia quasi senza vita. Guardano le proprie compagne e sorelle, morte, uccise da un mostro, forse da un folle, che le ha strappato via il compagno. E queste, per l’orgoglio e la disperazione, si sono lasciate ammaliare dal vento ghiacciato. Questo le ha prese, le ha strappato la vita e ora sono morte e fragili tra i propri petali. Sconvolte e disperate, le due rose si lasciano cadere sulla terra sterile. Abbracciate e affrante, si lasciano alle carezze della brezza. Lasciano che il loro destino sia anche quello delle loro compagne, abbandonate dal principe. Bielorussia ha le mani tremanti e il cuore scosso. Si fa domande, si risponde forte e irosa con sé stessa per non aver fermato il Baltico. Pensa che sia stato lui, sa che sia stato lui. Pensa di correre e di fermarlo nel fare qualcosa che ancora non sa e che ancora non comprende.

Uno sparo ferma i tremiti della ragazza. Come marmo, come ghiaccio, Bielorussia è immobile. Per un attimo ha temuto che quel colpo fosse stato per lei. Ma non vede sangue, non sente dolore. È stato vicino, ma non era indirizzato a lei. Un altro sparo, un po’ meno vicino. Si volta, le iridi incontrano il muro della villa. I piedi pensano in fretta, più veloci, decidono di correre dentro casa. La curiosità e il cuore le urlano di sapere cosa stia succedendo in casa sua. La confusione e la scoperta della tomba vuota rendono i suoi passi in corsa.

Un altro sparo e la ragazza diventa un fulmine fra i corridoi della casa.

 

 

 

 

 

 

Corre, il piccolo Lettonia. Corre come non ha mai fatto per anni. Non aveva corso così forte nemmeno durante la guerra, nemmeno quando Russia era folle. Un altro sparo e l’urlo di questo s’infrange come un tuono in tutto il corridoio. Anima forte, anima codarda, lo fa correre con più disperazione. E il gigante è dietro di lui, sanguinario e forse più veloce di lui.

Raivis l’ha salvato. Il suo diario ha parato il primo colpo, con la copertina in pelle rigida e le innumerevoli pagine di sventure ed inchiostro. Poi è stata solo disperazione, è stato solo orrore e paura. E Russia che lo rincorre, anche ora, dietro di lui. Non sa come faccia ad essere più veloce del proprio aggressore, ma riesce a scappare, anche se teme i proiettili.

Un altro sparo e Lettonia corre più veloce. La mente è morta, l’istinto la sostituisce. Deve correre e scappare, prima che sia troppo tardi. Come un piccolo topolino inseguito dal proprio predatore. L’umana ragione muore in questa corsa, le parole sono solo urla e ringhi di rabbia repressa. Russia è arrabbiato e, se non si sfoga, il proprio cuore esploderà per il tormento. Il giuramento che ha fatto anni fa è solo un ricordo sbiadito e defunto. La cicatrice sulla propria mano non ha più voce, anche se la carne viene strappata e la pelle tirata dolorosamente sul grilletto premuto. Un altro sparo ancora e il legno della porta s’infrange. Piccoli pezzetti di legno e segatura si librano in aria e toccano il pavimento.

Il cuore del più piccolo pensa di non riuscire più a battere forte, teme di non riuscire più a scappare. Ha paura di abbandonarsi fra le braccia del proprio aggressore. L’istinto grida di continuare a correre, dovesse scoppiargli il cuore e la milza per la fatica. E Lettonia lo ascolta, il corpo del ragazzino implora ogni organo e goccia di sangue di riuscire a resistere, anche se poco allenati, anche se semplicemente disperati per la paura. Un altro sparo e la finestra esplode nella luce riflessa nei vetri. I frammenti, cristalli di raggi di sole, vibrano e lasciano la propria dimora. Volano fuori dalla villa, la luce mostra un arcobaleno di colori su di loro. Il piccolo corre ancora, Russia potrebbe quasi prenderlo. Ma le gambe del ragazzino sono anche furbe, sono anche intelligenti: voltano spesso i corridoi e cambiano svelte la forza nelle cosce. I muscoli cominciano a stancarsi, il fragile Lettonia sente di essere spacciato, di morire lì dentro, di non essere riuscito a scampare dall’ira del mostro. Volta di nuovo il corridoio e la mano di Russia la sente vicino ai suoi capelli.

Il fianco gracile del ragazzino sbatte contro qualcos’altro che non sia legno. Un vestito celeste s’alza e volteggia per l’impatto. L’occhio osserva, riconosce Ucraina e i suoi occhi sui suoi riccioli scuri. È un attimo, ma Lettonia continua a correre, l’occhio interessato assidua a posarsi sull’abito nuovo che indossa. La donna non riesce a voltarsi, non fa in tempo, non vede suo fratello. E lo sparo riecheggia. Lettonia non vede vetri infranti, né pezzetti di segatura. Il sangue bagna i capelli della donna, gli occhi si bloccano e muoiono. Il cuore di Lettonia sussulta, gli occhi increduli. Vermiglie ora sono le pareti, i quadri, gli arabeschi. Le labbra bianche dell’ucraina chiedono di schiudersi, forte è il dolore. Ma il cuore si ferma e i polmoni non prendono più ossigeno. Il corpo della donna dimentica il dolore e cade a terra come un corpo morto. I passi del ragazzino si fermano, ritornano umani, dimenticano l’ira di Russia, che ira non ne ha più.

Katja!!!” pare morire, Russia, tanto gli occhi sono piccoli, tanta è bianca la pelle. E il cuore in subbuglio e confuso. Lettonia lo vede fermarsi e raccogliere le spalle della sorella. Affranto, pentito, il corpo di Russia viene scosso da tremiti. Lettonia ha un cuore buono. Vorrebbe aiutare, vorrebbe salvare Ucraina. Pensa di correre verso Russia e di soccorrere sua sorella. Vede la pistola, la vede fra le dita del suo padrone. Vede di nuovo la corsa e gli occhi violacei del generale sui suoi. Vede Raivis che, se non l’avesse parato di fronte alla sua testa, allora avrebbe una pallottola in mezzo agli occhi. Pensa a questo e va contro la sua natura dolce: si volta, i piedi scattanti ed esce fuori dalla villa, ancora pauroso, temendo ancora di essere sparato.

Lettonia corre via, ma Russia resta fermo. L’istinto colmo di melma si quieta del tutto e dimentica di essere bestia. La colpa di ciò che ha fatto preme forte su di sé. Ma la confusione di come sia accaduto lo induce a ragionare. Ora lo sente. Sente la cicatrice sulla sua mano, lamentosa ed infuriata per ciò che ha fatto. Ricorda il giuramento e non crede che sia colpa di Lettonia. Vorrebbe piangere, ma la paura gli blocca le lacrime. Stringe la sorella, quasi morta fra le sue braccia. La implora di svegliarsi, di reagire, ma non si muove. Teme per lei, teme di aver fatto qualcosa di insanabile. E intanto il sangue brucia sulla guancia e le palpebre di Ucraina. I laghi scarlatti si congiungono sul pavimento. Non si fermano.

Bielorussia salta dalla finestra infranta, avendo visto tutto. Russia è sordo, ma riesce a vederla. La vede cadere in ginocchio, vicino alla maggiore. La vede spingerlo via. Gli urla di andare a fermare Lettonia e i suoi fratelli. Continua a spingerlo e lo costringe in piedi. Lei, forte ed orgogliosa, implora vendetta, implora di vendicare sua sorella. La stringe in grembo e gli occhi supplicano di correre. Russia si volta e ritorna ad avanzare rapidamente. La sua coscienza preme su di lui, sulle sue spalle e riesce a fargli lasciare la presa sulla pistola. Questa cade e non viene udita da nessuno. La cicatrice, bianca e strappata, chiede di non farlo mai più. Il colpo su sua sorella era una punizione per non aver tenuto la promessa. Sa che Lettonia non è del tutto colpevole. Il suo cuore ritorna umano. Pensa di poter fermare i tre Baltici anche senza la violenza. Vorrebbe almeno provarci.

Lettonia apre le porte e l’aria frizzante dell’estate e del sole alto lo abbraccia. Il piccolo non sente amore né calore nel caldo dei bagliori. Corre, teme ancora Russia, immagina che sia dietro di lui, a prenderlo. La macchina nera del generale è pronta a partire. Lituania poggia il corpo di Polonia sui sedili posteriori. Cerca di accucciarlo più in profondità per non farlo cadere. Il corpo, scomodo e compresso, non vuole staccarsi dal calore dell’amico. Ma non riesce più a muoversi, per questo si abbandona lì dietro, infelice. Ancora con le dita tremule, Estonia spalanca il cancello e corre verso il posto del conducente. I suoi occhiali brillano e riflettono la figura di Lettonia, ansimante, rosso in volto per la corsa. Il fratellino si getta nei sedili posteriori, cade vicino a Polonia. Non si siede, si abbandona tra gli spazi vuoti della macchina.

“Russia ci ha scoperti! Andiamo via!” sono poche sillabe, urlate con disperazione, ma i due scattano verso i posti. Estonia si getta alla guida, Lituania lo segue accanto a lui. I cuori battono forte, forse si aspettavano di essere presi. Dopotutto, non puoi nascondere niente a Russia. Estonia è nervoso. Estonia non riesce a ricordare. Tremore, nervoso, usa le chiavi e la macchina si accende. Panico, cuore in fermento, non riesce ad avviare l’automobile. Lettonia, dietro di lui, gli urla di fare in fretta. Sente lo sguardo di Lituania, ansioso, sul suo. Anche lui gli urla di fare veloce, ma non ci riesce. Troppo terrore, troppa paura. E l’ansia lo fa sbagliare. Non ricorda più come si guidi una macchina. Lettonia trema di paura, Lituania per l’emozione e l’ansia.

“Ma che fai!? Muoviti!”

“Ci sto provando!”

“Estonia, l’acceleratore, l’acceleratore!”

“Non urlate!”

“Metti in moto la macchina!”

“Sto cercando di fare più velocemente poss-…”

Estonia” i tre cuori smettono di pompare sangue. I tre fratelli guardano dove hanno sentito la voce. Anche i propri tremiti smettono di graffiare le loro carni. Vedere gli occhi violacei, brillanti come gemme, fra lo spazio del finestrino scuro. E’ un orrore troppo grande per loro. Lettonia non respira più e gli occhi rischiano di mostrare lacrime amare di sconfitta e terrore. Estonia, più vicino agli occhi, fiamme ferme sui suoi occhiali, sussulta e la gola cerca parole, ma lascia gemiti di panico. Russia vede il corpo di Polonia, vicino a Lettonia. Pensa di riuscire a fermarli, pensa di non arrabbiarsi più. Pensa di poter fare in modo che tutto ritorni come prima e che non debba perdere i suoi figli per quel che ha fatto. Pensa ingenuamente, Russia, ma spera con tutto il suo cuore in ciò che crede. Poggia la mano, quella con la cicatrice, sullo spazio aperto del finestrino “Estonia… non andare via, Estonia” i suoi occhi non hanno rabbia né rancore, eppure i tre leggono qualcosa che non esiste. L’occhialuto sente i polmoni scoppiare e le lenti cadere dal suo naso, tanto forti sono i sussulti. Ma Lituania pensa a Polonia, pensa che non debba fermarsi solo per colpa sua. Dimentica parte della sua paura, divorata dalla forza e dal coraggio. E forse anche dall’ira che aveva per Russia anni fa.

Lo stivale scuro preme su quello di Estonia, sull’acceleratore quasi dimenticato. La macchina scura romba, il motore si agita per la forza bruta del ragazzo. Estonia si scuote, i suoi occhi lasciano quelli di Russia. Le mani cadono sul volante e prende il controllo. L’auto del generale sfreccia via dalla villa, lontana dal cancello, in mezzo ai boschi vivi nel verde.

Russia dimentica l’impatto con il suo corpo e l’urto sulla sua mano, quasi dentro l’auto. I suoi occhi guardano dove sono scappati i suoi figli e non vuole credere di averli perduti per sempre. La sua mano sanguina. La cicatrice riaperta da un altro taglio brucia sotto al sangue. Goccia dopo goccia, le macchie vermiglie bagnano i fili d’erba verde, affogando la rugiada nelle proprie spire rosse e bollenti. E la mano di Russia è già zuppa di rosso, fortunatamente proprio.

 

 

 

 

 

Polonia ha ancora il fiato corto, deglutisce saliva dolce, la lingua bagna le labbra, ma il dolore non passa. Continua a carezzare il petto, dove il cuore giace, quasi fino a farsi male le punte delle dita. È l’unico metodo per alleviare il dolore, che altro non sa fare. Sbuffa seccato contro Toris che, indifferente al suo dolore, continua a stargli sulle spalle, seduto comodo “Ma dovevi proprio beccarmi qui? Fa malissimo!” il bambino, ancor più indifferente, accuccia la testolina sui suoi capelli. Polonia è tentato di correre forte, senza tenerlo per i piedini. Diverse dormite prima aveva trovato Toris sulla sua pancia a beccargli il petto sotto la maglia, proprio tra le costole. Il dolore continua, sostituisce le dita con le nocche. Un po’ si quieta, il dolore. Ma non crede che sia stata del tutto colpa del falcone. Non sentirebbe tutto questo male e, soprattutto, non sentirebbe tutto questo sotto la pelle, nella carne, forse ancora più in profondità. S’inumidisce ancora le labbra, il dolore è passato quasi del tutto.

I passi continuano a muoverlo, il bambino ancora accucciato sullo spacco fra i capelli biondi. Polonia aguzza la vista di fronte a sé. Tutto quel bianco lo confonde, quasi ha creduto di aver visto qualcosa. Quasi crede che ci sia una macchiolina scura lontana, dove lui sta marciando. Toris non parla, ma strappa la sua guancia dai capelli del polacco. Vede anche lui qualcosa, Polonia è certo che la veda anche lui. Il biondo è interessato, curioso del cambiamento. Bambino incauto, aumenta il passo, quasi corre nel bianco cartaceo di quel mondo monotono. Avvicinato, ancora più vicino, riesce a scorgere meglio la macchia scura. Strabuzza gli occhi, ancora più curioso, ancora più bambino. Ora è vicino, la macchia ora è una figura umana.

Polonia, ora sospettoso, stringe dolce i piedini di Toris, protettivo. Una divisa nera si para poco lontano da lui. Gli stivali scuri della persona non si muovono, le spalle abbattute e cadenti, la testa sorda e muta nascosta. Polonia non capisce e per questo la curiosità diventa vivo sentimento di impazienza. Lascia la presa sul bambino. Non si accorge della sua caduta dietro le proprie spalle. A malapena capisce che Toris si sia ritrasformato in volatile. Il piccolo si poggia sulla spalla del polacco. S’accuccia e il becco sfiora il lobo del suo orecchio. Così perplesso e sospettoso non aveva mai visto Toris.

I passi di Polonia avanzano, aggirano la figura. Ora vede meglio. Sulla spalla è calato un volatile, penne scure, quasi violacee. Il polacco sobbalza, mai visto un’aquila così grande e con artigli così aguzzi. Il capo dell’uccello, prima nascosto contro la fronte del proprio padrone, ora si volta. Sente le piume vermiglie di Toris fremere e scuotersi. Polonia non sa per cosa. Quest’aquila ha occhi severi, azzurri, quasi prepotenti. Il biondo sente lo stomaco rigirarsi, non sa bene per cosa. Quel volatile, dopotutto, non gli fa paura. Eppure sente qualcosa che gli impone di abbassare il capo di fronte a lui, troppo grave di sguardo.

Involontariamente indietreggia e pare che il falcone rosso sulla sua spalla abbia voluto fare lo stesso con lui, abbassato il becco e calme le piume.

Finalmente, vede i capelli della figura, innaturalmente chiari. La fronte pallida si alza, gli occhi nascosti sotto le palpebre. Respira a fatica, il pomo d’Adamo s’alza e s’abbassa, catturato ossigeno e portato ai polmoni. Gli occhi decidono di aprirsi, forse stanchi. Polonia sente una scarica di incredula meraviglia. Gli occhi rossastri di Prussia guardano in alto, si poggiano alla sua spalla, dove l’aquila lo sovrasta. Batte le palpebre, guarda il volatile negli occhi. Quest’ultimo, ancora severo, poggia per poco le sue iridi azzurre sulle sanguigne. L’uccello si volta di nuovo verso Polonia e Toris, quasi imponendo al prussiano di guardarli. Prussia guarda il polacco confuso, forse nemmeno lo riconosce, così come Polonia non riesce a riconoscerlo. Il biondo sente di nuovo una scarica di ansia e meraviglia sulle sue spalle, che sbatte anche contro il falcone rosso. Prussia pare comprendere qualcosa. Raddrizza la schiena, il capo alto, il petto voltato verso il più piccolo. Il ghigno quasi cattivo, gli occhi lucenti e i canini appuntiti contro di sé.

“Principessina!” esclama e i polmoni pretendono ancora più aria. Dentro Polonia, in un attimo, svanisce la sorpresa e l’incredulità. Si sente più vuoto, forse anche un po’ più sprezzante verso il prussiano che, avuta la sua attenzione, aggrotta le sopracciglia e rende delle fessure vermiglie i suoi occhi “Beh, che c’è?” chiude le palpebre, ha bisogno di altra aria, avuta ben poca prima “La mia magnificenza è così grande che persino da morto tu n-…” riapre le palpebre. Le sbatte più volte, aggrotta la fronte, perplesso. Polonia è sparito. Volta gli occhi alla sua sinistra, avuto un dubbio. Sussulta, sdegnato: la figura del biondino sta svanendo secondo dopo secondo, lontano da lui. Si sente umiliato ed ignorato “Hey, non ho ancora finito il mio monologo!” lo rincorre, anche se con poco ossigeno nei polmoni.

Polonia corre così forte che Toris deve volargli vicino per non cadere dalla sua spalla. Non avrebbe voluto vedere Prussia, per nessun motivo al mondo. Avrebbe preferito starsene ancora nella solitudine insieme a Toris piuttosto che vedere uno dei suoi assassini e, per di più, incredibilmente odioso.

 

 

  
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