Le insegne scorrevano dinanzi ai miei occhi senza darmi il tempo di leggerle. Ero in piedi e mi lasciavo dondolare da un piede all’altro. Il riflesso di un raggio di luce mi accecò. Distolsi lo sguardo e lo abbassai. Fu un errore.
Rimasi accecato, con lo sguardo chino, per qualche sencondo e quando la vista ritornò a funzionare mi ritrovai a fissare la scollature della signora seduta accanto me, che ero in piedi. La signora si accorse che la stavo osservando troppo insistentemente e resasi conto di quello che stavo facendo, senza che io me ne rendessi conto, iniziò a fissarmi intensamente, come se non desiderava altro che io mi incenerissi. Quando mi accorsi di ciò arrossii così intensamente che potevo sembrare un pomodoro maturo pronto per essere spappolato per farne della salsa. La signora si alzò dal suo posto, mi fissò negli occhi. Mi lanciò uno schiaffo. Uno schiaffo che mi fece tremare tutta la mascella e poi tutto il cranio, infatti mi rimase il segno delle cinque dita per vari giorni. Un idiota. Lo schiocco così forte da sembrare una bomba carta aveva attirato l’attenzione di tutti i passeggeri del tram. Che imbarazzo. Tutti a fissarmi, mentre quella signoria, con aria di una persona più che offesa, si accingeva a scendere alla prossima fermata, tirando nervosa la corda della campanella. Assordante. Le orecchie iniziarono a fischiarmi. Volevo scendere anch’io, con tutti quegli occhi puntati su di me, che nel loro silenzio bisbigliavano tutti i bisbigli che la campanella copriva.
Non scesi a quella fermata, ma alla successiva. Continuai la strada a piedi, sarei arrivato in ritardo, ma ciò non avrebbe fatto differenza, nessuno se ne sarebbe accorto. Mi piaceva passeggiare per le strade di Konoah. Una città così grande dove ti perdi, dove ad ogni passo puoi incontrare qualcosa di nuovo e svoltando l’angolo puoi o mettere il piede su una buccia di banana o su una cacca di cane e se queste cose dovrebbero portare fortuna o sfortuna non sta a me giudicare. Comunque qualunque cosa tu schiacci, sappi che Konoah ha una sorpresa in serbo per te, tante strade da prendere per chi sa su quale incamminarsi. Infatti svoltai l’angolo, ma non schiacciai nulla di quello che mi sarei potuto aspettare. Piuttosto fui io ad essere schiacciato. Ricevetti un pugno in pieno volto. Non ebbi il tempo di pensare proprio nulla. Caddi a terra come un sacco di patate e come un sacco di patate rimasi lì a fissare il vuoto, con le orecchie che fischiavano e una miriade di puntini rossi a danzarmi dinanzi gli occhi. Il dolore arrivò subito dopo, lo sentii arpionarmi dallo zigomo fin nel centro del cranio. «Merda!»bofonchiai al nulla in un vomito indistinguibile di sillabe. Quando mi si schiarì la vista un viso era calato su di me. Ci misi un po’ di tempo a mettere a fuoco quei tratti e ne vedevo muoversi le labbra senza riuscire a capire cosa diceva. Man mano riuscii a distinguere le parole che mi diceva. «Hey!!! Tutto bene???» mi ripeteva convulsamente. Guardai i suoi occhi verdi, nei quali si diramavano vene d’oro per i riflessi della luce, le sue guance arrossate e i capelli rossi che le cadevano sulle tempie e poi ai lati del viso. Rimasi a bocca aperta o perlomeno la spalancai ancor di più. Clorinda era bellissima.
Clorinda.
Per quale motivo era china su di me? Scattai e tirandomi su col busto arretrai. Un’altra fitta allo zigomo e imprecai di nuovo. «Scusami!! Sono mortificata!!!» disse Clorinda tutta rossa in viso, visibilmente dispiaciuta per l’accaduto. «Diamine!!! Perché l’hai fatto?» le urlai con tono scontroso, anzi ci provai, perché quello che uscì dalla mia gola fu uno squittio. Un idiota. Come mi accadeva sempre davanti alla maggior parte delle ragazze feci scena quasi muta, soprattutto essendo la ragazza in questione Clorinda. «Scusami!!! Pensavo fossi quell’idiota di Rinaldo». Mi ritrovai sul viso cinque dita e un occhio nero. Forse poteva andare peggio. Forse meglio. Non importa, perché quel giorno riuscii finalmente a scambiare qualche parola con Clorinda. Lei era la ragazza più popolare del mio anno accademico. Lei era la ragazza migliore del mio anno accademico. Lei era la ragazza perfetta, colei a cui tutti i ragazzi ambivano. Il modello da raggiungere. Tutti l’amavano, lei poteva avere l’attenzione di tutti senza alcuna fatica. Era destinata a diventare qualcuno di importante e potente. Non le ero mai stato così vicino e non avevo mai avuto modo di guardarla negli occhi. I suoi occhi sono quel tipo di occhi che senti essere verdi e splendenti prima ancora di aver visto che sono verdi e splendenti, solo nel sentirli puntati su di te.
Clorinda si era procurata una borsa di ghiaccio da un negozio lì accanto, dopo essermi bendato l’occhio con essa ci incamminammo verso scuola. Saremmo arrivati in ritardo tutti e due. Le stavo parlando della storia delle linee dei tram a Konoha, probabilmente annoiandola a morte, ma era l’unica cosa di cui potevo parlarle con sicurezza. Le raccontai del metodo di alimentazione attraverso il chakra; della distribuzione delle linee per coprire tutto l’abitato; i problemi che dovettero affrontare i progettisti, quando la tecnologia di Konoha era nettamente inferiore, anche se riuscirono a trovare soluzioni ancora oggi valide; tutta una serie di dati su peso, velocità e consumi dei tram; insomma roba da cervelloni e di cui una persona qualunque non si interesserebbe. Le stavo parlando. Colsi l’occasione e le feci una battuta, volevo vederla sorridere. Scoppiò a ridere, come desideravo. Mi girai per guardarla, ed era proprio meravigliosa: quel sorriso di calda neve, la neve molle della primavera che si lascia andare per confluire come acqua nei torrenti delle sue fossette, ai lati delle labbra. Dimenticai per quale motivo fino a quel momento ero stato così infelice. Dimenticai che stavo camminando. Inciampai in qualcosa e cadendo in avanti cercai di aggrapparmi a qualunque cosa potessi raggiungere con le braccia. Fu un errore. Afferrai la manica del vestito di Clorinda. Lo strappai lasciandola senza una manica del vestito. Non caddi, ma fu una sfortuna anche quella. Infatti mi ritrovai non solo con una manica, ma con gran parte della casacca che indossava. Fu colta di sorpresa anche lei. In un primo momento non si rese conto di quello che era successo e con ancora briciole di sorriso sulle labbra fissava ciò che stringevo tra le mani. Poi si coprì il petto con le mani e iniziò a imprecarmi contro insulti che non credevo esistere. Grazie alla mia bravata l'avevo lasciata praicamente solo con il reggiseno e in mezzo alla strada. Per fortuna nessuno si accorse dell'accaduto.Volevo rimediare. Un idiota. Mi sfilai la mia casacca e gliela diedi, sperando che fosse della taglia giusta. Si girò dall'altra parte, sfilò la casacca strappata, o perlomeno ciò che ne rimaneva, lasciando tutta la sua schiena scoperta. Aveva molti più muscoli di me, ciò forse spiegava il fatto che mi stracciasse in tutto quello che riguardava l'esercizio fisico. «Sono desolato!!!»le dissi quando si voltò. Vide la preoccupazione nei miei occhi e rimase lì, seria, per un momento. Poi scoppiò a ridere. Risi anch'io. «Ora siamo pari!!!» distinsi tra le sue risa. «Ma non farlo mai più!!!». Non riuscii a capire se fosse seria o no, sta di fatto che quelle parole erano di velata minaccia.
Finalmente, anzi purtroppo arrivammo all'accademia. Era il luogo che più odiavo e ancora una volta avrebbe rappresentato, nei miei ricordi, la fine di qualcosa che valeva la pena vivere. Arrivati all'entrata Clorinda mi squadrò, mi chiese scusa e infine mi salutò. La osservai fino a che non scomparve al di là della svolta del corridoio principale. Rimasi lì a fissare il vuoto. Mi squadrai nel mio riflesso su un vetro: con cinque dita tatuate sulla mia guancia e un occhio nero, il nero brillante e misterioso del mio umore, nella consapevolezza che da quel giorno non sarei più stato lo stesso...