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Autore: aniasolary    17/05/2016    3 recensioni
A pochi passi dagli anni settanta, un Matematico e un Filosofo si amano travolti dal sole che picchia su Rio de Janeiro e cullati dal rumore del mare in lontananza.
Questo segnerà la loro esistenza e la loro morte.
«E dopo ti dimenticherai di me, Anders?»
«Non mi dimenticherò mai di te.»
Lo guardai, attento. Memorizzai il piano: le linee rette dell’arco di cupido, perfetto, su quelle sue labbra sottili; il fascio di parabole – curve morbide – delle sue ciglia dorate: azzurri, gli occhi, come il cielo pallido che vela il mondo dopo l’aurora; l’ellisse che abbracciava entrambi i suoi zigomi, di cui due nei occupavano i fuochi; il volto chiaro, senza un filo di barba, ancora infantile e dalle forme d’un imperfetta circonferenza.
Nemmeno io l’avrei mai dimenticato.
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Parte seconda
 
Era piena notte, dormivo; di sasso, perché mi svegliai nel bel mezzo d’un sogno: mia madre era la regina del mare, vestita d’azzurro e con le perle tra i capelli; all’orizzonte una nave da corsaro e un uomo a prua, in carne ed ossa, in colori e sottotoni, il padre che ho sempre e solo visto in una fotografia in seppia.  Noè! Lo chiamava mia madre, agitava le braccia. Noè! Sei tornato da me… sei tornato da noi…
Ma mi misi addosso una vestaglia e andai ad aprire, ancora assonnato. Sulla soglia c’era Anders.
Mia madre si chiamava Adelaide. Quando ero piccolo dicevo sempre mi sposerò, mamma, e quando avrò una figlia avrà il tuo nome nobile. A mio padre non pensavo. Lui non mi ha mai capito. Tornava a casa da lavoro e mi lanciava uno sguardo distratto, nulla più. Non mi ha mai capito nemmeno stanotte. Mio fratello ha tre anni, e piangeva mentre papà mi lanciava addosso le stoviglie appena comprate dalla sua nuova fidanzata.
Non ce l’ho fatta. Davvero non ce l’ho fatta a non parlargli di te, professore. A dire che ti amo tanto, tanto… così tanto… e che è per questo che sono felice.
«Stupido, perché gliel’hai detto?»
«Perché tu a tua madre sì? Perché non posso essere come te?»
Lo abbracciai. Il dolore ci cambia. Il dolore ci fa accettare cose che respingeremmo se fossimo come tutti gli altri.
«Vieni a riposarti,» gli dissi, una carezza al suo volto liscio e chiaro. «Dormirai qui, stanotte.»
«Dormirà qui sempre.» La voce ferma e sicura di mia madre, alle mie spalle. Apparsa all’improvviso, con quella camicia da notte bianca, leggera e lunga fino alle caviglie, sembrava la versione bruna e buona dell’Alemoa[1]. Aprì le braccia per accoglierlo e ancora una volta si trasformò, perché lei era tutte le creature che esistevano in terra e in cielo: quella volta fu un angelo. «Non restare qui fuori, ragazzo, o ti ammalerai. È sempre brutto quando un figlio si ammala.» Lo fece entrare in casa e lo condusse nella mia camera, gli fece indossare un mio vecchio pigiama e gli rimboccò le coperte.
Mia madre lasciò la stanza. «Fate le vostre cose quando io non ci sono,» fu l’unica cosa che disse. Sbadigliò e se ne tornò a letto.

Così Anders si trasferì da me. Mia madre lo trattava come il secondo figlio che non aveva avuto, lei che sognava di avere tanti figli maschi da nutrire e tante figlie femmine a cui intrecciare i capelli; poche volte in sua presenza manifestavo quello che provavo per lui, anche se più niente era proibito e il quotidiano ci apparteneva.
Fuori da quella casa, però, dovevamo starci lontani. Anders usciva dalla porta sul retro e faceva il giro più lungo per raggiungere l’università, e se per caso c’incontravamo nei corridoi lo salutavo in modo formale e rapido, come se fosse un qualunque studente a cui avessi fatto lezione in sostituzione a un docente di cattedra. In quegli istanti il fuoco mi ghermiva la gola e – lo sentivo – i suoi occhi mi seguivano finché non svoltavo l’angolo: al diavolo ogni tentativo di discrezione. Arrivai ad evitarlo di proposito, memorizzando gli orari delle sue lezioni meglio delle mie.
Lo proteggevo.
A costo che pensasse che lo amassi di meno.
«E così noi siamo superiori, perché si amano i nostri spiriti…»
Mi sedetti sul letto. «Che cosa dici?»
«Non lo dico io, ma Platone,» mi rispose Anders. Studiava con una matita in mano ed una poggiata sull’orecchio sinistro, seduto al tavolino che avevo montato da quando c’era lui. «I tre gradi dell’amore. Noi siamo collocati più vicini alla perfezione, perché in quanto omosessuali siamo attratti dalla mente e non dal corpo.» Chiuse il libro e mi lanciò uno sguardo divertito. «Che ne pensi?»
Bah! «Che questo Platone sicuramente non era omosessuale.»
Rise. «Il mio corpo non ti è indifferente?»
«Non è facile dormirti accanto, ragazzino.»
«Russo?»
«No. Ma mi tieni sveglio comunque,» grugnii. Fece cadere la matita che teneva tra le dita sul tavolo e si alzò, mi venne di fronte. Il suo sguardo m’indagava, tenace.
Si aprì la cinta.
«Che cosa stai…?»
«Mi spoglio per te.» La voce gli si incrinò leggermente. «Non vuoi?»
«Vuoi cambiarti d’abito?»
«Ti dico che cosa voglio, tu mi chiedi che cosa voglio… tu che cosa vuoi?» Fece cadere i pantaloni. «Perché non mi svegli, di notte, se vuoi fare l’amore con me?» Fece scivolare anche la camicia.
A quelle parole, il mondo si trasformò nel buco nero che mi rubò tutta l’aria dai polmoni.
Deglutii.
In quei mesi di vicinanza avevo imparato tante cose di Anders. Se all’inizio l’attrazione per la sua bellezza mi aveva fatto accettare quel che stava accadendo, adesso c’era qualcosa che incrementava quell’aspetto: non vedevo solo un giovane nel fiore degli anni, avvenente ed energico, ma quella mente sempre meravigliata, attiva, che si sforzava di comprendere cose che io avevo già dato come indefinibili.
Per questo, ancor più che all’inizio dei nostri baci fugaci, desideravo di più.
La sua giovinezza, però, mi faceva fermare un passo prima della caduta: temevo di violare la sacralità di quel corpo, di quella verginità portata con inconsapevolezza, della sua anima.
«Non ti farei mai fare qualcosa che non vuoi anche tu,» dissi.
Rimase nudo.
«È una delle prime cose che mi hai detto: non raccontare niente di tutto questo a nessun altro che non sia te stesso. E non permettermi mai di fare qualcosa che non desideri dal più profondo del cuore,» recitò a memoria. «O da qualcosa che si trova un po’ più sotto.»
Mi aveva raggiunto: mi passò le dita tra i capelli, piano – neri nodi da marinaio, i miei, stretti e indomabili. Amava toccarli, affondarci la mano come in un rovo – mentre la pelle della mia guancia incontrava quella del suo petto. Feci un profondo respiro che venne fuori raschiato: era il rumore del desiderio che si scontrava con la mia coscienza. Sotto le sue mani, la misi a tacere.
Prendimi, Besta-fera, Satana, comunque ti chiami, e dilaniami l’anima se è il prezzo per questo peccato, atto amoroso, malsano. Lo assaggiai con la lingua, lo strinsi tra le braccia, mangiai con le labbra quella sua pelle bianca di stelle mentre lui m’invocava in preda al dolore, alle spinte, alla condanna dell’iniziazione.
« Jeg…» Ancora ansimi. «Elsker dig.»
La sua schiena si tese, e con le mani si aggrappò al legno della spalliera; feci congiungere i nostri corpi come le radici degli alberi s’intrecciano tra loro, e la pioggia affonda nella terra, e il sole si erge nel cielo tra le nuvole, perché così deve essere.
Seppi solo che dopo non riuscii a guardarlo in faccia, perché dopo lui era sempre un ragazzino, ed io ero sempre un professore.
«Che cosa hai detto?» gli chiesi.
Respirava con fatica. «Lo sai già.»
E non mi giustificai quando mormorai contro la sua spalla ti amo, Dedé. Senza sconti e definizioni, quelle parole si assumevano come fondamento di noi due.
Erano un postulato[2] perfetto.
«Dedé sono io?»
Mi grattai la testa. «Sì… qui in Brasile nessun nome resta mai tale.»
Si rigirò sotto le coperte. «D’accordo, professore.»
Sbuffai. «Non mi chiamare più così.»
Rise – e che cos’aveva, quella risata, che mi faceva vibrare lo stomaco –, mi allontanò il volto con la mano e fece inarcare il collo. «Allora ti chiamerò come se fossi nato nella mia terra, visto che tu mi chiami come se fossi nato nella tua.» Si avvicinò di nuovo e mi diede un bacio leggero sulle labbra. «Sebastian.»
***
Lui studiava sempre con la matita posata sull’orecchio, con i pensieri all’universo.
Io tentavo di risolvere quell’ipotesi maledetta, l’ipotesi di Riemann, facendo passi in avanti e tanti altri indietro; nei momenti di maggiore lavoro Dedé mi faceva trovare una tazza di tè sul tavolo della cucina. Era bello averlo accanto. Era bello averlo sempre. Era bello che lui avesse scelto me, mentre imparava a conoscersi e a crescere, perché io ero un uomo e lui nient’altro che un ragazzino invaghito delle cose che non si possono toccare: l’anima, lo spirito del mondo, l’intelletto… Eppure adesso che mi aveva avuto non smetteva di mostrarmi il suo desiderio, la sua gratitudine, la sua consapevole accettazione.
Provavo le stesse cose, con un trasporto che mi feriva e m’innalzava, sicuramente in quantità maggiori rispetto a qualcuno che non si curava affatto delle quantità. Avevo il cubo di un trinomio, perché sapesse che cosa sentivo dovevo triplicare il desiderio, sommarlo alla gratitudine sempre triplicata, sommare ancora al triplo della consapevole accettazione, più il triplo del prodotto del quadrato del desiderio per la gratitudine, più il triplo prodotto del quadrato del desiderio per la consapevole accettazione, più il triplo del prodotto del desiderio per il quadrato della gratitudine, più… ma a quel punto già da tempo non mi ascoltava più, perché gli veniva il mal di testa, diceva, come veniva a me quando lui parlava di astruserie inventate da uomini d’altri tempi.
Quando decidevamo di vederci in un locale doveva sembrare sempre un incontro casuale, ma potevo aspettarmi qualunque cosa da lui. Per esempio che chiedesse al barista di poter andar in bagno proprio quando entravo io; allora dovevo pagare la mia consumazione e, per vederlo, raggiungerlo dove si era rintanato.
E si avventava alle mie spalle.
Ma sei pazzo, Anders.
Sei tu che mi fai diventare paz…
Non cedo così, non sono mica una femminuccia in gonnella.
Se lo fossi non mi piaceresti così tanto. Le sue labbra sulle mie e le mani audaci. Un gemito trattenuto in gola.
Dedé, se ci scoprono…
Se non perdiamo tempo, non ci scoprono.
E allora era il suo fiato caldo sulla mia pelle, nello spazio scoperto tra l’orlo dei pantaloni e la camicia di lino.
Dopo, un dopo che doveva arrivare sempre velocemente per non essere scoperti –  uscivamo con cinque minuti di differenza. Io non avevo più i vestiti spiegazzati ma il collo arrossato e le memorie della bellezza oscena con cui Anders amava scoprire il mio corpo. Metteva curiosità e gaiezza nelle cose che reputava migliori, così studiava la Filosofia come faceva l’amore e faceva l’amore come studiava la Filosofia.
Avevo condotto un’esistenza troppo normale, fin troppo privilegiata, per meritare tanto bene. Litigavamo, sì: lui era troppo disordinato ed il suo disordine rallentava il mio lavoro; io mi dimenticavo delle ricorrenze, mentre lui si preparava ad esse con anticipi spaventosi. Mia madre arrivò a preferirlo a me – ne sono convinto – perché era giovane e aveva bisogno di lei, e questo la inorgogliva. A volte passavano giorni senza che ci parlassimo e – lo faceva sembrare un caso – si addormentava sul divano con Nietzsche o Fichte sul petto. Questo mi offendeva più di tutto e Anders lo sapeva, e alla fine cedevo sempre io.
Eppure, quando tornava tra le mie braccia, sussurrava contro la mia pelle un amato se ti perdessi, mi perderei.

Non avrei creduto che il tempo l’avrebbe adorato tanto. Vent’anni, vent’uno, ventidue, ventitré, ventiquattro, venticinque, ventisei, ventisette, ventotto, ventinove… il mio ragazzino era un giovane uomo, ed era bellissimo. Stavamo insieme da dieci anni. Dopo il dottorato avevo ottenuto il posto all’università, dove insegnavo e mi occupavo delle mie ricerche; feci grandi passi avanti nonostante le difficoltà e il disordine, per questo mi invitarono all’incontro che si tenne nel 1976 a Liverpool. Anders si offrì di accompagnarmi ed io non glielo negai. Ai colleghi parlai di un giovane pronipote di mia madre, la cui numerosissima famiglia s’era sparsa un po’ in tutto il globo. Anders era contento di tornare in Europa dopo tanto, avrebbe passato il tempo a fare il turista e a scrivere il suo libro ambizioso; io, grazie a quell’esperienza, imparai a parlare in Inglese.
Fu straordinario: grandi matematici che si scambiavano idee, schemi e bozze, ipotesi e supposizioni per avvicinarci a qualcosa di ancora lontano. Eppure… «Capisco quello a cui ha pensato, ma il fatto che ci siano infiniti zeri che soddisfano la congettura di Riemann non impedisce che ve ne siano altrettanti infiniti che non la soddisfano – così come il fatto che vi siano infiniti numeri naturali pari non impedisce che ve ne siano infiniti dispari.»
«Lei, professor Maior Horta, ci sa fare,» mi disse una volta John Nash[3]. Un tipo strano, ma intelligentissimo. Bisogna essere un po’ particolari per diventare il soggetto di un film da Oscar.
Quando tornai in Hotel, fu Kurt Gödel[4] a riferirmi che Anders era uscito a fare compere. «Gli serve un vestito nuovo, ha detto,» fece Kurt, nel suo inglese forzato quasi quanto il mio. Con Anders parlava in francese, quei due se la intendevano fin troppo a parlare di Dio e qualcos’altro seguito dall’aggettivo ontologico. «Aiuti suo nipote, professore, lo aiuuuti! Si veste come un tedesco in vacanza!» E rise, perché lui era tedesco ma viaggiava solo per lavoro, a detta sua.
Lo trovai in un negozio nelle vicinanze. Da lontano, attraverso la vetrina trasparente, colsi la sua immagine sfuggente mentre entrava in un camerino. Aprii la porta e suonò un campanello, così una ragazza che il cartellino registrava col nome di Tracy mi si avvicinò. Non poteva avere più di diciassette anni. «Buonasera, signore,» mi accolse così, con un sorriso che fece illuminare i suoi occhi castani e allungati verso l’esterno. «Se desidera qualcosa, chieda pure. Ora il camerino è occupato ma…»
«Sono qui per mio nipote, signorina. È un ragazzin… ragazzo alto, ed è pallido cioè… bianco, sulla trentina.»
«Sebastian.» La voce chiara e dirompente di Anders. Mi voltai a guardarlo e lui sostenne per un lunghissimo, dolce istante il mio sguardo, con quei suoi occhi azzurri da cielo piovoso. Col suo portamento da chi è abituato a passar la vita a passeggiare mentre viene ammirato, si mise davanti al grande specchio. Smisi di guardarlo. La ragazzina, Tracy, arrossì. «Sta molto bene, signore,» commentò, e seguì un leggero colpetto di tosse.
Anders indossava un completo elegante, d’un blu speciale. Non mi sono mai interessato a queste cose, ma non occorreva essere un genio – anche se alcuni mi chiamavano così – per capirlo.
Era il blu della notte fonda, con le stelle in lontananza.
«Sto bene, zio?» E mi fece un sorrisino. Quella recita all’inizio l’aveva divertito e, a lungo andare, irritato; sapevo che sarebbe andata così, Anders non era paziente. Era tollerante solo coi suoi autori antichi, ma non con la stupidità del mondo. Quella lo rendeva furioso e lui cercava di nasconderlo con l’irrisione, lo sbeffeggiamento. «Sì, nipote.»
«Lo prendo,» decise.
«Cosa?» M’intromisi. «Anders, non spendere soldi così. Un abito elegante non ti serve, ne abbiamo un paio in valigia tra cui puoi scegliere per la cena di gala.»
«Allora quando i signori hanno finito,» disse la ragazzina, con una voce piccola piccola. «Mi trovano al banco.» E si dileguò.
Aspettai che si fosse allontanata e mi avvicinai ad Anders a grandi falcate. «Che cos’è questo capriccio?» gli chiesi, a bassa voce.
«Mia madre ha sempre voluto vedermi sposato,» mormorò. «Diceva che non si è mai tanto belli come quando ci si sposa. E questo completo…»
«Vuoi una donna da sposare? Ti piace la ragazzina?»
Fece segno di no, un sorriso divertito sul volto. «La ragazzina è carina… ma io amo un uomo, amo te.»
Scossi la testa. «Non esiste posto, in questo mondo, in cui io e te potremmo sposarci.»
«Ma voglio un abito da mettere, se mai un giorno dovesse essere possibile. Voglio un completo da guardare quando apro l’armadio…» Sospirò. «Per pensare “ecco cosa mi sarei messo, se avessi potuto sposarmi”.»
Repressi la voglia sfiancante di baciarlo e tenerlo stretto per ore e ore. «Ti sposerei, se potessi. Ti ho già sposato anni fa.»
Un tremolio attraversò le sue ciglia. «Scegli un abito.»
***
Dopo la spesa tornammo in hotel e cominciai a frugare nelle sue buste. Oltre al completo blu aveva comprato una camicia e un paio di scarpe.
«Queste scarpe così… verdi… verde semaforo?»
«Verde acido,» mi corresse lui. «Ti piace la camicia? È color malva.»
«La camicia può anche andare, mette in risalto i tuoi occhi,» notai. «Ma le scarpe, Dedé… sono un pugno nell’occhio.»
«Dai, Sebastian!» Rise. «Sono belle, invece. Così mi sembrerà sempre di camminare sul prato di un parco di Liverpool. Bella la città, no? La città dei Beatles.»
«Non mi hanno mai fatto impazzire, a dir la verità,» ammisi io. «Ma ognuno ama la musica della propria giovinezza.»
«Com’era la musica della tua giovinezza?»
«Ah… ragazzino, erano gli anni ’50. Oltre alla musica tradizionale che suonano sempre a Copacabana e Ipanema, c’era Elvis che cantava e muoveva il bacino… tutte le ragazze gli morivano dietro.»
«E anche tu.»
Feci spallucce. «Anch’io, già. È un peccato vedere come si è ridotto oggi…»
«E i Beatles si sono sciolti. C’è qualcosa che dura per sempre?»
Noi, pensai, ma non lo dissi. Anders aveva indossato quei suoi nuovi acquisti, la camicia sui pantaloni cachi e quelle scandalose scarpe verdi.
«I tuoi gusti stravaganti, ragazzino.» Risi tra me. «Vieni qui.»
***
Mia madre si chiamava Adelaide e ha sempre voluto visitare Parigi. Con mio padre è andata in Luna di Miele in Italia, ma poi non ha più viaggiato. È rimasta stretta a Copenaghen mentre mio padre faceva tanti, tanti viaggi di lavoro. Quando le chiedevo quale fosse il suo desiderio, lei mi diceva… prima di morire… Anders, prima di morire vorrei tanto vedere Parigi. È così banale, nevvero, bambino mio? Tutte le donne sognano d’andarci… Poi è nato mio fratello Vilhelm, io avevo già diciassette anni. Un figlio inatteso, quel piccoletto, ma una gioia per me. E dopo qualche mese si è ammalata. Non ci sono più stati i compiti di matematica da fare insieme – era l’unica cosa in cui mi aiutava ancora; nemmeno la colazione e i pranzi e i balli mentre ascoltavamo Lennon cantare alla radio; nemmeno le coperte rimboccate e le mani fresche d’acqua sulla mia faccia da lattante ormai grande. Sai, era ancora incinta quando mi parlò dell’idea del matrimonio ed io le dissi che non mi ero mai innamorato di nessuna ragazza. E lei… lei mi disse che non dovevo aver fretta. Perché la fretta brucia la bellezza. Lei era così bella, Sebastian… mio fratello ha i suoi occhi.
È morta senza vedere Parigi. Mi ci porti per lei?
Lo faresti per me?
Succo d’arancia che scende nella gola. Sì. Ma sì, prima di tornare a Rio… che cosa ci costa?
Occhi pieni di lacrime. Grazie, amore mio. Grazie.
Ti piacciono le uova, nipote? Voce alta, un cameriere in vicinanza.
Sì. È tutto perfetto.
***
Parigi. Dannato l’amore, dannate le strade; pittori innamorati e innamorati tra loro a sfiorare la Senna. Mi guardai allo specchio un’ultima volta. Anders mi aveva chiesto di indossare l’abito che avevo comprato con lui, a Liverpool.
Era bianco, ma non proprio. Insomma, coi vestiti sono sempre in difficoltà. Bianco come… il latte col miele. A righe color miele scuro, ambra, sottilissime. Anders diceva che erano di una tonalità più chiara della mia pelle, e che il biancore della stoffa mi dava luce. Ero magro, anche se un po’ più robusto di Anders. Mi vidi bello, quel giorno, anche se era finito il mio tempo per le vanità. Forse non c’era mai stato. Forse avevo sempre e solo fatto in modo che nessuno si accorgesse di me e di quello che ero.
«E andiamo!» Rise Anders, mi trascinò fuori e comprò due rose rosse da un venditore ambulante.
«Neveu!» Ormai avevo imparato come si dice nipote in tutte le lingue. «Che te ne fai?»
«Mettila nel taschino, oncle.» E prima di fare la stessa cosa con la sua rosa, fece l’occhiolino a una ragazza che passava per caso, bella come una bambola. Avevo già diverse idee per punirlo.
Eravamo in fila per farci fare una foto sotto la Tour Effeil.
«Sebastian,» sussurrò. «Siamo belli, non trovi?»
Rimasi perplesso. «Sì… tu di certo.»
«Anche tu. Saresti piaciuto a mia madre. Penso che avrebbe fatto come Raquì, ti avrebbe riempito di cibo e poi avrebbe acceso la radio… ti avrebbe chiesto di ballare. Saresti stato gentile con lei, anche se non aveva il samba nel sangue, come le donne del tuo paese?»
«Certo che sarei stato gentile. Ti ha messo al mondo. Sarò sempre debitore ad Adelaide Damgaard per questo.»
Era crudele, il mondo, perché in mezzo alla gente non potevo tenergli la mano per più di qualche secondo.
«Sebastian…» mi chiamò ancora. «Non chiedermi spiegazioni. Ascoltami e basta.»
Sospirai nell’incertezza. «Va bene, Dedé…»
«Qui, a Parigi, il sogno di mia madre. Qui, davanti alla Tour Effeil, nella tua lingua, io…  Io, Anders Damgaard, accolgo te, Sebastião Maior Horta, come mio sposo. Con la grazia di un Dio che ci ama, prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita.» Non mi sentivo più le gambe. «Ecco, ti ho sposato.»
«Messieurs, veuillez vous vous approcher![5]» disse il fotografo. E tremando mi lasciai trascinare da Anders, e lottai con tutti i miei demoni per non stringerlo tra le braccia davanti a tutti e baciarlo per lasciarlo senza fiato. Ma come avevo vinto le volte precedenti vinsi anche allora, e poggiai semplicemente una mano sulla sua spalla. Il flash mi accecò.
«Caspita, non vedo più niente!»
«Nemmeno io, oncle!» La voce ridente di Anders. Risate francesi attorno a noi. Il suo abbraccio.
E allora, contro la sua spalla, in un sussurro: Io, Sebastião Maior Horta, accolgo te, Anders Damgaard, come mio sposo. Con la grazia di un Dio che ci ama, prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita.
***
Era novembre ed ero solo in casa. Scrivevo una lettera a John Nash, per informarlo dei miei progressi nell’ipotesi di Riemann.
Anders entrò all’improvviso; per la prima volta dopo anni insieme, non accedeva dalla porta sul retro. Non ebbi tempo di rimproverarlo: aveva le lacrime agli occhi, l’espressione sconvolta, le labbra che vibravano in una rabbia che sfogò rubandomi un bacio.
«Dedé,» esclamai, nella sorpresa.
«Spogliami.»
Scossi la testa, ancora stordito. «Che cosa è successo…»
«Spogliati. Spogliami. Sebastian, ti prego,» mi disse, con una voce grave che non gli avevo mai sentito. Da quando era cresciuto così tanto?
«Va bene. Va bene, ragazzino, stai calmo.»
Ragazzino.
Non era più un ragazzino.
E si lasciò andare tra le mie braccia, tanto che dovetti tenerlo stretto per non farlo cadere e così entrambi fummo a terra.
«Baciami.»
Gli carezzai i capelli, piano. Quei suoi capelli folti e d’un chiaro castano. «Mi dai solo ordini, oggi.»
«So che vuoi accontentarmi. Non mi ami abbastanza?»
«Ti amo così tanto che non ti nego niente. Non ti ho mai negato niente, Dedé.»
Avvenne, e fu disperato. Fu lui che mi stringeva la testa tra quelle mani bianche e mi chiamava come se fossi lontano; e fui io che mi diedi a lui, quella volta, perché aveva bisogno di essere come me, ed io avevo bisogno di essere come lui, anche se restavamo solo noi stessi.
«Io ti amo,» mormorava, dopo ogni ansito. «Jeg elsker dig, Sebastian. Ti amo. Ti amo. Ti amo.»
***
Attesi, dopo che ebbe pianto sulla mia spalla, che mi raccontasse tutto.
«Sono andato a casa mia.»
Gli carezzai la spalla. «Che cosa cercavi?»
«Niente che desiderassi davvero.» Si morse le labbra. «Ma volevo mostrare a mio padre il manoscritto del libro, prima di farlo andare in stampa. L’ho dedicato a mia madre.»
Il libro. Se fosse stato considerato in ambito accademico, avrebbe potuto aspirare ad un dottorato di ricerca in filosofia teoretica. Ci lavorava da quando si era laureato.
«Credevo che, leggendo quella dedica, si sarebbe ricordato di quello che eravamo un tempo. Di quello che eravamo insieme a mio fratello. Ma era con degli uomini, pezzi grossi. I capi delle Borboletas
Un brivido mi percorse tutta la schiena. «Come facevi a conoscerli?»
«Tu li conosci?»
«Ho conosciuto uomo per la prima volta in una delle loro case chiuse,» mormorai, e distolsi lo sguardo da lui. Che vita miserabile era stata la mia.
«Io li conosco perché volevo lavorare per loro, quando mio padre mi ha cacciato di casa.»
Deglutii.
«Ma poi non l’hai più fatto.»
«Ho dato la mia disponibilità e, quando ho visto l’estraneo che aveva pagato per possedermi, sono scappato.» Fece una risata isterica. «Capisci? Scappato letteralmente. Mentre quello mi chiamava Desejo! Desejo!» Rideva e piangeva. «Mi avevano chiamato Desiderio di ghiaccio
Rabbrividii. Il pensiero mi tornò al ragazzo biondo di quella notte lontana: probabilmente era morto.
«Ovviamente mi hanno preso. Poi mi hanno rinchiuso senza acqua e senza cibo. Dopo una settimana, ero quasi morto. Mi hanno abbandonato sulla spiaggia…» continuò, lo sguardo perso nei ricordi. «Lì mi hai trovato tu.»
Gli accarezzai il volto non più liscio. Adesso il mio ragazzino aveva la barba, curata, che gli contornava le labbra morbide. Ed era un uomo. «Anders…»
«Quando mi sono svegliato ed ho voltato la testa, ti ho visto. In questa stessa stanza, in piedi di fronte alla finestra, con la luce che ti travolgeva nel sole alto di mezzogiorno. Ho creduto che fossi Dio. O Cristo. O un angelo. Una creatura divina.» Mi abbracciò forte ed io lo tenni stretto, gli diedi piccoli baci sulla spalla, sulla clavicola, sul petto.
«Non so perché quelle persone stavano parlando con mio padre. Appena mi ha visto non mi ha lasciato nemmeno parlare. Ha urlato “io non ho figli! Mi fulminino se io avessi dei figli, dei figli così… un frocio che si vede da lontano, che lo prende in…”» Le sue lacrime calde mi scesero sulla pelle. «Sono un mostro.»
«Se sei un mostro, lo sono anch’io con te.» E lo strinsi ancora più forte, anche se non valeva nulla. Anders voleva essere accettato dall’unico genitore che era in vita, ed io non potevo dargli quello che chiedeva. Potevo solo tentare di consolare quella mancanza eterna con l’assicurazione della mia presenza costante.
«Non tu. Nessuno ti ha mai detto una cosa del genere. Nessuno sospetta che tu…»
«Pensi che non l’abbiano capito, dopo tutti questi anni e nemmeno una donna?»
«Non lo so. Ma di me molti lo intuiscono. E mi tollerano solo perché tutti i filosofi sono strani…»
«Ah, i filosofi, tanti filosofi di questo tempo amano gli uomini, tante filosofe amano le donne e s’amano tra loro… loro sanno cos’è l’amore.» Sospirai. «Non tornare più in quella casa, Dedé. Casa tua è questa adesso.»
«Sei tu la mia casa, Sebastian.» Sfregò la testa nell’incavo del mio collo. «Sarò debitore per sempre a Raquel per averti messo al mondo.»
Lo allontanai, di poco, e lo guardai negli occhi. «Domani andrai all’università e continuerai il tuo lavoro. Poi andrai alla stamperia e darai il via per far stampare il tuo libro. E tutto avrà un senso, amor mio.»
 
 
[1] Il fantasma di una donna bionda dai tratti tedeschi, connessa all’isola di Fernando de Noronha. Si dice che seduca gli uomini imprudenti per poi portarli alla morte. Alemoa è un modo non standardizzato di pronunciare la parola alemã, in portoghese donna tedesca.
[2] Postulato: proposizione che, senza essere dimostrata, si assume, o si richiede all’interlocutore di assumere, come fondamento di una dimostrazione o di una teoria (in generale, di un sistema deduttivo). È termine in uso soprattutto nella matematica, mentre in fisica e nelle scienze applicate le proposizioni che hanno carattere di postulati sono più comunemente ricordate con il nome di principi. (Definizione dell’enciclopedia treccani)
[5] Signori, vogliate avvicinarvi! in Francese
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In occasione della giornata mondiale contro l'omofobia(17 maggio), ecco a voi la seconda parte della storia <3
Un grazie speciale a chilometri , Bianca Marconero ed Aven90 per aver recensito la prima parte ed anche a tutti coloro che mi hanno fatto sapere i loro pensieri su facebook e per messaggio privato. Sono onorata che voi ci siate, che mi regaliate un pizzico che vostro tempo che per me è preziosissimo e che veniate a sognare con me. Se voi non ci foste, le mie storie non potrebbero vivere.

Grazie infinite.
Ania <3

 
   
 
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