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Autore: Kat Logan    13/05/2016    3 recensioni
Paradiso e Inferno; è ciò che si ritroveranno ad affrontare i protagonisti di Stockholm Syndrome in questa nuova avventura.
Hanno amato, realizzato i propri sogni, hanno accarezzato il paradiso nella pacifica Osaka ed ora devono ristabilire l'equilibrio; troppa gioia tutta in una volta è da pagare.
Per uno Yakuza la cosa più importante è l'onore, così, Akira e Haruka seguiranno le proprie tradizioni.
---
"Ovunque andrò, sarai con me. E avrei voluto dirlo in modo diverso, in un’occasione differente…magari al lume di candela, su un tetto, sotto alla luna, al nostro terzo matrimonio. Ma sai, un momento giusto non c’è mai. Quello giusto è quando lo senti, ovunque tu sia..quindi…lo dico adesso, forte come non l’ho mai sentito prima d’ora. Ti amo e questo non cambierà, non è cambiato nemmeno nel momento in cui non mi sono più riconosciuta".
[Sequel di Stockholm Syndrome].
Genere: Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai | Personaggi: Haruka/Heles, Michiru/Milena | Coppie: Haruka/Michiru
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Nessuna serie
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- Questa storia fa parte della serie 'Mondo Yakuza'
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Kissing The Dragon
Capitolo 5
Love is jealous. Love is selfish. Love is helpless. Love is blind
 

 
 
I don’t want to see you go
Only want to see you smile
It hurts so much just thinking of
Felt like this for awhile
I can’t stand to see you there
We cried we lied
Cannot pretend to change the fact
That what we had could make us feel alive again
Hold me close, don’t let me go, I hope
Tell me that now is not the end
 
(Someone Else – Miley Cyrus)
 
 
Le prime luci dell’alba si riflettevano violacee nelle perle scure di Rei intente a scrutare le poche persone in giro a quell’ora.
Kabukichō era immersa in una calma irreale, pareva quasi una città fantasma incastonata nella tela del ragno nipponico che non dorme mai e passa il tempo a tessere intrighi, sogni, desideri e disavventure per tutte le esistenze che si annidavano negli angoli più oscuri di quella città.
In contrasto con quella pace c’era lei. Rei che sentiva le fiamme ardere dentro e la bocca dello stomaco ridursi in cenere.
All’accademia non lo insegnavano. Non dicevano che la gelosia può ammazzare le persone quanto una revolver, un coltello o una bomba da disinnescare. Eppure la sentiva. Scalpitava dentro di lei come a volerla mangiare viva.
Rabbrividì per l’aria fredda e si passò i palmi sugli avambracci per stringersi nel cardigan bordò, indossato nella fretta sopra la maglia del pigiama, di cotone spesso.
Quanto ci mette? Impazienti i pensieri ponevano domande mentre l’attenzione non azzardava a dare la buona notte ai neuroni nonostante non avesse chiuso occhio.
Se poteva stare sveglia Setsuna per più notti dietro fila anche lei ne sarebbe stata certamente capace.
La morettina si morse il labbro inferiore. Il viso dai lineamenti morbidi per la giovane età e l’assenza di trucco le donavano un’aria quasi ingenua. In un posto del genere, a tarda notte, gli uomini alticci o in cerca di piacere sarebbero andati matti per un bocconcino del genere.
Scalciò un sassolino fermo dinnanzi alla punta della sua scarpa quando la porta del locale si aprì con un cigolio e due ragazze uscirono strette nei loro cappotti e con la borsa sottobraccio.
Erano le 6.30 e la persona che cercava finalmente era dinnanzi a lei.
Respirò a fondo, la mano destra dietro la schiena era poggiata all’impugnatura della pistola nel retro della cintura.
Compì venti passi seguendo la giovane, che sussurrava qualcosa per tenersi sveglia o forse canticchiava, avanzando per la propria strada al fianco della collega.
Mimì si arrestò. Salutò frettolosamente l’amica e dopo un paio di falcate ebbe la sensazione di essere osservata. Non fece in tempo a voltarsi che Rei le piombò addosso come un avvoltoio sulla carogna che osservava da tempo e l’afferrò per un braccio senza troppi complimenti.
“Cammina”. Le ordinò Rei, senza un filo d’incertezza nella voce, con la canna della pistola puntata ora sul fianco di Mimì che ubbidì senza opporre resistenza e venne letteralmente trascinata in un vicolo del quartiere.
Un gatto scappò spaventato al loro arrivo e il lampione si spense con tutta la fila di gemelli che davano sulla strada.
Mimì sentiva solo due cose: il fiato caldo di Rei sul collo e il freddo dell’arma che ora puntava al suo sterno.
“Che vuoi da me?!” Domandò in preda all’agitazione gettando un’occhiata alla strada principale.
“Le domande le faccio io”.
“Ok…ma fai in fretta”.
“Hai pure fretta in una situazione del genere?!”. Rei non sapeva se essere scioccata da quella reazione o lasciare scoppiare del tutto l’ira che le sbatteva nel petto tra un battito e l’altro.
“Sono sicura mi abbiano beccato. Me la voglio filare”.
“Non m’interessano i tuoi problemi”. Rei la spinse ancor più aderente al muro di mattoni che si trovava alle spalle della giovane. Quel comportamento da pazza assassina faceva a botte con la sua immagine ma a Rei non importava nient’altro che la verità.
“T’interesseranno se ci beccano, voglio andarmene!”.
“Setsuna”.
“Cosa?!”. Mimì boccheggiò a sentir quel nome.
“Cosa ci hai fatto con Setsuna?!”. La voce di Rei esplose e dovette implorare qualche santo per non farle togliere la sicura dall’arma che impugnava.
“Sei un’adepta della regina rossa?”.
“Non so di cosa tu stia parlando”.
Mimì cercò di divincolarsi e nel tentativo la borsa le cadde a terra facendo rotolare fuori un rossetto, il portafoglio e una parrucca viola.
“Vi ho viste, voglio sapere cosa c’è tra voi…”.
“Niente io-io…”.
“Ah, adesso non usi più le movenze da gattina e la voce suadente. Ti ho detto che vi ho viste ieri sera e anche le due volte precedenti”.
“Non so chi tu sia ma-”.
Rei sbottò e presa dall’isterismo e quello stato confusionale le diede un ceffone. La mano dopo il gesto avventato le tremò e dovette mollare la presa allontanandosi di mezzo passo per non rischiare di fare qualcosa di molto peggiore.
Mimì con gli occhi lucidi puntò lo sguardo nel suo. Era stata presa a botte molto più forte a stare in mezzo agli Yakuza. Se per un momento parve in procinto di piangere il suo tono di voce non fu sottoposto a tremori o incertezze.
“Sono solo un’informatrice. E riferire notizie o indizi è tutto ciò che ho fatto con l’agente Meiō”.
Rei esterrefatta non riuscì a proferire alcun suono. Avrebbe voluto chiederle scusa ma era troppo presa a sprofondare nella vergogna per riuscirci.
Un peso enorme sembrò averle abbandonato il petto. Si accorse di poter finalmente respirare e che i nodi in gola che glielo impedivano si erano sciolti nel momento in cui l’altra le aveva detto di non aver toccato la persona che amava.
“Devo filarmela. Ci si mette solo nei guai con voi poliziotti intorno…”. Mimì si chinò frettolosamente per raccogliere la propria roba. Ne vedeva di tutti i colori e non si sarebbe fatta certo destabilizzare da quella scenata o per il ceffone preso.
Era giovane ma aveva grinta e sapeva come affrontare la vita anche nelle sue sfumature peggiori.
“Fammi una cortesia…”.
Rei le dedicò tutta la sua attenzione mettendo nuovamente al suo posto la pistola.
“Dì all’agente Meiō che non mi troverà per qualche tempo qui. Credo mi abbiano beccata”.
“Chi?” riuscì a chiedere Rei ritrovando la voce.
“Il clan di Osaka. La regina rossa”.
“Chi è la regina rossa? Io non capisco”.
“Tu no. Ma lei capirà di certo”.
“Senti…”.
“Non posso devo andare”.
Mimì senza temporeggiare abbandonò il vicolo umido e sporco per tornare frettolosa sulla via di casa per raccogliere le sue cose e sparire per qualche tempo. Aveva sentito dei bisbigli al locale e due tipi dalla faccia poco raccomandabile e il corpo marchiato dall’inchiostro per tatuaggi l’avevano guardata più che con desiderio come qualcuno che si vuole far sparire dalla faccia della terra. Era facile far di una persona il nulla, solo uno stupido avrebbe negato quella terribile verità.
 


 
*** 
 

Setsuna era tornata alla centrale. Nel suo ufficio il led intermittente impediva alle palpebre pesanti di chiudersi dalla stanchezza. Ed eccola lì, la sua classica emicrania da stress pronta ad attanagliarle i neuroni per farla impazzire come si deve.
“Prima o poi finirò in manicomio” disse in uno sbadiglio, agguantando quasi con foga la tazza di caffè nero fumante.
Bevve assaporando il liquido amaro sulla lingua e poi si prese un momento per mettere a tacere ogni cosa, rumore o elemento che rimandasse la mente a qualche caso. Rischiò di addormentarsi così facendo ma il bussare alla porta la riportò vigile.
“Avanti”.
“Notizie dalla scientifica” disse un ragazzo in divisa porgendole un plico di fogli pieni di tabelle ed elementi utili più ad uno scienziato che a una persona comune.
Setsuna prese a sfogliare le informazioni appena ricevute e il sottoposto snocciolò il necessario per chiarificare la situazione.
“L’ultima vittima, lo yakuza nel retro del locale è stato avvelenato. Hanno trovato i residui di Ricina sul fondo del bicchiere e anche nel suo stomaco”.
“Non proviene dai semi di una pianta?”.
Il ragazzo tentennò dondolandosi nervoso sui talloni come in presenza di un professore ad un esame a cui si è studiato in modo poco approfondito e non si sa rispondere nel dettaglio.
“Verificalo. E se è così cerchiamo se ci sono dei rivenditori di questa pianta, se è coltivabile, se ci sono zone qui a Tokyo dove cresce…insomma facciamo le ricerche del caso. Chiaro?”.
“Si, sissignora”.
“Bene”.
Il ragazzo deglutì rimanendo nella sua posizione tra la soglia e la zona esterna del corridoio.
“C’è altro?”.
“Si, riguarda la prima vittima. Lo yakuza impiccato”.
Gli occhi di Setsuna si ridussero a due fessure di modo da far sbottonare al più presto il ragazzo, raccogliere più indizi possibile e rifletterci possibilmente su una brandina o un letto.
“Sotto al suo tatuaggio, in una zona poco visibile, hanno trovato una parte di disegno che pare essere stata aggiunta recentemente. Si tratta di una piccola corona rossa, il tatuaggio è recente poiché il tessuto non è cicatrizzato a dovere e…”.
“Una corona rossa…perciò la regina rossa non ha intenzione di far passare gli omicidi per suicidi. Lascia una firma…è una provocazione la sua”.
“Ottima deduzione signora!”.
“Si…” Setsuna lasciò cadere la conversazione cercando di smorzare l’entusiasmo che aveva invaso il corpo del giovane ormai su di giri.
Le nuove leve spesso si facevano l’illusione che con la pista giusta si risolvesse tutto in un battibaleno mentre alle volte anche gli indizi più certi portavano a vicoli ciechi.
La donna prese il proprio cappotto e v’infilò il braccio destro per poi rimanere a mezzo del sinistro con la manica.
“Ancora qui?”.
“No, signora! Sono sparito signora! Vado a fare il mio dovere signo-!”.
“VAI!” alzò la voce Setsuna per poi sorridere tra sé e sé non appena la figura dell’altra svanì dalla sua vista.
 
 

 
*** 
 
 
 
Akira e Haruka attraversarono il giardino camminando a spalle diritte lungo il ciottolato e gli arbusti ben potati, sfilando sotto agli occhi vigili di quattro Yakuza armati fino ai denti.
Gli addetti alla sicurezza di quella che ora era la tenuta del loro Oyabun parvero tanto impassibili da far in modo che le loro ciglia non battessero al passaggio della bionda a capo del loro clan. Avrebbero lasciato le risate sguaiate e i modi di fare poco ortodossi al momento nel quale il loro capo si fosse ritirato.
Akira osservò con la coda dell’occhio la canna di bambù, presente nella fontana zen, riempirsi d’acqua per poi battere un sonoro “cloc” che segnò il loro attraversare l’ampio engawa[1] dell’abitazione in stile tradizionale giapponese.
Una casa del genere non se la sarebbero potuti permettere forse nemmeno mettendo assieme i propri risparmi, ma quel posto ora era passato di diritto ad Haruka essendo di proprietà – da intere generazioni – dell’Oyabun del loro clan.
Akira non ebbe bisogno d’inchinare il capo dinnanzi ai quattro e con portamento da samurai richiuse alle proprie spalle le shoji atte a dividere lo spazio esterno da quell’interno.
Attese che le sagome oltre i pannelli svanissero - per allontanarsi e riprendere il loro da fare – prima di farsi scappare un sonoro e lungo respiro.
«Puoi ridare aria ai polmoni Akira. Sei troppo rigido, cazzo!».
Haruka non parve minimamente preoccupata per la situazione né tanto meno per il tono di voce alto e irriverente appena usato.
«Sei tu ad essere troppo a tuo agio. Mi sento un traditore fatto e finito, ma che dico…per forza mi ci sento. LO SIAMO!».
«E ti dispiaci di questo?».
«Non è che mi facciano pena o altro è solo che…sai meglio di me in che modo atroce finirà tutto questo se scoprono che-».
«Non scopriranno un bel niente. Sono allo sbando, una marmaglia indisciplinata di assassini e truffatori che seguono cieca obbedienza indovina a chi?! Alla sottoscritta!».
«Ti stai facendo prendere la mano, Haru…».
Haruka aggrottò le sopracciglia con fare interdetto; lasciò cadere il discorso nell’oblio sedendosi sullo zabuton che copriva la porzione di tatami tra lo zataku laccato e l’altro cuscino nero.
Si guardò attorno incuriosita. La stanza era elegantemente arredata ma rispettava i canoni minimali dello stile buddhista. Non aveva mai creduto che persino la feccia potesse circondarsi di simili posti.
«Lo hai già detto a Michiru?».
«Che collaboro con la polizia?» domandò disinteressata al moro.
«No, di tutto questo».
«No».
«E quando avresti intenzione di farlo?!».
«Precisamente adesso».
Akira sentì un vociare all’esterno e la risata argentina di Minako che era stata ben abituata a vedere e a trattare con tizi del genere, visto dove avevano vissuto in passato Akira e Haruka. Di certo aveva fatto la graziosa con qualcuno dei bruti che aveva tentato di fermarla all’ingresso e dopo due parole era riuscita ad avere il via libero. Se era chiaro che lei per amore potesse adattarsi ad ogni condizione, Akira, per quanto nutrisse buona fiducia nei sentimenti di Michiru pensava che forse lei non sarebbe riuscita a fare lo stesso. E non perché non amasse abbastanza Haruka, ma solamente perché aveva la morale più salda di tutti quelli messi assieme lì dentro.
«Ancora un passo Michiru, sempre dritto». Minako la stava istruendo tenendo una mano sul nodo della benda che copriva gli occhi dell’altra ragazza.
«Sembra un rapimento questo, lo sai?».
Minako rise ancora ma Akira prese a sudare freddo.
Il disappunto di una donna poteva rivelarsi molto più pericoloso di un covo di malviventi senza scrupoli.
«Sei sicura Haruka?» domandò incerto alla bionda che pareva del tutto rilassata.
«Le ho chiesto di sposarmi, direi che non posso fare altro».
Le shoji sibilarono sino a spalancarsi. I quattro guardiani osservarono incuriositi la scena domandosi se i due bocconcini fossero entrambi per il proprio capo o se gli avrebbe divisi col suo scagnozzo più stretto.
«Gradino» indicò sorridente Minako per poi salutare con un cenno il proprio ragazzo e l’amica.
Akira perentorio chiuse di nuovo i pannelli per avere la privacy di cui era giusto godessero tutti e quattro.
«Tadaaaannn!!» esclamò Minako. «Puoi toglierti tutto. Cioè la benda! Puoi guardare insomma» il tono eccitato aveva contagiato anche Michiru che morsa da curiosità si fece scivolare la stoffa dagli occhi al collo senza nemmeno slegarla.
«Oh mio Dio» rimase senza fiato.
Aveva sempre desiderato abitare in un posto del genere e mai avrebbe creduto che Haruka avesse potuto rinunciare al suo gusto moderno e al centro città, per vivere in un posto che era il frutto di tradizioni secolari e distava qualche chilometro dal caos infernale di Tokyo.
«Possiamo sul serio stare in un posto così?» chiese con voce incredula e rotta dall’emozione, mentre compiva una mezza piroetta per guardarsi attorno e bearsi della bellezza di quella tipologia di architettura.
«Ti piace?» incalzò la bionda.
«È semplicemente magnifico…ma com’è possibile? Nel giro di due giorni ho ricevuto una proposta di matrimonio ed ora un abitazione del genere, devo davvero aver vinto alla lotteria!».
«Lo sai che sono una donna piena di sorprese!» disse tronfia la bionda.
«Ma siete sicuri che possiamo permetterci questo posto?».
«Certo che sì. È nostro di diritto!».
Michiru parve leggermente confusa e Akira accorse in suo aiuto, anche se non era certo che la verità potesse portare a un buon fine in quel caso.
«Del clan, intende. È che…».
I capelli acquamarina lasciarono una fragranza morbida di fiore di loto nell’ondeggiare repentinamente nell’aria.
Michiru aveva aperto le porte per affacciarsi sul giardino e capì immediatamente nello scorgere le figure degli uomini al di fuori della stanza.
«State scherzando, vero?».
Akira si affrettò. «Lavora con la polizia, non è come sembra…».
«Siete di nuovo nel clan?!» adesso la voce di Michiru non aveva più la dolcezza dello scrociare lento di Osaka, aveva assunto una punta stridula quasi fastidiosa per quanto riusciva ad essere alta.
«Solo perché dall’interno è meglio» riprese Haruka a parlare.
«Già, Haruka farà chiudere ogni singolo clan da qui. Insospettabile. Nessun Oyabun tradirebbe altre organizzazioni per quanto rivali».
«E poi tu sarai sicura qui più che in ogni altro posto del pianeta» cercò di convincerla Haruka.
Lei e Akira si intervallavano come una pallina da tennis che rimbalza da una parte all’altra.
«Le mogli degli Oyabun sono intoccabili. Se capissero che Haruka è un mezzo sbirro allora colpirebbero te per prima per poi arrivare a lei!» spiegò definitivamente Minako, per dare un tono più convincente alle spiegazioni precedenti degli altri due compari.
A Michiru ogni frase sembrò di più una coltellata nel petto che una tesi ben esplicata. Le si poteva leggere in viso lo shock, di ciò che aveva vissuto poco tempo addietro, per vederlo riaffiorare nel suo sguardo e nel suo schiudersi impercettibile di labbra simile a quello di un pesce rosso.
Cercava aria e con l’ossigeno cercava anche una motivazione per non dar retta ad ogni impulso del proprio corpo che le gridava a gran voce di fuggire anziché temporeggiare.
«Non posso crederci…» furono le prime parole che riuscì a sillabare.
«Non posso pensare che tu l’abbia fatto sul serio, Haruka».
Lo sguardo cobalto e limpido di Haruka parve incrinarsi.
«Pensavo te ne fossi davvero liberata di tutta questa feccia. Come hai potuto farmici ripiombare dentro dopo tutto quello che abbiamo passato?».
Michiru trattenne le lacrime e ora quella ferita a morte non ci fu ombra di dubbio fosse la bionda.
«Sono feccia anche io, non è forse così?» un sorriso amaro le si tirò in volto.
Michiru era troppo sconvolta per rispondere e Haruka aveva scelto la difensiva per non subire un danno ancor peggiore di quello che l’era appena stato inflitto.
Perché ogni sillaba della donna che amava valeva più di mille maledizioni dette da chiunque. Bastava essere la sua delusione per venire definitivamente distrutta.
 
 
*** 
 
 
«Niente più uccellini cinguettanti per la polizia» la regina rossa aveva pronunciato una sentenza di morte e la sua falce gravava sulla testa dell’informatrice di Setsuna.
Nessuno poteva sapere che un paio di yakuza armati sino ai denti si muovevano nell’ombra di vicoli nascosti nella città tentacolare per rintracciare Mimì e metterla a tacere. Nessuno dai grandi piani ha voglia che un misero e insignificante essere umano si frapponga fra lui e la sua scalata al potere.
La regina rossa, la bella Eudial, poteva permettersi di rimanersene seduta a comandare una società di malviventi con un solo schiocco di dita, poiché ogni singolo uomo al suo cospetto era cosciente di ciò di cui fosse capace se contraddetta.
Data in sposa ad un uomo più grande di lei, a capo del clan di Osaka, Eudial aveva ben presto sovvertito le regole della casata. Una giovane donna come lei non era adatta a far la madre di famiglia, né tanto meno sarebbe riuscita a rientrare nel ruolo della silenziosa e accondiscendente moglie repressa di un vecchio bavoso dalla mano lunga che pretendeva di aver la meglio su di lei.
Eudial aveva conosciuto la strada e sapeva benissimo come difendersi. Lui non l’avrebbe mai toccata senza il suo consenso e lo aveva ben dimostrato appendendone il corpo inerme alla porta della propria dimora.
«Fu così l’ascesa a capo del clan» mormorò l’uomo tatuato più anziano alla giovane new entry della sua ikka.
«Con la regina rossa non c’è da scherzare. Potrebbe amputarci a tutti il mignolo e farci lo scalpo in contemporanea». Benché i veterani si prendessero gioco delle nuove reclute l’uomo non stava alimentando di molto quella che sarebbe diventata leggenda per il clan di Osaka, al contrario stava mettendo in guardia il giovane che accanto a sé con la camminata da bulletto irriverente e una pistola nascosta sotto la giacchetta di jeans.
Un compare del primo, abile e arruolato nel suo mestiere intimò l’uomo a tacere.
«Basta stronzate. Anziché scoraggiare il pivello, facciamo quello che va fatto».
 
 
***
 

Rei, dopo una mattinata in giro a sbollire si era diretta in centrale incurante dell’abbigliamento poco consono.
Doveva parlare con Setsuna e chiarire una volta per tutte, questa volta scusandosi per le sottili accuse lanciate nei suoi confronti e per aver dubitato di lei.
Aveva pensato a lungo se farsi perdonare con un regalo, ma Setsuna non era il tipo da badare a certe smancerie. Rei tollerava a stento il gusto “giurassico”, come le piaceva definirlo, della fidanzata per tanto non avrebbe contribuito a coltivare quella sua insana abitudine.
Scusarsi a cuore aperto sarebbe stato più che sufficiente.
Ma quando Rei si diresse, senza bussare, nell’ufficio della donna non vi trovò anima viva.
Rimase sbigottita, con la mano a mezz’aria e gli occhi che vagavano per l’intera stanza.
«Ehi, tu» fermò bruscamente il giovane che aveva portato i risultati delle autopsie a Setsuna qualche ora addietro per interrogarlo quasi fosse un criminale.
«Che succede qui?» inquisì.
«In che senso?» domandò ingenuo l’altro.
«Dico, ti sembra normale?».
«Che cosa?».
«Diavolo, sul serio non noti nulla di strano?».
«Ehm…».
«Sets- L’agente Meiō non è in ufficio!» lo ragguagliò con fare grave. «Verrà a nevicare…» aggiunse, mollando la presa dalla camicia del ragazzo.
«Credo sia andata a riposare. Pareva stanca, non stacca mai».
«Oh lo so bene» commentò la morettina alzando gli occhi al cielo.
Il ragazzo tentennò un momento poi prese coraggio e parlo lui per primo.
«Ora andrà da lei? Perché…ho trovato quello che mi aveva chiesto».
Rei portò le mani ai fianchi e nascondendo la curiosità sotto un’espressione di superiorità non perse tempo a domandare «Sentiamo, cosa ti avrebbe chiesto di cercare?».
«Ho trovato la pianta che cercava. Il ricino. In città lo vende solo un vivaio e in periferia un uomo possiede una cultura. In più…».
Lo sguardo di Rei sembrò trapassarlo da parte a parte.
«In più poco fuori città credo sia presente anche nel giardino sul retro di un’abitazione».
«Sei un botanico?»
«No».
«Come fai allora a sapere si tratta proprio di questa pianta?».
«Perché…».
«Lascia stare, non ho tempo adesso. Ci penso io. Glielo faccio sapere».
Rei si dileguò dalla vista del ragazzo. Uscì dalla centrale a passo svelto e digitò sul cellulare il numero di Setsuna.
Il telefono dava libero. Rei immagino la colonna sonora di X-files risuonare per tutta la stanza. Lei non rispondeva mai al primo squillo, le piaceva godersi quella antiquatissima musichetta, o per lo meno quando non si trattava di lavoro.
Rei sospirò e si sentì sollevata nel sentire la sua voce assonnata rispondere all’altro capo.
«Hey».
«Dormivo. Profondamente come non facevo da…».
«Da troppo lo so».
Rei accelerò il passo. Aveva voglia di vederla e il suo battito si fece ancor più frenetico all’interno del suo petto.
«Senti, mi dispiace».
«Per cosa?».
«Di aver fatto la stronza».
Setsuna tacque. Rispettosa attese il resto anche se non provava alcun rancore verso l’altra.
«Pensavo te la facessi con una puttana».
«Rei!».
«Che c’è?! E’ perché ho detto puttana?».
«Si. Cioè, non solo…insomma, ti sembro una che va a prostitute?».
«In effetti, no. Sei troppo pudica».
«Okay, dov’è il resto delle scuse?». Si era imbarazzata, l’aveva capito dal tono di voce e non poteva fare a meno di immaginarla con la faccia sconvolta e il viso leggermente rosso. Sicuramente aveva scostato lo sguardo come se lei fosse stata lì a guardarla.
«Ho parlato con Mimì e ho chiarito tutto…».
«Spero tu sia stata gentile…».
«Non proprio ma ehy, tutto a posto. Senti il tuo…come si chiama il ragazzino? Vabbé, quello che vorrebbe far carriera ma è troppo timido ti ha trovato tre posti dove coltivano una certa cosa».
Setsuna sembrò svegliarsi all’improvviso.
«IL RICINO!».
«Si, ehy. Quanto entusiasmo. Per le mie scuse non hai avuto la stessa reazione! Comunque, si quello. E poi, Mimì ha detto che non si farà viva perché secondo lei è stata beccata…».
«Cosa?!». Setsuna doveva aver sbattuto da qualche parte. Probabilmente si era alzata al buio e nella fretta aveva urtato il comodino soffocando un’imprecazione.
«Ascolta Rei, vado da lei. Chiamo Ten’ō. Tu vai dove coltivano il ricino. Ci aggiorniamo più tardi».
«Ma io…».
«Ti prego ascoltami, solo per questa volta fai come ti dico».
Rei sbuffò indispettita.
«Ci vediamo più tardi, ti amo». La linea cadde.
Il più tardi di Setsuna per lei era davvero troppo da dover attendere perciò fece di testa sua, come al solito. Si sarebbe unita all’allegro duo. Una pianta avrebbe potuto di certo aspettare qualche ora in più, la sua smania no.
Haruka, suo malgrado, era scattata in piedi non appena ricevuta la chiamata di Setsuna.
Si era infilata una felpa e aveva calato il cappuccio sulla testa dorata spalancando con un sonoro fruscio le shoji della sua nuova abitazione. Indossò le sue adidas bianche allacciandole alla bene e meglio con un nodo che lasciava parecchio a desiderare, per essere giapponese con la precisione non era un gran che.
Gli uomini a sentinella del cortile spensero malamente le sigarette in un posacenere di fortuna rizzandosi sull’attenti.
«Dove si va, capo?».
Lo sguardo cobalto di Haruka si piantò freddo nei loro occhi cupi, dovevano avere l’anima più scura di qualunque palude sulla faccia della terra.
«Da nessuna parte. Ho un affare da sbrigare. Voi prendetevi una pausa. Fate a cambio con chi di dovere e dite ad Akira di gestire gli affari che abbiamo qui a Tokyo».
Sperò di essere stata abbastanza convincente ma non se ne preoccupò troppo visto che la sua parola ora era legge.
Declinò ancora una volta l’offerta di avere una scorta discreta alle sue spalle e lasciò la casa con espressione scura in viso.
Non aveva ancora chiarito con Michiru, i toni accesi bruciavano ancora come acido sulla sua pelle sotto allo strato morbido dei vestiti.
Haruka salì in macchina e nell’ ombra del crepuscolo tirò fuori da sotto il sedile una scatola di proiettili.
Caricò il tamburo, inserì la sicura e piede sull’acceleratore sfrecciò verso quella che la poliziotta aveva detto essere l’abitazione di Mimì.
 
Abbandonò nelle vicinanze l’auto per dare meno dell’occhio e si ritrovò dietro l’angolo Setsuna.
«Ce ne hai messo di tempo».
«Sono sotto stretta sorveglianza, ho una marmaglia di leccaculo pronti a seguirmi quindi non accetto prediche».
«Bella mossa Ten’ō. Ora però dobbiamo fare in fretta».
Le due presero a camminare a passo svelto ma disinvolto verso il portone del vecchio palazzo.
Setsuna, in borghese, suonò il campanello ma nessuno dall’interno rispose.
Ad Haruka sudarono le mani. Si guardò intorno circospetta e poi le sussurrò un «scassiniamo sto portone del cavolo».
«Basta suonare a qualcun altro».
«Oh si e diciamo “polizia apra” così se c’è un palo ci spara addosso».
Setsuna sospirò pesantemente cercando di mantenere la calma e prima che potesse ribattere un uomo anziano e tremolante aprì il portone per uscire a vuotare l’immondizia.
Le due s’intrufolarono nel varco creato dall’uomo per attraversare la soglia e ringraziarono frettolosamente.
Salirono le scale con la mano a portata di pistola e ad ogni pianerottolo poggiarono le spalle al muro prima di proseguire.
«Abbiamo ancora sei piani. Mettiti pure tu un caz-».
«Ssht zitta maledizione!» Setsuna stroncò il consiglio della bionda udendo dei passi in loro direzione.
«Muoviti. Sali, cammina normale!». La più grande precedette Haruka e alla rampa successiva incrociò tre uomini e una ragazza minuta che ben riconobbe senza parrucca.
Deglutì.
Il più giovane dei tre prese contro la spalla di Haruka che camminava a testa bassa nascosta nella felpa troppo grande.
«Ehy, sta più attento».
Uno degli yakuza spintonò Mimì e la poliziotta estrasse l’arma urlando «POLIZIA, lasciate la ragazza!».
Haruka reagì di conseguenza ma i tre, messi in allarme da quella dichiarazione presero a scendere con più fretta.
Le due donne si lanciarono al loro inseguimento, Mimì cercò di ribellarsi ma uno dei tre le piegò il braccio dietro la schiena e la schiantò contro il proprio petto. La canna lucida e fredda si posò sulla sua tempia destra e lei s’immobilizzo con la vita che le scorreva davanti gli occhi lucidi.
«Ammazziamo la ragazza».
Setsuna e Haruka non demorsero, braccia ben distese e armi puntate verso i malviventi.
«Lasciatela andare» scandì nuovamente l’agente.
«Non è il tuo gioco, donna» la intimò uno degli uomini. «Giù le armi, perché la facciamo fuori, non stiamo scherzando».
Haruka imprecò tra i denti, sapeva non si sarebbero fatti scrupoli a loro interessava solo portare a termine quello che era stato richiesto.
Setsuna si chinò, posò al pavimento l’arma e rimase con le mani vuote in vista e lo stesso fece la bionda mossa da un profondo disappunto.
Mimì la riconobbe, glielo lesse nello sguardo. Ma tacque. I ranghi della yakuza erano così vasti che non tutti i membri potevano conoscersi.
Il più giovane dei tre individui, mentre gli altri due le tenevano sotto tiro, prese le pistole per poi tornare al proprio posto in direzione dell’uscita.
«Tre minuti di vantaggio» scandì Haruka, «poi veniamo a prendervi».
Gli uomini risero sguaiatamente, ma approfittarono del proprio vantaggio.
 
 
«Andiamo!» Haruka barò scattando allo sbattere del portone. Non avevano tre minuti da attendere, soprattutto essendo disarmate.
«Li avremo già persi».
«Io non avevo voglia di morire oggi!» replicò la bionda scendendo le scale due a due.
Una volta in strada li videro salire in auto e mettere in moto sgasando.
«MERDA!» Haruka si morse il labbro, buttò frustrata il cappuccio sulle spalle ma qualcuno arrivò sgommando proprio davanti ai suoi piedi.
«Salite!» Rei aprì la portiera davanti e spinse l’acceleratore ancor prima che le altre due potessero richiudere l’abitacolo.
«Sicura di saper guidare e tenergli dietro?» domandò irriverente Haruka dal sedile posteriore.
Rei ignorò la provocazione e indicò alle due dove trovare altre due pistole cariche.
Setsuna attaccò la sirena per farsi largo più velocemente tra gli automobilisti e incitò la fidanzata a non perderli di vista.
«Non mi ascolti mai» le disse abbassando il finestrino.
«Se l’avessi fatto non sarei arrivata al momento giusto, non ti pare?».
La più grande le sorrise e Rei ricambiò, mentre dallo specchietto retrovisore Haruka mimò il gesto del vomito.
«Dobbiamo portarcela sul serio?».
«Ebbene sì».
Gli yakuza imboccarono una strada meno trafficata che dalla periferia avrebbe portato a fuori città.
Setsuna si sporse cercando di mirare alle ruote ma gli altri risposero al fuoco ancor prima che potesse prendere la mira.
La donna rientrò perentoria nell’abitacolo. Rei chinò appena la testa dietro al volante sentendo il colpo riecheggiare nell’aria e Haruka da dietro il sedile sbloccò la sicura.
«Faccio io…».
«Sei fuori mano» commentarono all’unisono le due.
«Affiancali. Dio, non avete imparato nulla da quella volta alle corse?».
La lancetta della velocità schizzò verso l’alto e le due passeggere si ritrovarono spinte letteralmente contro al sellino.
«Ora si comincia a ragionare…» commentò preparandosi a colpire.
Il cofano si avvicinò pericolosamente a quello degli inseguiti.
«Sul marciapiede» le indicò Setsuna aggrappandosi con una mano al cruscotto.
«Non è il momento per il mal d’auto» intervenne la bionda.
«Non sai evitare le battute, vero?».
«È per sciogliere la tensione!».
 
Rei sterzò a tutta velocità, l’auto sobbalzò nel collidere contro il gradino e in men che non si dica furono rialzate dal vano stradale. La lancetta continuò a risalire la scala di numeri nel display e l’abitacolo prese a tremare vigorosamente.
Andavano così forte che non riuscirono più a scambiare mezza sillaba.
Haruka scivolò da sinistra verso destra e riuscì a guardare negli occhi il giovane che l’aveva derubata della propria revolver. Puntò meglio che poté e lo colpì al collo.
Un fiotto rosso macchiò il finestrino. Haruka sentì Mimì gridare di rimando.
«Ten’ō devi mirare alle gomme!».
«Quelle le lascio a te agente!».
Setsuna sparò al pneumatico anteriore.
La macchina sbandò violentemente collidendo pericolosamente con la loro.
Rei tentò di mantenere il controllo del volante e rispose al colpo con un altro colpo di lamiere.
Gli Yakuza non sembrarono paghi da quel contatto. Il guidatore girò il volante tutto da un lato e decise di andargli contro alla velocità più alta possibile.
La macchina della polizia subì un urto più forte del previsto, Rei perse il controllo dell’auto. Haruka scivolò violentemente sul sedile sparando un colpo a mezz’aria. Tutto quelle che vide, prima che l’abitacolo cominciasse a roteare su se stesso, fu Setsuna che proteggeva il capo della donna che amava.
 

[1] una sorta di veranda coperta dal tetto spiovente, modula la relazione tra lo spazio interno ed esterno delle case tradizionali giapponesi.





Note dell'autrice:

Che parto! Ciao a tutti, avevo cominciato il capitolo subito dopo aver finito il precedente ma poi causa laurea mi sono bloccata. Al momento di continuarlo ho avuto un piccolo blocco ma poi sono riuscita a sviare sino a che...word non mi ha cancellato un mucchio di pagine scritte e così, ho riscritto quello che avevo perduto. Perdonatemi, non ho revisionato perché sono stremata alla fine di questo delirio! Ho allungato il capitolo per farmi perdonare visto ci ho messo molto ad aggiornare anche se...zan zan, non doveva finire così. In realtà nemmeno l'incidente doveva esserci ma è venuto fuori da solo e ora ce lo teniamo. (In realtà adoro quando scrivo senza manco sapere cosa, vuol dire che l'ispirazione non mi ha abbandonata del tutto ed è un sollievo). 
Lo so che molte di voi non sopportano Setsuna e qui c'è soprattutto Setsuna/Rei ma...è venuto fuori così e in realtà un motivo c'è. Perciò tenete botta ancora un pochino dai e non odiatemi!! 
Ho l'adrenalina a mille, se riesco (anche se oggi davvero sono iper impegnata) vado a continuare subito il capitolo. Spero di aggiornare al più presto ma per ora non ho una data da scadenziarmi perché fino a fine mese sono iper impegnata. Se vi va fatemi sapere le vostre impressioni, i consigli e quant'altro. Un bacione
Kat
   
 
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