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Autore: Feathers    21/04/2016    5 recensioni
/Cockles Au in Russia!/
Dopo che la sua vita cambia per sempre a causa di una matrioska, Jensen Ackles è costretto a vivere nella Russia del 1955, un'epoca difficile per un americano moderno. Per fortuna, un affascinante e misterioso scrittore di nome Misha Krushnic decide di ospitarlo nel suo appartamento al centro di Mosca. Cosa succederebbe se la loro iniziale diffidenza si trasformasse in una passione incontenibile?
Questa è la storia di un amore clandestino, di quelli tanto intensi da sembrare irreali, ma continuamente messo in grave pericolo dall'omofobia della Russia Sovietica. Riusciranno i due ad uscire dalla terribile situazione in cui si trovano ed a stare insieme senza rischiare la vita?
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Jensen Ackles, Misha Collins
Note: AU, Lemon, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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~~Afraid of losing you


 L'immagine di Misha in ginocchio che sorrideva e dava da mangiare ad un bimbo povero era la scena più dolce che avessi mai visto. A giudicare dal suo comportamento disinvolto, pareva quasi impossibile che Misha non avesse mai avuto dei figli. Sembrava quasi che la purezza dell'anima di Misha si stesse fondendo con quella del bambino.

 Il piccolo lo fissò per un po', allungò timidamente un braccio impolverato sbattendo le ciglia, e Misha racchiuse teneramente la manina nel suo grande palmo, sorridendogli. "Chiudi gli occhi." sussurrò, lo sguardo limpido e azzurro come il cielo sopra le nostre teste.

 Il bimbo obbedì, e Misha lasciò scivolare qualcosa di colorato fra le sue minuscole dita.

 "Puoi riaprirli, adesso."

 La risata divertita del bambino mi fece quasi commuovere. A stento riusciva a tenere in equilibrio le sette caramelle alla frutta che gli aveva regalato Misha.

 Intanto, la madre del ragazzino osservava la scena dalla porta malferma del loro vecchio palazzo grigiastro. Portava i capelli neri legati in una coda, ed era tanto giovane da assomigliare ad un'adolescente trascurata; aveva addosso solo dei cenci e ci osservava sommessamente, come se io e Misha fossimo stati dei reali. Con una mano sfiorava la spalla del figlio intento a gustarsi una prelibatezza alla fragola - che probabilmente non aveva mai assaggiato in vita sua.

 La madre mormorò al piccolo qualcosa in russo, e lui le puntò addosso due occhi scuri enormi. Poi rivolse il viso appiccicoso di zucchero verso l'espressione buffa di Misha. "G-grazie." balbettò a bassa voce, e Misha ridacchiò, e gli scompigliò i capelli color cenere. Gli rivelò qualcosa che all'inizio non capii, ma che poi interpretai come un 'anche io parlo russo'.

 Li osservai con un sorriso titubante, tirandomi l'orlo della giacca nera. Ogni giorno mi rendevo conto che non mi sarei mai stancato di amare Misha con tutte le mie forze. Non riuscivo a comprendere quale male ci potesse essere in un sentimento così meraviglioso come quello che provavo io per lui. Era come se da quando mi ero innamorato di Misha ci fosse una nuova luce in me, qualcosa di angelico, di divino che mi faceva star bene, e non avrei mai sopportato di perderlo. Mi sarei sentito spento - come non mi ero mai reso conto di essere prima di conoscerlo.

 "Direi che possiamo anche andare adesso, fratellone... " ghignò Misha facendomi l'occhiolino; si alzò dandosi delle pacche sui pantaloni per spolverarli, e si rassettò il cappotto grigio. Mi sentivo stranissimo quando mi chiamava in quel modo, anche se sapevo che lo faceva solo per dissimulare.

 "Da svidanya, Valentin." sussurrò Misha al bambino, che agitò allegramente la manina in risposta. La madre fece lo stesso e ci sorrise, abbassando il capo.

 Alle sette di sera tornammo a casa di Mark dopo il giretto nella periferia di Leningrado; ci preparammo una rapida cena e poi andammo a poltrire di fronte alla televisione, intrecciati sul divano. Fecimo un po' del consueto zapping serale, e dato che non trasmettevano nulla di interessante presimo a conversare su argomenti casuali, lasciando il ronzio del televisore come calmante sottofondo. Era meraviglioso stare in quel modo. Amavo da impazzire anche viaggiare con Misha - ci eravamo spostati un po' ovunque in quei due mesi, per poi tornare alla base - ma ciò non era paragonabile alle notti in cui coccolavamo sul letto o sul divano.

 Non mi ero mai sentito così al sicuro in vita mia: la stanza era spesso semi buia; le uniche fonti di luce erano la candela profumata sul comò ed il televisore acceso.

 Quella notte mi accoccolai pigramente sulla spalla di Misha, strofinando il naso contro la sua pelle e lui ammiccò. Sollevai le labbra, e gli diedi un lungo e umido bacio sul collo, godendomi il gemito roco che uscì dalla sua bocca. Misha si strofinò la barbetta, mi prese la mano, giocando con le mie dita, e poi intrufolò le sue all'interno della maglia del mio pigiama, accarezzandomi la schiena e scendendo giù sui glutei e le cosce. D'istinto lo baciai, giocai con la sua lingua calda, e poi staccai le mie labbra dalle sue con un suono bagnato, per andare a mordicchiargli il petto. Eravamo abbastanza sereni, questo era vero, eppure io avevo ancora un accenno di quei brutti pensieri in testa.

 "Amore... io ho... come l'impressione che... sia troppo facile." mormorai all'improvviso, baciandolo pian piano. Gli succhiai un capezzolo, e lo sentii eccitarsi sotto il mio tocco. Infilai una gamba fra le sue, e Misha grugnì.

 Abbassò il capo. "A c-cosa ti riferisci?" balbettò.

 Ansimai un po'.

 "Il metodo di Mikhail. È troppo semplice per essere vero." dissi, posizionando le labbra fra i suoi pettorali. Misha mi prese per le spalle, ed io sollevai gli occhi, sprofondando nei suoi.

 Misha aggrottò le sopracciglia e poi sorrise. "Uhm. Be', tanto vale la pena provare, no? Anche se a dirla tutta non voglio mica bruciare il tuo regalo!"

 Ridacchiai, e affondai affettuosamente le unghie sul suo bicipite nudo, tirandomi in avanti. Gli sfiorai le labbra con le mie e sussurrai. "Nemmeno io voglio ridurre in cenere il tuo. Non so neppure perché me l'hai fatto, quel regalo, anche se lo adoro. In fondo era il tuo compleanno, mica il mio."

 Misha rise, e si aggrappò ai miei capelli.

 "Ah! Taci e apprezza la mia infinita gentilezza, Ackles." mi rispose, il mento alto e orgoglioso. Chiuse e riaprì gli occhi con fare assonnato, e sbadigliò.

 "Ho capito... ho capito. Sei stanco." mormorai, con finto tono rassegnato.

 Misha sbuffò.

 "È una giornata che giriamo per Leningrado. E sono due mesi che passiamo da una città all'altra. A proposito. Domani tocca a me parlare del Triangolo di Malebka. Nel diario."

 Io alzai un sopracciglio, e gli lasciai una scia umida dal petto alla clavicola.

 "Be'... scriverai di quanto te la sei fatto addosso per la paura." risposi con un ghigno.

 Misha scoppiò in una buffa risata. "Ma sta zitto, fifone... non mi dimenticherò mai della sera in cui mi hai scambiato per qualcun'altro e mi sei saltato addosso nel buio."

 "Io salto sempre addosso," dissi con voce maliziosa.

 Lui roteò gli occhi. "Che scemo. A proposito... dovrei prenderli, i regali."

 "Quali regali?"

 "Quelli da bruciare, Jens." disse Misha, come un'ovvietà.

 Alzai le sopracciglia e spalancai gli occhi, manco mi avessero colpito sullo stomaco all'improvviso. "P-perché devi farlo tu? Mark può inviarceli."

 Misha sospirò e si leccò le labbra secche. "No, non può. Non è in città - ogni Novembre va a trovare i suoi figli." La sua voce suonava strana.

 Mi staccai lentamente da Misha e lo guardai negli occhi, speranzoso, sedendomi accanto a lui. "Ma... mi pare pericoloso per ora... " balbettai.

 Ci fu una pausa, mentre qualcuno in televisione parlava dei gulag, di quegli orrori, e delle povere persone alle quali era toccata quella fine penosa. Misha era impallidito, e stava facendo finta di non sentirlo, ma io riuscivo ad indovinare ogni suo pensiero.

 All'inizio credevo che si sarebbe comportato ragionevolmente, e invece si limitò ad ammettere: "Uhm, già. Forse è pericoloso." Allungò la mano verso il tavolino, prese un rapido sorso di tè, e si strinse nelle spalle, come se nulla fosse.

 Io corrugai la fronte; mi sentii le braccia formicolare e le guance accaldate. Non sopportavo quel suo atteggiamento sprezzante - rischiava di metterlo in seri guai.
 Si era improvvisamente creata una strana atmosfera in quella stanza tanto tranquilla, erano bastata una parola per farmi risentire il dolore e la paura quasi dimenticati di prima. Mosca.

 "Non lo farai." mi imposi per la prima volta, guardando in avanti verso un punto non distinto. Evitavo come la peste di far cadere lo sguardo sulla televisione - cambiai bruscamente canale.

 Misha mi toccò la spalla, in modo che rivolgessi gli occhi verso di lui. Mi irrigidii.

 "E invece io ci andrò, Jensen. Prima ce ne andiamo di qui... e meno rischiamo di finire in galera o ammazzati. Capisci?"

 "Potresti finirci sul serio per colpa di questa... cazzata di fiaba!" ringhiai, gli occhi già mi pizzicavano.

 Misha mi guardò esterrefatto, e si mise a sedere, puntandomi gli occhi blu addosso. Non era affatto un buon segno. "Da quando in qua credi che sia una cazzata?" sibilò, furioso.

 Io mi massaggiai la fronte, e mi morsi le labbra. "Non... non ne sono certo. Ma se ci fai caso... sembra tutta un'invenzione - una leggenda. L'oggetto da bruciare... la formula magica... pensandoci bene ho l'impressione che si tratti soltanto di un mucchio di balle."

 "Che ne sai se sono balle?" mi domandò lui. Avvertivo l'irritazione nel suo tono di voce.

 Sospirai.

 "Lo sono eccome. Dobbiamo essere realisti."

 Misha era scioccato. "Io sto cercando di essere ottimista... una volta tanto. Appoggiami almeno!"

 "Ti appoggerei eccome se tu non rischiassi di morire! E per cosa?! Anzi, mi chiedo come diavolo abbiamo fatto a bere le parole di quello lì. Chi lo conosce? E poi ma dai! l 15 Luglio... ma fammi il piacere! Sarà la fottuta data di nascita di qualcuno che-"

 "Jensen, ma cazzo!" sbottò Misha con voce alterata, ed io mi ammutolii. "Hai viaggiato nel tempo! Hai disegnato al muro un simbolo che nemmeno ricordavi esistesse! Non dirmi che non credi ancora a queste cose, eh!"

 "No che non ci credo! Quel Sobolev ci prendeva per i fondelli. Ti ripeto che a Mosca non ci devi mettere piede, e che non voglio che ti succeda qualcosa per una cazzata simile... " mormorai con voce tremante, due lacrime enormi mi caddero sulle mani. Odiavo a morte sembrare così debole e propenso al pianto, ma da nove mesi mi sentivo troppo diverso - Misha mi aveva cambiato radicalmente senza volerlo.

 Misha abbassò il capo, torcendosi nervosamente i polsi. "Potrebbe anche non essere una cazzata."

 "Ma io non voglio che... " mi si ruppe la voce, e mi sentii infinitamente ridicolo. Mi posai una mano sulla bocca e serrai gli occhi, senza riuscire a completare la frase.

 "Io devo partire, e lo farò. Punto." replicò Misha, deciso.

 Io rimasi mortificato, ed abbassai il capo alla ricerca di qualcosa da dire per farmi perdonare - non avrei voluto avere quella reazione. Mi passai il palmo sui capelli, tirandoli all'indietro.

 Misha deglutì, e si ammorbidì appena vedendomi in quello stato. "Jens... ci vuoi tornare a casa, sì o no?" mi chiese, il tono calmo.

 Io strinsi ancora di più le palpebre. Misha si era evidentemente pentito di essersi arrabbiato, ed ora era talmente tenero e dolce, come se fosse stato un padre che aveva esagerato a sgridare il suo bambino. Ed io volevo solo affondare in un suo abbraccio, sentire il suo battito; volevo solo dirgli che non ne era valsa la pena di litigare, ma la mia piccola parte orgogliosa mi fece scattare in piedi.

 "Non voglio tornare da nessuna parte Misha! E non voglio che decidi sempre tu quello che si deve o non si deve fare... come se io fossi un ragazzino immaturo che non sa prendere decisioni! Chi cazzo ti credi di essere!?" gli urlai contro, ma poi il cuore mi esplose in petto quando le mie parole mi rimbombarono in testa.

 Misha si ritrasse, fissandomi dal basso; i suoi occhi si velarono appena, ma lui riuscì comunque a mantenere un atteggiamento dignitoso - a differenza di me, che lacrimavo silenziosamente. Distolse lo sguardo. "Credo... di essere quello che ti ha ospitato a casa sua... e ti ha aiutato a sopravvivere qui... che farebbe di tutto per il tuo bene... e che ti ama davvero, davvero tanto... Jensen. Non azzardarti a pensare... che ho fatto tutto questo solo perché volevo usare i tuoi... poteri - se così posso definirli - per tornare nel presente." disse a fatica. "Ti amo come non credevo che sarei più riuscito a fare. Mi chiedi chi mi credo di essere? Credo di essere il tuo uomo... e... " Si asciugò una lacrima che gli era colata sul mento, riprendendo a guardarmi. "E se faccio qualcosa... è sempre e solo per te che la faccio... sappi solo questo."

 A quel punto non ce la feci quasi più a resistere. Trattenni i singhiozzi più che potei; non volevo assolutamente piangere a dirotto, anche se quelle parole me ne fecero venire una voglia immensa.

 "Oddio... lo so, lo so... " Scossi la testa, tornando in me. "Anche io ti-... scusami, Mish. Ma io non voglio davvero tornare... non se significa rischiare di perderti... " mugolai, le unghie conficcate nei palmi.

 "Hey," Misha si alzò e fece due passi, mi sciolse i pugni e avvolse le sue braccia attorno alla mia vita, in modo che appoggiassi la guancia umida sulla sua spalla. Mi accarezzò la schiena con le dita, pian piano. "Non preoccuparti. Lo so che hai paura. Amore mio, farò molta attenzione, lo sai che io in genere sono molto cauto. Lo farò per noi, e anche se fosse una cazzata... dobbiamo tentarle tutte. Nel caso in cui non funzionerà... be'... vorrà dire che ti regalerò un altro maglioncino." scherzò, la voce ancora malinconica.

 Io sorrisi, e poi deglutii, ma il groppo alla gola non se ne andò via. "Allora... almeno fammi venire con te... per favore."

 "No... non se ne parla. Ricordi la promessa che ci siamo fatti? Come il sole e la luna. A Mosca... se ci sono io, non ci sei tu e viceversa. Sarebbe ancora più pericoloso se venissi - fidati di me."

 Sospirai. Aveva ragione purtroppo. Stare insieme non avrebbe fatto altro che peggiorare ogni cosa.

 "Promettimi, allora... che starai in guardia." mormorai, respirando il profumo dolce della sua pelle.

 Misha si separò appena da me in modo che potessimo guardarci negli occhi, e mi sfiorò il mento con la mano, avvicinando la mia bocca alla sua.

 "Promettimelo." lo implorai, le lacrime mi avevano raggiunto il collo, raffreddandolo.

 Misha sorrise, asciugandole.

 "Lo prometto. Davvero." mi disse, e mi coprì tutto il viso di dolci bacetti, premendo più forte sulle mie labbra bagnate. "Davvero."

 -----------------

 Misha partì per Mosca la settimana seguente. Era una strana impressione dover rivedere di nuovo la stazione, sentire il rumore delle rotaie, dopo che credevo che non ci saremmo nemmeno passati per un bel po'. Avevamo deciso di aspettare per almeno quattro mesi prima di rimettere piede a Mosca, eppure Misha era riuscito a convincermi, ed io iniziavo a pentirmene amaramente man mano che ci avvicinavamo al treno.

 L'avevo accompagnato fino alla vettura portandogli la valigia e lasciandomi prendere dolcemente in giro per questo; e anche se fuori ci eravamo salutati freddamente, io avevo distinto una breve scintilla di amore nei suoi occhi. Li conoscevo a memoria ormai.

 Mi ero morso le labbra, ed ero stato assalito da una voglia insormontabile di stringergli la mano per un'ultima volta - avevo il terrore che sarebbe stata davvero l'ultima. Ma il sorriso di Misha mentre entrava in treno mi aveva rincuorato un poco.

 "Stai... stai attento... " gli avevo detto, dandogli una scusante per voltarsi di nuovo verso di me, e per un nanosecondo Misha mi aveva guardato con degli occhi che urlavano: 'Dio buono, come ti bacerei ora!'. Poi aveva annuito ed era entrato.

 Avevo seguito la sua ombra con lo sguardo, finché Misha non era sparito in una delle cuccette. Avevo aspettato per ore ed ore prima di andarmene, sperando che Misha cambiasse idea e facesse fermare il treno, che scendesse e mi raggiungesse alla stazione. Ma tutto ciò non era accaduto.

 Quando ero tornato a casa, ero rimasto per vari minuti sul letto a fissare il soffitto bianco, tentando di scacciare i film mentali che mi stavano già inondando la mente e corrodendo il cuore. Reggevo ancora il mazzetto tintinnante di chiavi in mano, e ricordo che mi era scivolato fuori dal bordo del materasso prima che potessi rendermi conto di starmi addormentando.

 'Starà via per poco.' mi ero detto.

 I giorni mi parevano spenti e spettralmente silenziosi senza Misha, senza le sue battute sarcastiche e la sua risata contagiosa, senza le sue prese in giro e la sua sensuale malizia di quando facevamo l'amore. Non mi ricordavo nemmeno più come fosse vivere da solo. Perfino cucinare senza di lui mi faceva sentire a disagio. Saltavo in aria ogni volta che il telefono squillava - accadeva raramente - e lo afferravo, il cuore al galoppo.

 Io e Misha ci telefonavamo ogni tanto, quando eravamo abbastanza sicuri che nessuno ci avrebbe sentito. Adoravamo quelle stupide conversazioni clandestine. Non ci dicevamo nulla di così importante - volevamo solo sentire l'uno la voce dell'altro per un minuto o due.

 I problemi sorsero solo all'inizio di Dicembre, quando Misha smise di chiamarmi. Preferivo evitare di farlo io, per non metterlo a rischio.

 Ormai era passata più di una settimana da quando Misha si era recato a Mosca. Credevo che non avrebbe tardato a tornare a Leningrado, eppure ogni giorno che passava faceva crescere smisuratamente l'angoscia che mi divorava.

 Un giorno, rovistando nella cassetta della posta trovai una busta bianca nel fondo. All'inizio pensai di non farci troppo caso - poteva anche trattarsi di una semplice bolletta, o qualcosa del genere. Ma poi, quando la poggiai sul tavolo da cucina in mezzo a tutte le altre rimasi perplesso. C'era scritto chiaramente: "Donald King". Aggrottai la fronte, sforzandomi di ricordare, e mi portai un dito sul labbro. Donald era quel tizio del Red Russia, quello che sparlava di me e Misha, quello che per primo aveva notato i miei sentimenti.

 Afferrai di scatto la busta, ed iniziai ad aprirla col coltello sporco di marmellata come meglio potevo. Constatai che era un telegramma - qualcosa di minuscolo. Cominciai a leggere nervosamente, le parole danzavano già sul foglio.

 "Salve Jensen, spero che tu stia abbastanza bene da leggere questa. Misha è nei guai fino al collo, e credo che qui ci sia bisogno di te. Vieni presto, perdonami ma per ora non posso dirti altro."

 Il sangue mi si rimescolò nelle vene e il cuore minacciò di uscirmi dal petto. Presi a sudare freddo, rilessi la lettera sebbene ad ogni volta fosse simile ad una coltellata, ebbi l'impulso di stracciarla, ma poi non lo feci.

 Lo sapevo. Lo sapevo che sarebbe accaduto, maledizione. Me lo sentivo dentro.

 Con le lacrime agli occhi mi rivestii freneticamente, afferrai due cose da mettere in uno striminzito borsone e tutti soldi che avevo risparmiato dal mio lavoretto.

 Schizzai verso la stazione nel giro di mezz'ora scarsa, e mi infilai nel primo treno che trovai.

 Durante il viaggio ero talmente pallido ed agitato che una signorina mi chiese se avevo bisogno che fermassero la vettura per un po'.

 "No, no... devo arrivare il prima possibile." mormorai precipitosamente, e presi a fare dei lunghi respiri per evitare di avere un attacco di panico. Temevo che gli avessero fatto del male, che l'avessero ucciso. I miei presentimenti peggioravano attimo dopo attimo.

 Le ore di viaggio mi parvero infinite, e quando uscii dal treno per poco non caddi di faccia. Mi fiondai in un bar non troppo lontano dalla stazione ed ordinai una birra fredda affinché mi calmasse almeno in parte - peccato che il mio stomaco non reggesse più nulla, e che vomitai tutto e subito.

 Corsi verso il centro di Mosca fino allo sfinimento - non avevo più soldi per un passaggio o cose del genere, e mi maledissi per aver comprato quella schifosa birra. Dovevo correre, correre e basta - correre più veloce che potevo.

 Ma ad un certo punto mi accasciai a terra in un vicolo abbandonato della periferia moscovita, e mi coprii con le mani la testa che mi pulsava tremendamente. Le lacrime mi rigavano le guance, passandomi attraverso i peli della barba che avevo trascurato per giorni.

 Avevo in testa una canzone lenta che Misha adorava, e che anziché calmarmi contribuiva a farmi innervosire. Cercai di rialzarmi, di spolverarmi la giacca e i pantaloni, e presi di nuovo a correre come un matto, la borsa che mi sbatteva su un fianco come al mio ultimo giorno di lavoro al quale non ero andato.

 'Se quella volta non fossi caduto... tutto questo non sarebbe successo,' pensai sfrecciando per strada, gli occhi che gocciolavano, la gente che mi seguiva con lo sguardo, credendomi un matto. 'Se io non fossi caduto... non avrei mai perso quel dannato autobus, non avrei comprato la Matrioska. Non mi sarei ritrovato in Russia e non mi sarei nemmeno innamorato alla follia di un uomo che rischio di trovare in una pozza di sangue. Eppure quella fottuta caduta la rifarei centomila volte pur di conoscere Misha. Per me, ormai, lui è l'unica cosa che conta.'

 Mi fermai un attimo, disorientato a causa del fiatone e delle lacrime agli occhi che mi offuscavano la vista. Feci altri lunghi respiri, la mano artigliata al petto. Ero finito in un vicolo ceco e grigio. Mi guardai attorno, ma vidi solo un mucchio di erbaccia velenosa per terra, e un'auto d'epoca parcheggiata al lato di una vecchia casa in fondo. Il luogo era quasi deserto.

 Sentii una goccia sul naso; stava iniziando a piovere. Chiusi gli occhi nel tentativo di rilassarmi, ma poi sentii un altro rumore e li spalancai. 'Stai in guardia. Stai tranquillo.' mi dissi.

 Un altro rumore - un fruscio in mezzo all'erba più alta di destra. Mi voltai e indietreggiai. I sassolini scricchiolarono sotto le mie spalle.

 Dovevo andarmene, me lo sentivo. Dovevo allontanarmi immediatamente, ma non sapevo dove. In quel vicolo abbandonato non avevo più via di scampo. Ero bloccato lì, ed avevo un orribile presentimento.

 Poi lo vidi sbucare. Un uomo scuro dall'età poco distinguibile, alto e ben messo si stava avvicinando a me in mezzo alla nebbia fitta. Lo misi a fuoco: la barba nera, la cicatrice sulla guancia, lo sguardo inquietante. Gli occhi verdi e in parte oscurati mi fulminarono. Mi stava fissando. Sì. Mi stava proprio fissando.

 "Salve... " mormorai con un fil di voce sorpresa. La sua faccia non mi piaceva. Non capivo che diavolo volesse da me - mi guardava come si guarda uno scarafaggio da schiacciare il prima possibile, un sopracciglio sollevato.

 "Salve un cazzo." ringhiò con un accento marcato, la voce da fumatore, avanzando verso di me. Capii di essere nei guai quando dietro di lui sbucarono altri due uomini altrettanto grossi, e mi squadrarono dalla testa ai piedi con disgusto.

 Aggrottai la fronte. "Ma chi... chi siete voi?"

 Tutti e tre scoppiarono in una risatina inquietante, scuotendo la testa. "Non fare il finto tonto. Sai? Ti abbiamo visto con quell'altro frocio di merda del tuo 'fratellone', come vi chiamate per coprire le schifezze che fate."

 Smisi di respirare e mi sentii morire. E così loro sapevano. Chi l'aveva detto loro? Chi si era azzardato a fare una cosa del genere?

 Tentai di apparire calmo, ma la voce balbettante mi tradì: "Io... io non capisco di che cosa state parlando... "

 "Oh, dicono tutti così. Sì che capisci... tesoro mio. Cosa provi per lui? Ti sei innamorato, eh?"

 Non osai rispondere. Deglutii.

 L'altro rise, posandosi il palmo sulla fronte ampia. "Non negarlo. Ne sei innamorato alla follia, Jensen Ross Ackles. E credi pure che il signor 'mi faccio qualunque cosa si muova' ti ami davvero? Povero ingenuo. Immagino che lui ti voglia solo scopare."

 "Non parlare così, bastardo!" sbottai, incazzato nero. "Lui non mi desidera in nessun modo. Non mi ama... sono solo io che-"

 "Ma finiscila di difenderlo, anima in pena! È vero che tu sei molto più trasparente, ma... anche Misha è evidentemente attratto da te." sbuffò. "Che orrore... i valori di una volta sono andati a finire nella merda - uomo e donna, questa è la vera famiglia. Degli errori della natura come voi non dovrebbero nemmeno esistere. Già direi che il tuo amico scrittore è sistemato; resti tu per ora." disse crudelmente, un ghigno sulle labbra.

 Avvertii un tremito lungo le ossa, e sbarrai gli occhi.

 "C-cosa? Cosa è successo a Misha?" domandai, tremando, il battito mi aumentava ad ogni parola che quel tizio diceva.

 "Davvero non lo sai?" chiese l'uomo alla sua sinistra.

 "Io non so proprio niente." sibilai, il tono furioso.

 Loro emisero una risata malvagia, e poi l'unico uomo che non aveva mai parlato disse: "È... morto, e la colpa è solo tua. Solo... tua, mio carissimo Jensen." scandì.

 Le gambe mi cedettero, e la vista mi si appannò del tutto, in modo che non riuscii nemmeno più a vederli. Non ci credevo; non volevo crederci. Non era successo sul serio.

 "No no no... non è vero... me lo fate apposta, Misha non... non è morto, lui sta benissimo... me lo state facendo apposta, figli di puttana!" urlai, la voce rotta, coprendomi il capo. Non poteva star accadendo a me.

 "Mi fa quasi pena," malignò falsamente il primo, incrociando le braccia.

 "Beh poco importa, finocchio, se è morto o meno... tanto non avrai nemmeno il tempo di constatarlo... " sibilò uno degli altri due uomini alle sue spalle. Non riuscii a capire chi, un fiume di lacrime mi accecava. Ma compresi di essere spacciato.

 Indietreggiai ancora, e la mia colonna vertebrale si scontrò contro il muro in pietra.

 Mi sentii afferrare per il bavero della giacca e spingere fino a farmi sbattere la testa. Prima che potessi perdere i sensi, qualcuno mi mollò un violento manrovescio che mi fece girare la testa e sanguinare le labbra. Caddi a terra con un tonfo; non riuscivo neppure ad urlare. Le lacrime e le gocce di pioggia si mischiarono col sangue che mi riempiva i lati della bocca. Sentivo quel sapore ferroso e insopportabile, avvertivo i colpi, i calci allo stomaco e alla schiena, sentivo che stavo morendo, ma il dolore peggiore era il pensiero legato a ciò che mi avevano detto su Misha prima di pestarmi.

 "Aiuto!" urlai finalmente al vuoto con la voce strozzata, divincolandomi nel buio, mentre uno di quelli mi teneva fermo e l'altro la cui faccia non distinguevo in mezzo alla nebbia si faceva spazio per assestarmi il colpo finale.

 Quello fu il peggiore; mi fece sussultare il corpo, e mi sentii le ossa a pezzi.

 Chiusi gli occhi bagnati e mi accasciai, smettendo quasi di respirare, il mio corpo inerme tremava per terra. Non urlavo più, non mi lamentavo più, e non gemevo. Ero confuso, dovevo certamente avere qualcosa di rotto. Non capivo né sentivo più nulla - solo i tuoni, il suono sincopato della pioggia, ed i passi ovattati di quei bastardi che si allontanavano. Credevano di avermi finito.

 Per la prima volta in vita mia capii che cos'era il vuoto, il non pensare a nulla a parte il dolore lancinante in ogni parte del mio corpo, il sapore del sangue in bocca, l'odore acre della terra bagnata.

 Poi, come una luce fioca nel buio, delle parole spontanee mi uscirono dalle labbra gonfie, come una preghiera ad un angelo:

 "Misha... torna da me ti prego, torna a prendermi, aiutami. Scusami se non ti ho mai dimostrato quanto ti amo." presi a singhiozzare parlando, "D-Dimmi che non è vero quello che mi hanno detto... che non ti è successo nulla. Dimmi che non ti hanno davvero... io ho bisogno di te per stare bene, solo di te... io... io ho bisogno di-"

 

 

Note dell'autrice:
 Ditemi la verità, quanto mi odiate in questo momento da 1 a 10? ;)

   
 
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