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Autore: Awesomissima123    17/05/2016    0 recensioni
"Nella chiesa di questa periferia, una bicicletta nera è un monaco."
[G. Gospodinov]
Un bulletto dal cuore d'oro, un principino senza scastello ed un liceo che non sembra voler dare loro pace.
Una bicicletta e un secchio d'acqua, un fiume ed un'amicizia da ritrovare.
Su uno sfodo del grigio di periferia, le avventure di due ragazzini convergono verso due finestre decisamente troppo vicine.
1. "Gomma - Baustelle": "Ed il futuro stava fuori dalla new wave da liecale, così speravo di ammalarmi."
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Altri, Bulgaria, Romania
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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robulau
[Sono la prima che odia le note prima di una storia, tuttavia, suppongo siano necessarie alla fine della comprensione dello scritto stesso, trattandosi di personaggi a cui il benedetto Hima (gioia e dolori di noi fan, risiedono nell'autore stesso. Quanto è speciale questo fandom.) non ha ancora dato o un nome o un volto.
I nomi usati nella storia si riferiscono a:
Romania: Serghei Radulescu
Bulgaria: Petar Levski
Norvegia: Sigurd Amundsen
OC!Serbia: Josif Karadordevic
OC!Albania: Larush Hoxha
Ungheria: Erzsébet Hedervary
Germania Magna: Ariovisto Dei Vosgi
Nonno Roma: Augustus Vargas.
 I due personaggi originali, insieme agli altri, sono stati sviluppati dai rispettivi creatori nel roleplay su Facebook.
A parte Serghei (modestamente, ruolato divinamente dalla sottoscritta), ringrazio quindi Nora (Sigurd), Altea (Josif), Larush (che non credo avrà mai intenzione di dirmi il suo nome reale), Monica (Ariovisto) e Nadia (Augustus). E Giorgetta, perchè la sua Ungheria é la mia Ungheria.
Credo di aver finito con i ringraziamenti.
O forse no.
Forse manca la persona che non solo mi ha assistito nella stesura di questo capitolo (sopportando le mie lacrime) ma che ne é anche artisticamente coinvolta, considerando che molte delle idee, sono state partorite da lei. Esattamente come il personaggio di Petar. Voi non avete idea di cosa significi avere a che fare con una me stressata, lei si. Ha scritto persino l'intro. Bella lei.
Quindi, ringrazio la mia rolepartner, la mia Valo. Minua rakasssssssssudelma suudelma suudelma.
Che probabilmente mi bloccherà ovunque, dopo una dichiarazione del genere e bloccherà qualunque rotta aerea e ferroviaria.

Buona lettura e grazie per esservi prestati a questo sproloquio assurdo.]




"Ed il futuro stava fuori

dalla new wave da liceale
così speravo di ammalarmi
o, per lo meno, che si infettassero i bar."



C'erano venti centimetri che dividevano le finestre delle loro camere. Quando erano piccoli, era stato divertente legare due scatole di alluminio vuoto con uno spago e persino venti centimetri diventavano un'avventura, un esperimento di comunicazione e lo diventarono così tanto da lasciarli svegli le notti intere a parlottolare a stupirsi di quando sembrasse di essere sul serio vicini.
I signori Radulescu e Levski, convennero che sequestrare quei rudimentali telefoni era la cosa più giusta da fare per salvare i loro bambini da precoci occhiaie di stanchezza e frequenti disattenzioni a scuola. Serghei e Petar, comunque, non si erano mai persi d'animo ed il pomeriggio, dopo la scuola, giocando in riva al fiumiciattolo al limite del quartiere popolare, avevano continuato a confabulare, ad ordire piani e complotti per ritrovare la loro preziosa invenzione.
A nulla era valso: i loro genitori erano stati davvero furbi. Il telefono di spago passò nel dimenticatoio nel giro di qualche settimana.
Il Serghei bambino, però, nel trovarselo tra le mani casualmente -mentre era alla ricerca della felpa nera porta-fortuna, quella che metteva sempre prima di un compito importante- avrebbe fatto i salti di gioia e sarebbe corso ad annunciare la vittoria al suo vicino di casa, il suo migliore amico. Il Serghei adolescente, invece, socchiuse gli occhi sondando la ruggine sull'alluminio, lo spago ancora intatto, con perplessità: non sarebbe corso dal suo vicino di casa, ma si limitò a guardare fuori della finestra a venti centimetri da quella di Petar. Venti centimetri di invadenza.
Lasciò cadere i barattoli in un angolo dello sgabuzzino e si avvicinò agli infissi, chiuse le tende dopo aver constatato che a dieci minuti dalle inizio delle lezioni, il suo vicino se la stava ancora bellamente dormendo.
Ora, il suo cervello avrebbe potuto piegarsi a laconici pensieri rivolti alla labilità delle cose soggette al tempo, a quanto questo le cambi da renderle quasi irriconoscibili... Ma non lo fece, si limitò ad arricciare il naso, avvertendo la vibrazione del cellulare nelle tasche dei jeans logori.

|| Whatsapp > Sigurdino ||

"Fossi in te, non fermerei la bici al solito posto. Stanno scomparendo misteriosamente le catene di quelle che ci sono.
Inclusa la mia."

|| Whatsapp > Arturino ||

"Hanno fregato la catena della bici di Sigurd, fossi in te non gli rivolgerei parola oggi. Se già l'hai fatto, procurati dell'acqua santa."

Alzò gli occhi al cielo pigiando il tasto del bloccaschermo e giudicando che, sì, forse era il caso di andare a piedi ed evitare la soddisfazione dell'ennesima catena a quei trogloditi degli amici del suo vicino, appunto. Irritato anche dal mancato ritrovamento della felpa portafortuna, si chiese quando avrebbe resistito al compito di chimica, quanto avrebbe resistito all'impulso di prendere a calci i propri compagni di classe e -sopratutto- a quanto avrebbe resistito vivo con Sigurd d'umore nero.
Sorrise furbo, mentre chiudeva l'uscio di casa e passava velocemente davanti la casa accanto: almeno lui sarebbe arrivato in orario.


***



"Novembre mio, facevi freddo: la fronte frigo e il polso a zero.
Sporcare specchi era narcosi.
Potrei scambiare i miei "le ore" con te?"





Una vibrazione, proveniva dal cuscino. Il ragazzo mugugnò e rotolò al lato opposto del letto.

||Whatsapp > Jos ||

"Bre, ma che cazzo di fine hai fatto?"

Ancora vibrazioni, lui si lamentò dopo un respiro profondo, non intenzionato a dare adito al proprio cellulare.

|| Whatsapp > Larush ||

"Cazzo, ti sei perso la faccia del frigido più biondo! Petar, dove cazzo sei?"

Che poi, cosa ci faceva il telefono sotto il cuscino?
Ancora ad infastidirlo.

|| Whatsapp > Jos ||

"Bre, sul serio, sei vivo?"

Non ci è dato sapere se aprì gli occhi per aiuto divino o solo per maledire la tecnologia, fatto sta che appena le iridi smeraldine guardarono lo schermo del cellulare, lui scattò a sedere, non per i trenta messaggi non letti ma per l'ora assurda in cui aveva deciso di svegliarsi: festeggiare il compleanno di Larush, la sera prima, non era stata proprio una grande pensata ma come avessero fatto, i suoi amici, a svegliarsi e ad avere la forza di portare a termine i loro loschi piani, restava un mistero per lui che ancora doveva riuscire a distinguere la destra e la sinistra.
Evidentemente, esisteva chi ci nasceva con la propensione a fregare il prossimo: lui non era tra quelli, ci si era solo ritrovato in mezzo.
Sbadigliò profondamente. Avrebbe voluto alzarsi velocemente, vestirsi velocemente e correre a scuola: era sicuro che l'ennesima nota di ritardo avrebbe sancito definitivamente l'addio alla promozione. Rischiava, lo sapeve, ne era conscio e nonostante questo il corpo non voleva collaborare.

«Cazzo. Cazzo. Cazzo.»

La formula magica: s'era appena ricordato che non aveva potuto evitare l'ennesimo furto ai danni di chi, tornato a casa, avrebbe disturbato la sua quiete accendendo lo stereo fisso sul metal, facendo tremare le pareti della sua camera. Poteva ancora fare qualcosa?
Si alzò iniziando a prepararsi, saltellava e inciampava nelle proprie cose disseminate sulla moquette ed abbassandosi sotto il letto, infilandovi una mano per pescare la scarpa destra, trovò un tramezzino: da quanto tempo era lì?
Non c'era tempo per pensare a queste bazzecole.

«Cazzo. Cazzo. Cazzo.»
«Buongiorno anche a te, amore mio.»

E se Petar stava correndo, fece la sua entrata in cucina, in moviola, dopo aver udito la voce dolce della madre. Finse nonchalance quando prese la tazza di caffè che lei le porgeva e mentre le dava un bacio su una guancia: era meglio che la signora Levski non diventasse connivente della sua drammatica situazione scolastica, risparmiarle piccole delusioni, almeno di facciata, lo rendeva abbastanza sfrontato da essere un attore perfetto, quel mattino rannuvolato di speranze di pioggia.

«Sei in ritardo?»
«No, entriamo un'ora dopo, ti pare!»
«Ah. Perchè ho visto Serghei uscire almeno un quarto d'ora fa.»
«Cosa vuoi che me ne importi se quello preferisce andare a scuola prima, invece di dormire.»

Un'interpretazione da oscar, seduto al tavolo della cucina. Unico sintomo di una certa agitazione era il piede che tamburellava a terra, quello, però, la signora Levski non poteva vederlo. Si complimentò con sè stesso per la prontezza dei riflessi nella risposta e fu impossibile non pensare al proprio vicino di casa.
Il suo cervello, piuttosto, si lasciò coinvolgere in pensieri laconici riguardo il tempo 'chè in fin dei conti non aveva mai trovato una spiegazione al perché le cose potessero cambiare senza che ci si potesse opporre. In realtà, non c'era mai stato un evento scatenante, un punto di rottura, qualcosa a cui poter rimediare: percorsi diversi, supponeva, amici diversi, interessi diversi. Un giorno si era accorto che Serghei non faceva più parte attiva della sua vita se non come il vicino di casa rumoroso o il compagno di classe strano, circondato da gente strana.
Ora, non che Serghei fosse mai stato uno sfoggio di normalità: aveva questa fissazione per i vampiri e una certa tendenza per il macabro già da bambino, però, a lui aveva sempre divertito. Non era mai stato un elemento di divisione ed, ogni tanto, gli mancava finire al fiume nel completo nulla, come avevano fatto fino alle medie.
Sembrava che con le superiori, Serghei, non avesse avuto più tempo per ricordare di essere solo un ragazzino e Petar, certamente, non aveva avuto le forze per ricordarglielo, giacchè la situazione, in casa sua, aveva iniziato a diventare sempre più asfissiante tra il licenziamento della madre e una crisi cui sentiva il peso proprio dietro la noce del collo.
Era stato più semplice distrarsi senza aggiungere altre preoccupazioni: il Petar quattordicenne non sapeva che non avrebbe più potuto recuperare un rapporto che si stava incrinando, il Petar diciassettenne ne prendeva atto e si limitava ad osservare la testa bionda di Serghei due banchi più avanti e la sua mano che scattava per dare la risposta giusta mentre la propria mente non poteva fare a meno di ricordare che quello, comunque, restava il bambino che colorava gli alberi di bordeaux alle elementari.


***


"Tremavo un po'
di doglie blu e di esistenza inutile
vibravo di vertigine."



«Lo sapevo che avrei dovuto trovare la felpa, la sfortuna si è catapultata su di me.»
Le mani tenevano le sbarre del cancello, neanche fosse un condannato in carcere. D'altronde, vista in un'altra ottica, chi era chiuso in un edificio erano i suoi amici che lo guaravano dall'interno della scuola. Andare a piedi non era stata una genialata: aveva visto sbarrarsi l'entrata a cento mentri senza poter fare nulla.
Saltava il compito di Chimica e aveva vanificato un'assenza per nulla. A niente sarebbero servite le parole di consolazione dei suoi compagni anche perchè né Sigurd né Arthur -tantomeno Natalya- gliene avrebbero mai rivolte, anzi, lo guardavano con biasimo e commiserazione.
"Volevi fottere il sistema venendo senza bici, il sistema ha fottuto te": il norvegese fu crudele e caustico ma anche terribilmente realista. Ed anche un po' piccato dal furto di quella mattina. Serghei avrebbe potuto spiegargli che a fine giornata le catene sarebbero tornate al loro posto: solitamente, erano a lui che non tornavano mai perchè un certo albanese si divertiva più del dovuto a vederlo tornare con la bici in spalla. Restò in silenzio, tuttavia, per una piccola vendetta personale.
"Smettila con questa cazzo di felpa, fa pure schifo.": che bella cosa l'amicizia. Avrebbe potuto rispondere all'inglese, invece, che la sua felpa porta-fortuna, poteva fare anche schifo ma almeno lui non aveva dei procioni al posto delle sopracciglia e glielo avrebbe detto se solo un'apparizione non gli si fosse affiancata.
"Affiancata" era un eufemismo perchè sembrò quasi investirlo. Petar correva e si fermò giusto in tempo, con stridore delle gomme sull'asfalto e puzza di freni bruciati ma almeno, alla sua bici non mancava nulla. Ad un millimetro da Serghei che, teatrale, si era appoggiato al cancello con gli occhi sgranati, non potè fare a meno di scoppiare a ridere, fingendo fosse tutto calcolato quando aveva sul serio temuto di dover portare il romeno al pronto soccorso: va bene riallacciare i rapporti ma era sicuro quello non fosse proprio il piede giusto.

«Complimenti, Levski, vuoi diventare anche un assassino, ora?»

Corrucciò le sopracciglia alla voce piatta di Amundsen e nel guardarlo si rese conto, finalmente, che era rimasto chiuso fuori. Ancora.
La risata scemò fino a diventare un suono secco e gutturale, quasi gracchiante.

«No. No. No.»

Anche il ragazzo appena arrivato, lasciando cadere la bicicletta, si appese alle sbarre del cancello, guardando con malcelata disperazione l'edificio e ignorando l'altro alle prese ancora con il batticuore ed il fiatone di chi s'è visso passare una -seppur breve- vita davanti. Scansato l'omicidio, non aveva idea di come scansare, in ordine: la bocciatura, una delusione alla famiglia ed un manrovescio dal padre che -nonostante l'età- ne sapeva dare ancora di belli tosti. Valutò l'ipotesi che, forse, la vita in cella avrebbe potuto rivelarsi, sorprendentemente, migliore di quella che gli si prospettava, d'istinto, quindi, girò il viso a guardare un Serghei ancora eccessivamente sconvolto e questo gli fece increspare le labbra in un sorriso.

«Va bene, scusami Serghei.»
«Potevo morire!»
«Sul serio? Dicono che tu sia già morto.»
«Scusa, colpa mia.»

L'ultimo a parlare era stato Amundsen e diceva la verità: era proprio lui a mettere in giro voci sulla presunta non-morte di Serghei, avvalorando le sue tesi con mistici racconti in cui il riflesso nello specchio del rumeno risultava inesistente. Alle volte erano racconti così verosimili che persino a Petar sembravano reali, se non avesse saputo che i Radulesco non avevano perso, davvero, il primo figlio, probabilmente avrebbe girato alla larga dal tipo strano accanto a lui, che in quel momento provave ad afferrare un norvegese.
Dopotutto, Sigurd, s'era limitato a fare la propria uscita di scena, insieme ad Arthur, non appena l'ultima campanella rintoccò per l'ultima volta, lasciando un quantomeno distrutto Radulescu sulle soglie di una crisi di nervi. Perchè, poi, fosse così sconcertato, Petar non riusciva a capirlo: non rischiava di perdere l'anno per un'assenza striminzita. Il compito di chimica fu come un lampo a ciel sereno che squarciò il buio della sua mente: ecco che si susseguivano, una dopo l'altra, disgrazie che lo convincevano sempre di più a voler scegliere una vita da carcerato. Sbuffò amareggiato dal destino che sembrava accanirsi su di lui e si chinò a riprendere la bicicletta e salire di nuovo sul sellino, facendo un passo avanti, lasciò che la ruota toccasse appena il polpaccio dell'altro.

«Sali, ti do un passaggio.»
«Io non ci torno a casa. Chi lo dice a Vlad che ho saltato il compito. Manco morto. Ma poi tu che cazzo vuoi da me?»
 
La ruota fece più pressione sul polpaccio del rumeno. Alcune cose non cambiano mai: il carattere dolce di Serghei, per esempio. Petar alzò gli occhi al cielo non intenzionato a restare un quarto d'ora per convincerlo come quando erano bambini. La ruota salì sul piede altrui, schiacciandolo appena e l'altro lo tirò via assumendo una delle espressioni più funeste di cui fosse capace. Non attaccava: il bulgaro ne aveva viste di peggiori.
Quella del signor Vlad, per esempio, gli aveva tormentato i sogni per lunghe notti, alle elementari. Si spalmò una mano sul viso e gli fece cenno di salire sul manubrio. Certo, erano cresciuti ma era ancora sicuro di farcela.

«Muoviti, non ti porto a casa ma se non ti muovi...»
«Cosa? Mi uccidi?»
«Dracula Senior non passa di qui per andare a lavoro?»

Detto fatto: il ragazzo si catapultò al suo posto e lui dovette fare ricorso a tutta la forza per reggere la bicicletta in quelle condizioni, così, all'improvviso. Non era stato così difficile, poi. Sorrise ancora, nascosto dietro la schiena dell'altro, gli sembrò sul serio, per un momento, di tornare indietro e dovette convenire sul fatto che non tutti i mali venivano per nuocere. Non che sperasse in un ritorno al passato, tuttavia, tra il trascorrere una giornata in solitudine a patire per le disgrazie, dividere il peso con qualcun'altro risultava la prospettiva migliore: mal comune mezzo gaudio. E quello che era il suo amico di una volta, doveva essere nascosto lì, oltre la t-shirt degli Haggard, dei piercing alle orecchie e le parole mai gentili, doveva essere nascosto da qualche parte e, forse, non sarebbe stato difficile trovarlo tra quattr'ossa che sembrava si tenessero unite per scommessa. Preso in quei pensieri, sbandò leggermente, perdendo l'equilibrio e fermandosi giusto in tempo per evitare una rovinosa caduta.

«Gesù Cristo, spero non ti mettano mai in mano una macchina!»
«Se magari la smetti di agitarti!»
«Se magari la smetti di attentare alla mia vita!»

Non riuscì a trattenere una risatina e si sporse di poco per poggiare il mento sulla spalla dell'altro per guardare in che direzione andare.

«E dai, stai calmo, Sergino...» 

Quel vezzeggiativo era "il" vezzeggiativo: non lo sentiva da quanto? Qualche anno? Fu abbastanza per farlo stare zitto per qualche momento, il momento giusto perchè Petar potesse riprendere a pedalare in pace e lui, Serghei, strinse solo le mani intorno all'asse di ferro che lo manteneva. 'Chè fu prepotente lo slancio che lo riportò ai pensieri che quel mattino aveva scansato abilmente e si chiese se l'altro avesse voluto catapultarlo consciamente nei ricordi o se, molto più probabilmente, era solo stato un caso dovuto ad una presa in giro. Com'era stato possibile, trasformare facilmente uno squallido quartiere popolare in un posto fantastico e mitico, con lui e perderne le tracce in modo altrettanto facile.
C'era stato un tempo in cui le mura umide e grigie delle villette a schiera avevano smesso di spaventare due bambini, diventando rifugi perfetti per un qualunque attacco zombie. Un tempo in cui, in vicoli nascosti perennemente dal sole, riuscivano a trovare tesori: che si trattasse di una molletta caduta da qualche balcone, poco importava. E poi, poi c'era il fiume che in fin dei conti era solo un rivoletto d'acqua che impietoso delimitava  le loro abitazioni da quelle più illuminose. Quando pioveva, c'era la piena e loro uscivano nei loro impermeabili gialli e nelle piccole galosce a costruire dighe di pietre che il giorno dopo non avrebbero ritrovato.
Si mantenne meglio, ridusse gli occhi a due fessure.
C'erano quegli alberi che non riusciva mai a colorare bene ed una volta Petar aveva ascoltato dai suoi genitori che Serghei era daltonico, quindi il giorno seguente di alberi bordeaux, s'era fatto coraggio e fingendo sicurezza aveva rimbeccato tutti i compagni di classe: non dovevano ridere, perchè, "Sergino è dalonico".
Quando avevano iniziato a cambiare così prepotentemente?
La frenata brusca quasi non lo faceva cadere.

«Gesù Cristo Pastore di Giudea!»
«Allora, Serghei, abbiamo tre opzioni. Opzione a.: il fiume; Opzione b.: il centro. E poi ci sarebbe l'Opzione C.»
«E cioè?»

Petar restò in silenzio e provò a non ridere, nello sforzo poggiò la fronte sulla schiena di Serghei.

«Il cimitero.»
«Vaffanculo, ma quanto sei coglione.»


***





"Vespe d'agosto: un caldo sciame
per provinciali bagni al fiume"


Anche se il sole primaverile, dopo giorni di tempesta, riscaldava senza scottare, Serghei aveva tirato sui capelli biondi il cappuccio della felpa. Non è che non si godesse i raggi che illuminavano la riva e la roccia sulla quale lui era seduto e Petar era steso. Il rumeno aveva le gambe incrociate ed oscillava a destra e a sinistra seguendo un motivetto che canticchiava a labbra strette, unico suono umano oltre lo scrosciare dell'acqua.
Petar sii potè concedere di osservare più da vicino le sue spalle, indisturbato. Erano ancora sottili e minute, quelle di un adolescente sottopeso: chissà se ancora nascondeva il cibo nelle maniche della maglietta, dopo averlo masticato per dieci minuti. Probabilmente, ora, si decideva solo a lasciarlo nel piatto. Petar chiuse gli occhi beandosi del tepore e del silenzio almeno fino a quando Serghei non lo urtò per prendere qualcosa dalla sua borsa, proprio la sua, quella di Petar. Quest'ultimo nell'alzarsi di scatto e nell'urtarlo, rischiò di farlo scivolare in acqua: ancora si stupì della propria prontezza di riflessi, quando allungò una mano per afferrargli il braccio. In quel contatto ed in quella presa forte si guardarono, in silenzio ma con le labbra schiuse per lo stupore e le espressioni spontanee di chi non s'aspettava una tale velocità.
Furono istanti di limbo e di sospensione oltre i limiti di tempo e spazio ed entrambi si chiesero se fossero soli in quella inspiegabile sensazione di predestinazione. Loro non potevano certo saperlo ma era un'impressione pienamente condivisa che non si estinse neanche con l'interruzione del contatto fisico e del contatto visivo.

«Guarda che non volevo rubarti nulla, volevo solo prendere il tuo libretto delle giustifiche per controllare la firma dei tuoi.»

La voce di Serghei risultò quasi infantile e mortalmente imbarazzata mentre tornava ad infilare le mani nella tracolla sotto lo sguardo perplesso del bulgaro che ancora doveva scuotersi dalla sensazione. Non riusciva ad identificarle se solo come diversa o anche disagevole.

«Cosa--- cosa vuoi fare?»

Ma l'altro non gli rispose, strappò un foglio dal quaderno e si appropriò anche di una penna che fece scattare sul proprio ginocchio. Poggiò poi il quaderno sulle gambe di Petar e si bloccò ad osservare i quadretti bianchi.

«Sono un grafomane. Riesco a imitare quasi perfettamente qualunque firma.»
«Un cosa?»
«Sh.»

Alzò due dita per zittirlo, premendogliele sulla bocca. Si guardarono ed entrambi inarcarono le sopracciglia, ognuno stupito da quella familiarità che sembrava essere tornata d'improvviso e senza che potessero accorgersene. Serghei deglutì e scrollò le spalle, tornò al foglio giustificando il proprio comportamento con uno: "Se parli non mi concentro." e Petar obbedì restando in silenzio, non sapendo cosa aspettarsi di veder accadere sulle proprie gambe, o meglio, sul foglio poggiato sulle proprie gambe.
In effetti, qualcosa accadde: con la penna, il romeno tracciò perfettamente la firma del Signor Levski. Era sorprendente: non poteva credere ai suoi occhi. Alzò il quaderno davanti ai propri occhi assottigliando lo sguardo: era assurdo. L'altro, d'altronde, si godeva lo stupore altrui con un'espressione quantomeno tronfia e soffiò sulla penna come fosse la canna di una pistola.

«Nessuno dei due avrà grattacapi a casa. Guarda come la mano di Dio si poggia sul tuo libretto e crea.»

A parte la teatralità, ben presto entrambi i libretti furono forniti di firma sotto lo sguardo ancora incredulo del bulgaro.
Chi al liceo imparava a fottere il prossimo, chi imparava cose ancora più strabiliante. Gli passò per la mente di proporgli una collaborazione ma conscio del modus pensandi del romeno, sapeva che si sarebbe comportato alla stregua di uno strozzino quindi decise di farsi bastare quel piccolo favore.

«Ma ti rendi conto che hai una dote che non sfrutti? Non fai praticamente mai assenza!»
«Prego, tu sei scemo. Io faccio assenze intelligenti.»

Ora, Serghei aveva scansato già una volta una rovinosa caduta nel fiume. Non poteva andargli bene anche la seconda ed, in realtà, le intenzioni di Petar erano solo quelle di dargli una lieve spinta, non quelle di farlo tuffare interamente. Inutile dire che iniziò a ridere anche in quel caso senza riuscire a dargli una mano per uscire.

«Ah, porca puttana se sei stronzo!»

Ma lui continuava a ridere fino alle lacrime mentre lo sfortunato si liberava di felpa e di shirt ormai zuppe e fu allora che la risata gli morì in gola diventando una tosse fastidiosa, sintomo di un grave imbarazzo che dissimulo coprendosi gli occhi con entrambe le braccia, giustificato da un: "Oddio, sei così bianco da riflettere la luce del sole", seguito da un perentorio: "Ma mi hai preso per Edward Cullen, cosa sei: una ragazzina in calore?!". Abbassò di poco le braccia per guardarlo uscire dall'acqua mentre saltellava a destra e sinistra per liberarsi dell'acqua in eccesso, lo vide strizzare gli indumenti e benedì che non si fosse tolto anche i pantaloni, preferendo non interrogarsi su un tale imbarazzo per qualcuno che conosceva sin da bambino.

«Cosa guardi? Mi si stanno gelando le palle.»
«Aspetta... ma che sono quelli?!»

Sulle anche di Serghei, brillavano quelli che sembravano a tutti gli effetti due placche di metallo, gli faceva senso persino guardarli eppure l'altro si guardò intorno costernato, come a cercare qualcosa prima di intercettare a cosa si riferisse.

«Questi? Sono microdermal. Mai visti prima?»

Il bulgaro boccheggiò e non dovette tenere troppo lo sguardo altrove perchè l'altro si girò. Pensò che le sorprese fossero finite ed invece, dietro il collo aveva il tatuaggio di una croce che finiva tra le scapole. A quel punto annaspò togliendosi la giacca di pelle, ben intenzionato a mettere fine a quello scempio visivo.

«Vuoi la mia giacca?»

Non lo ringraziò, quando allungò le mani per afferarla e per infilarla. Non lo ringraziò semplicemente perchè riteneva il minimo, un gesto del genere, considerando che la colpa era del bulgaro se ora si trovava fradice persino le mutande.

«Ma... Non serve un permesso per farli? Non sei ancora maggiorenne.»
«Allora, se tu sei un cretino non è colpa mia. Ricordi: grafomane.»

Alzò le mani davanti al viso, agitando le dita.

«Queste fanno miracoli. Sono o non sono le mani di Dio?»
«Quanto sembri frocio con quei cosi, Sergino.»
«Ti piacerebbe lo fossi. Le ragazze li amano.»

Né l'uno specifiò che sì, non gli sarebbe dispiaciuto se l'altro fosse vagamente tendente al frocio, né l'altro specificò che non aveva la più pallida idea, in realtà, di cosa piacesse alle ragazze. Petar saltò giù dalla roccia e battè le mani tra di loro per pulirle, poi restò a guardare Serghei che sembrava davvero iniziare ad avere freddo, scosse il viso accorgendosi che la giornata iniziava a prendere davvero contorni misteriosi ed enigmatici.
Ed era solo la prima mattinata: cosa sarebbe successo ancora? Un attaco nucleare?
Il romeno infilò la tracolla e le mani nelle tasche della giacca, vi trovò le sigarette e senza neanche chiedere il permesso ne prese una e l'accese. Iniziò a camminare e Petar, recuperata la bicicletta, lo accostò portandola in mano e senza salirci e senza capire dove fossero diretti. Avrebbe voluto dire qualcosa di brillante per rompere il silenzio che era caduto su di loro ed invece aveva il vuoto nella mente. Guardava Serghei con la coda dell'occhio, il ragazzo era accigliato, con i capelli che bagnati gli aderivano al viso e fumava con una tale fretta da sembrare ancora più irritato. In realtà lui non si era mai sentito in dovere di rompere i silenzi solo che quello che incombeva su di loro, iniziava ad intinuarsi tra loro. Era un silenzio saturo di parole che nessuno dei due era intenzionato a dire. L'ammasso di case e grattacieli si faceva sempre più vicino e la luce del sole diventava più rada ad ogni passo.
Ritornare al contemporaneo, il tempo in cui le cose che avevano in comune erano poche fu veloce come la familiarità di qualche momento prima.
Allungò una mano per prendere le sigaretta dalla tasca della giacca ancora addosso al rumeno e ne accese una anche lui, quello gli trattenne il polso per guardare l'ora.

«Posso tornare a casa. Saranno usciti e io mi sto congelando.»
«Vengo con te.»

Di nuovo non seppe spiegarsi quel volerlo seguire a tutti i costi come non seppe spiegarsi il perchè l'altro avesse annuito, suggerendo poi di entrare dal retro.
Più la realtà del quartiere si avvicinava, più i colori diventavano sbiaditi.
Espirò del fumo e si fermò un attimo a guardare la serie di piccole villette a schiera.
Abbandonò la sigaretta neanche a metà e la spense con un piede. Serghei, qualche passo più avanti, si girò nella sua direzione, lo interrogò con gli occhi.

«Sì, sì. Andiamo.»

Gli rispose con la voce perchè i suoi occhi si rifiutarono di guardarlo oltre.


***



"Dei giorni scarni, tutti uguali
fumavo venti sigarette
e groppo in gola di secca sete di te."



«OH DIO! OH DIO!»

L'aveva rifatto e Petar ci era ricascato, saltando seduto sul tappeto con il controller della playstation in mano. L'altro, come le ultime tre volte, finì a ridere rotolandosi.
Una cosa era certa: Silent Hill non faceva per il bulgaro anche -e sopratutto- con Serghei che continuava ad urlare all'improvviso trovando infinitamente divertente vederlo beccarsi dei veri e propri colpi al cuore.
Si limitasse solo a deriderlo: il rumeno quasi piangeva per le risa convulse e lui -finiti gli accenni di infarto- sorrideva quando poggiava lo sguardo su quel cumulo di ossa e vestiti che si rotolava sulla moquette. Mise in pausa il gioco ed aspettò pazientemente che si calmasse e con tutta la serenità e la sfacciataggine di cui era capace gli infilò il controller tra le mani per poi spostarsi comodo dietro il ragazzo: la schiena poggiata e le gambe piegate a circondare l'altro, si sbilanciò persino a poggiare il mento sulla sua spalla per guardare più comodamente lo schermo.
Serghei si zittì, si concentrò sul videogame, sentendosi vagamente teso ma non fece nulla per sottrarsi a quel contatto e neanche alle braccia che gli circondarono la vita.

«Cos'è? Troppa paura?»
«Sto meglio qui, mh?»
«Mh.»

Questa volta, il silenzio che era calato, non era tanto pesante quanto complice di altri sensi: il rumeno sentiva, percepiva estremamente bene la guancia dell'altro muoversi piano contro il suo collo, sentiva la pressione del mento sulla sua scapola e le mani leggere poggiate sul suo addome. Lo riconobbe in quella gestualità e si riconobbe, nell'ignorare la sensazione di predestinazione dovuta a quel tepore che sembrava cullarlo, cadde in un'inconscia e celata accettazione dello stesso, rilassandosi gradualmente contro il petto dell'altro che, d'altronde, avvertì il cambiamento e preferì  mantenere il silenzio, non più perché non trovava cosa dire ma perché le parole sarebbero risultate sempre troppo sbagliate, sempre troppo ridondanti. Petar abbassò le palpebre sugli occhi verdi e in una piccola frizione fece scivolare le labbra sul collo, il naso ed alla fine vi poggiò la fronte.

«Serghei?»

Le parole del bulgaro gli accarezzavano la pelle, in un modo dolce ed accennato come lo era stato il tono ed avrebbe risposto adeguatamente se solo un rumore non avesse distrutto la sensazione e la situazione: Petar alzò di scatto la testa, si guardarono interrogativi. I signori Radulescu non sarebbero tornati a casa, vista la partenza per un viaggio dopo il lavoro, quindi quella interruzione li lasciò privi di qualunque difesa e vittime di un'improvvisa ansia, di una certa confusione dovuta alla diramazione della nebbia che si era impossessata delle loro menti.

«Se'?»

Avevano dimenticato qualcosa, effettivamente. Un piccolo particolare e "piccolo" era una definizione giustissima perchè, appunto, il piccolo fratello di Serghei era appena rientrato in casa da scuola irrompendo nel salotto come solo un bambino poteva fare: lasciando lo zaino e il giubetto leggero in giro per casa e saltellando entusiasta di qualunque cosa. Nell'ingenuità di un bambino, il vedere Petar risultò solo l'ennesima fantasmagorica cosa che gli era capitata in una bellissima giornata di sole, complice perfetta di giochi nel cortile della scuola elementare.
Se Serghei era fermo a boccheggiare calmando un principio di sincope, l'altro si alzò tirandosi sopra anche lui.
Dimitrie si avvicinò tronfio sventolando un foglio sul quale troneggiava una bellissima "A+" e non ebbe il tempo di dire altro perchè si trovò a mezz'aria, sollevato da Petar: era troppo, trovarsi davanti ad un mini-Serghei diametralmente opposto nel carattere e sprizzante felicità e dolcezza, era veramente troppo per resistere.
Il rumeno, benedì la vibrazione nelle tasche dei suoi pantaloni per dissimilare quel velo di imbarazzo che si era appropriato delle sue guance. La benedizione durò poco: aveva appena appreso una notizia che "raggelante" sarebbe stato eufemistico.

«Sigurd dice che siamo finiti insieme per il progetto di storia. Perchè eravamo entrambi assenti.»
«Sigurd,chi?»
«AH! Aiuto, sto morendo!»

Nel salvare il fratello, staccandolo dalle braccia di Petar, non si risparmiò la più funeraria delle espressione e potè poggiare solo una carezza sulla testa del minore che, liberò, scappò via, correndo sulle scale. Sospirò irritato e si concesse un buffetto sulla spalla del bulgaro.

«Siamo in classe da quattro fottuti anni. Quanti Sigurd conosci?»

Non ricevette risposta, l'altro si era avvicinato grave, preoccupato, si guardava intorno circospetto con l'impressione di chi ha da confessare uno spaventoso segreto, si abbassò su di lui per parlargli all'orecchio.

«Noi non diciamo ma il suo nome...»

Gli poggiò una mano sul petto per allontanarlo ma non servì a nulla.

«Petar, no.»
«Lo chiamiamo...»
«Petar, basta.»
«...Tu-Sai-Chi.»

Il profondo respiro che partì dalle labbra strette del romeno era sintomo di grande irritazione e il bulgaro sapeva bene di star camminando, candidamente, sul filo della labile paziena romena, sul punto di non ritorno e si sarebbe anche fermato se non fosse così divertente punzecchiarlo. Serghei chiuse gli occhi, respirò ancora profondamente, forse, stava ragionando sul modo più semplice per ucciderlo e nascondere il cadavere. Gli diede le spalle, portando entrambe le mani a massaggiarsi le tempie.

«Guarda che il progetto si fa "insieme", nel senso che studi anche tu. Nel senso che non lo faccio da solo. Ora, togliti dalla mia vista e... Devi uscire senza farti vedere. Prendi il retro.»

Petar avrebbe voluto fermarsi, avrebbe voluto non andare così oltre, prendendo a calci immaginari la benevolenza dell'altro che ancora non aveva provato a tagliargli la gola ma le mani partirono da sole poggiandosi entrambe sulle natiche del più basso che aprì gli occhi di scatto guardando davanti a sè. Non era imbarazzato e neanche arrabbiato, quanto raggelato dall'assurdità di quelle vicente.

«Di grazia. Posso chiederti che cazzo t'è passato per quella particella di sodio che ti ostini a chiamare cervello?»
«Me l'hai detto tu. Oh, tu: "Prendi il retro".»

Di come un giovane fu trascinato fuori di casa, letteralmente a pedate sul suo di retro, gentilmente, uscito dal retro, questa volta della casa, è sicuramente un'altra storia.







***






Come la realtà sia labile e soggetta agli occhi di guarda le cose ed alla mente che le metabilizza, non è certamente una novità, è una cosa ovvia che, tuttavia, s'era fossilizzata nella mente di Serghei a cui poco importava delle lasagne appena riscaldate nel proprio piatto. Spiluccava, elucubrava e tra una tortura a una polpetta e l'altra, non s'era neanche accorto di trovarsi, alle venti, seduto ancora al tavolo della cucina a guardare la porta da cui era uscito Petar. Stava ancora capacitandosi che tutto quello che era accaduto fosse, a tutti gli effetti, reale. Non era mai stato un amante dei cambiamenti, anzi, per abituarsi anche alla minima cosa ci metteva un tempo abbastanza lungo e, nonostante l'abitudine, provava sempre un certo disagio al solo pensiero delle cose che cambiano.
L'idea che il mondo intero, incessantemente, mutasse e si modificasse, in definitiva, gli aveva sempre messo una certa ansia. S'era abituato all'idea di fare a meno della presenza del suo vicino, come migliore amico, nella sua vita, con non poche difficoltà.
Non è che avesse potuto fare molto: la distanza che s'era instaurata fu infima perchè percepita davvero troppo tardi e sembrò davvero che nessuno dei due avesse mai avuto intenzione di riallacciare i rapporti.
Non una parola, non un saluto fino a quando di parole non ce n'era più bisogno ed i venti centimetri che dividevano le finestre delle loro stanze avevano iniziato a diventare davvero fastidiose: Serghei finiva per ascoltare i discorsi di Petar, le risate dei suoi amici che aveva detestato dal primo giorno di scuole ed alzava il volume della musica all'inverosimile. Si alzò e raggiunse la sua stanza, d'istinto scostò la tenda dal vento chiuso e guardò la luce accesa della camera di fronte.
Petar non aveva scostato le tende e lui si chiese, davvero, cosa si aspettava senza riuscire a trovare risposta. Uscì chiudendosi la porta dietro, esattamente un secondo prima che una mano scostasse il tessuto dalla finestra che lui s'era fermato ad osservare.
Nel suo maniaco programmare e riordinare tutto, quella giornata aveva rappresentato una gigantesca ad anomala cosa fuori posto e dovette ammettere che, dopo il trillo del campanello, trovandosi Erzsébet sulla soglia con un ematoma sullo zigomo ed il labbro inferiore spaccato, non accennava a sembrare normale.
Si scostò dall'uscio e con un pollice le fece cenno di entrare.

«Ti ho portato il materiale per il progetto, me l'ha chiesto Sigurd.»

Non l'ascoltò, lasciando la porta che si chiuse con un rumore sordo. La osservava con le sopracciglia corrucciare, analizzando ogni ombra scura del suo volto.

«E mi serve il vocabolario di francese, domani ho la verifica.»

Con il mento le indicò le scale, sicuro che la seguisse iniziò a salirle e la lasciò entrare nella sua camera, lei si sedette sul letto come fosse in un ambiente familiare. Serghei si arrampicò a una sedia per poter prendere il vocabolario e glielo lanciò accanto, senza smettere di guardarla accigliato. Le si avvicinò restandole in piedi, di fronte e le alzò il mento con due dita per guardarla meglio alla luce artificiale, passò il pollice sul taglio sul labbro ed assottigliò lo sguardo.

«Che cazzo hai combinato?»
«Rissa a mensa. Larush è messo peggio.»
«Cazzo, che bulla che sei.»
«Cazzo, quanto sei sfigato tu.»

Il ragazzo lasciò scorrere la mano dal mento ad una spalla per trovare appiglio e farla alzare. La guardo meglio, analizzandole l'ematoma sotto l'occhio e cacciò uno sbuffo divertito. Indietreggiò di un passo e -dopo aver cercato nell cassetto del comodino- tirò fuori un tubetto di lozione. Le lanciò anche quella e lei la prese al volo, senza ringraziare.

«Comunque, le catene a Sigurd non sono tornate a fine giornata. Lo sai che questo implica un susseguirsi di giornate di merda?»
«No, cristo. Un momento, forse posso chiedere a Petar.»
«Ma va'?!»
«Non. Iniziare. Nessuno è un personaggio di quei tuoi fottuti giornaletti froci.»

Le tende della finestra del Bulgaro coprivano ancora il vetro ma tentare, non costava nulla. Era come se avesse aspettato fino a quel momento, l'attimo giusto, la giusta scusa per tornare a parlargli, ad avere la sicurezza che di quella giornata appena trascorsa non fosse svanito nulla e che qualcosa fosse rimasto all'altro, esattamente come era rimasto a lui. Si sporse oltre la finestra, abbastanza per riuscire ad arrivare a battere due colpi con la mano.

«Pet. Petar.»

E prima che potesse capire che lui l'aveva perfettamente sentito, si ritrovò bagnato dalla testa ai piedi di acqua saponata.
L'unica cosa che seguì il tutto non fu una spiegazione ma il vetro dell'altra finestra che sbatteva,  il rumore di un secchio che si spiaccicava a terra e le risate di Erzsèbet.


Come la realtà sia labile e soggetta agli occhi di guarda le cose ed alla mente che le metabilizza, non è certamente una novità, è una cosa ovvia che, tuttavia, non era neanche passata per l'anticamera del cervello di Petar.
Era tornato a casa di buon'umore, così sereno che a nulla erano valse le solite parole dure del padre per rovinargli il sorriso. S'era anche offerto di pulire le stoviglie, tant'è che la Signora Levski se ne stava affacciata alla finestra che dava sulla strada, tranquilla. Lei ragionava su quei tipi di cambiamenti che solo una madre può riuscire ad avvertire in un figlio: avvertire ma non spiegare ed andava bene lo stesso perché si prospettava una pacifica serata in famiglia, la conclusione di una giornata che, per lei, era stata davvero estenuante alla ricerca di un lavoro che non aveva comunque trovato.
Andava bene, andava bene sul serio se tornata a casa riusciva respirare lo spiraglio di una certa stabilità. Lasciando vagare lo sguardo sulla strada poco illuminata dai lampioni, aveva intercettato la figura di una ragazza. La preoccupazione di madre, la portò a tenerla sott'occhio, conoscendo un quartiere che non si rivelava sempre uno dei più indicati per girare soli, una volta calato il sole e le sopracciglia si rilassarono mentre le labbra si increspavano in un sorriso furbo.
Lo sguardo era complice quando cercò quello del figlio.

«Ma guarda, Serghei ha la fidanzatina?»

Complici, gli occhi della madre, non trovarono altrenttanta complicità in quelli del figlio che, asciugate le mani, si fiondò accanto a lei alla finestra. Una madre le cose le avverte, le nota: come una mascella tesa e le labbra serrate ed irritate, laddove prima erano impegnate a fischiettare un qualche motivetto.

«Quanto sono cretino.»

L'unica spiegazione che la signora Levski potè darsi di quell'improvviso cambio di registro nel cambiamento del comportamento di Petar -che scontrosamente se n'era andato, salendo le scale furiosamente e sbattendo la porta della sua camera- fu che, evidentemente, il figlio dei Radulescu aveva fatto colpo sul primo amore di suo figlio. Sorrise, ripensando ai tempi del suo primo amore e lo sguardo cadde direttamente al marito. Stanco, dormiva sul divano. Lei sospiro e gli si avvicinò lasciandogli una carezza prima di riprendere la pulizia della cucina.
Non poteva sapere che aveva ragione e diametralmente torto, 'chè il figlio steso sul letto si malediceva per aver creduto in qualche cambiamento. Si chiedeva quanto valevano le sensazioni e le percezioni se, dopotutto, ci si convince solamente che siano condivise ed in fin dei conti si rivelano solo un'abissale presa per il culo.
Eppure.... Eppure, lui aveva creduto, perchè sì: ci aveva creduto in quella scossa elettrica che era partita da un contatto e che s'era irradiata da corpo a corpo. Invece no, i fatti parlavano chiaro o -almeno- parlavano chiaro a lui: la ragazza che aveva visto, non era altri che quella tale della V B che vedeva spesso a battibeccare con il rumeno.
Si sentiva un idiota: come poteva essere stato così cieco. A quel pensiero, lanciò ancora più forse la pallina di cuoio che aveva in mano, contro il soffitto: un piccolo antistress che aveva sperimentato negli anni ma questa volta non la raccolse e lasciò che gli cadesse prima in fronte per poi rotolare sul letto e quindi a terra.
Si alzò a sedere e, girando il viso, nella direzione della finestra di Serghei, allungò una mano a chiuedere la tendina, indispettito. Cosa si aspettava, scostando una stupida tendina qualche istante prima?
Ed appena chiusa, notò le ombre. Avrebbe voluto distogliere lo sguardo ed ignorare ma fu difficile, vedere quelle sagome scure così vicine ed ecco che la mente galoppava, immaginando chissà quali scenari romantici. D'altronde, erano in piedi e i loro volti sembravano troppo vicini.
Sbuffò irritato, intenzionato a pensare ad altro: non era colpa di nessuno se non la sua che, evidentemente, s'era sul serio immaginato qualunque cosa. Sarebbe stato più semplice, certo, razionalizzare se solo Serghei non l'avesse persino cercato.
Sfrontato, sfacciato, insensibile rumeno.
Solo dopo aver vuotato il secchio che fortuitamente si trovava in camera sua -che sua madre avesse lavato a terra?- si domandò cosa cavolo gli fosse passato per la mente. Non aveva senso.
Eppure... poggiando la testa sul cuscino, non potè fare a meno di sentirsi un minimo soddisfatto.


***



Serghei era sempre stato un tipo molto vendicativo, basti pensare alla costanza con la quale faceva trovare, ogni mattina, le migliori delle peggiori banane marce sul banco di Larush Hoxha. Perseguiva la sua vendetta godendosene ogni momento, in generale: era freddo e calcolatore se si trattava di agire per pareggiare i conti, anche con una certa crudeltà. Ecco perchè le voci sul suo presunto vampirismo, avevano avuto un ottimo terreno fertile.
Non aveva la minima intenzione di lasciare impunito il gesto del bulgaro che gli avrebbe fatto meritare prese in giro per mesi, da parte di una certa ungherese. La prassi delle sue vendette era uguale: lui dava un certo preavviso, perchè, non si dica mai che non ha avvisato. Lui è un gentiluomo.
Solitamente compariva all'improvviso davanti al malcapitato, godendo degli attimi di smarrimento per poi annunciare in modo sempre teatrale e mitico, che sfortune nefaste sarebbero accadute per mano di Baphomet e Belial a cui lui -in un tempo non meglio precisato- aveva venduto la sua anima in cambio di poteri misteriosissimi.
Era ancora un fascio di nervi mentre si trascinava nei corridoio della scuola ed avrebbe anche ordito il migliore dei suoi complotti contro il suo vicino di casa se solo, incrociatone lo sguardo sulla soglia del bagno dei ragazzi, questi non gli avesse rivolto un'espressione di disprezzo mista a malinconia che lo gelarono nell'anima che aveva sempre finto di non avere.
Petar non lo salutò, lo ignorò superandolo e lasciandolo in compagnia degli orinatoi. Serghei aveva perso il momento per la sua annunciazione drammatica.
Si convinse che la morsa alla bocca della stomaco fosse dovuta solo a quella superficiale delusione ma non era abbastanza cretino da convincersene.
Trascorrevano i giorno e l'altro si limitava a quegli sguardi raggelanti e lui non riusciva a spiegarselo.
Non poteva credere sul serio che si fosse immaginato tutto, che le sensazioni e le remembrance fossero solo illusioni indotte dalla speranza di poter aver ritrovato una parte importante della sua vita. Non poteva credere che Petar fosse diventato così infimo da finire a prenderlo per il culo in modo così completo e perfetto.

"Il problema", spiegò un pomeriggio ad un Sigurd quantomeno distratto dal coltello della mensa che non voleva saperne di sbucciare la mela, "Il problema fondamentale è che, alle volte, mi rendo conto che non sono così cretino da non pormi certi problemi. Ma neanche così poco cretino da potermeli risolvere. Che cazzo, sono un cretino a metà, lo capisci?" ("Il problema" rispose il norvegese, comunque, lasciando andare indispettito mela e coltello sul tavolo "Il problema fondamentale è che questi coltelli, probabilmente, non mi serviranno ad ammazzare nessuno se non tagliano una mela. Anni di speranze liceali andati in fumo.". Che bella cosa l'amicizia. Ed alla fine, glielo sbucciò lui, quel maledetto pomo della discordia.)
In ogni caso, il fatto di continuare ad essere ignorato di buona lena, iniziò a passare dall'infastidirlo, al ferirlo lentamente: era avvilente non trovare una spiegazione alle finestre sempre ermeticamente chiuse e coperte dalle tendine, 'chè i venti centimetri sembravano ormai incolmabili.
Era stato facile accantonare l'idea di Petar, in passato, adducendone la motivazione solo allo scorrere del tempo ma avere la prova che il tempo è relativo se le cose esistono e sono tangibili, per poi ritornare al dimenticatoio, era qualcosa che lo rosicchiava da dentro. Non trovare una spiegazione plausibile in tutto quel razionalizzare, lo stava facendo letteralmente impazzire.
Un pomeriggio, dopo almeno due settimane di arrovellamenti, complice una traduzione di Lucrezio davvero improponibile, con la mente stressata da tutte quelle coniugazioni, all'ennesimo "Perchè?", la risposta spontaneo fu un "Mi manca": 'ché con quale prepotenza s'era infilato di nuovo nella sua vita per poi tornare ad ignorarlo? Perchè riportare cambiamenti e disordine di ventiquattro ore e lasciarlo da solo a smaltire le conseguenze? Perchè ritornare a ricordargli com'era averlo accanto per poi mancargli così prepotentemente?
Chiuse il dizionario al suono della campanella: avrebbe fatto qualcosa, lo avrebbe messo alle strette laddove non avrebbe potuto sfuggirgli.
E Petar non poteva sfuggire alla lezione di ginastica. Non con il professorone tedesco a tenerli d'occhio e pronto a riprenderli per ogni calo di allenamento o rallentamento del passo. Non poteva.
E Serghei, non aveva mai avuto così piacere a recarsi in palestra, laddove aveva sempre odiato qualunque spreco di energie celato dietro le mentite spoglie di un "allenamento":
Ora, il  professore di Educazione Fisica, tale Ariovisto De Vosgi, non era null'altro che una montagna di un metro e ottanta, lunghi capelli biondi e una mascella delineata che ispirava il massimo del timore reverenziale in tutti -tranne che nel collega di Storia dell'Arte, tale Augustus Vargas-, un ostacolo trascurabile come un dirupo alla fine di un binario morto sulle cui rotaie, ignaro, corre un treno della transiberiana. La sensazione dei suoi occhi addosso, dopo essersi fermati durante il riscaldamento, appunto, era vagamente simile allo smarrimento seguente la consapevolezza di dover cadere nel vuoto.
Quindi, trovandosi accostato dal rumeno, cercato con gli occhi il professore, dovette accettare il fatto di non potersi estinguere altrove e dovette guardare davanti a sè per evitare un sorrisino nel vedere un Serghei arrancante, provò ad accellerare il passo e la prontezza dei riflessi dell'altro, lo anticiparono: gli afferrò un polso costringendolo a fermarsi mentre lui era chinato a tenersi il fianchi sinistro per riprendere fiato. Gli occhi verdi guizzarono al professore che proprio in quel momento riprendeva il maschio dei gemelli Edelstein, forse peggiore del romeno, in attività fisiche.

«Ma quanto corri? Ti alleni facendo rapine?»

Il bulgaro fu tentato di scostargli i capelli dalla fronte sudata ma si trattenne, tenendo in attenzione i movimenti della montagna bionda che non s'era risparmiata uno scappellotto dietro il capo di qualcuno che non riuscì a intercettare. Tornò a guardare Serghei ancora affannato ed in quel momento esatto anche lui alzò lo sguardo. Petar indietreggiò, completamente privo difese in quel contatto fisico e visivo inaspettato. Avvertì di nuovo la scossa di qualche settimana prima, quella che si irradiava da corpo a corpo e provò a sottrarsi alla presa ma le dita dell'altro la resero più forte.
Non ebbe la forza di scostarle e sarebbe stato semplice scacciarlo con uno spintone se solo gli occhi spalancati e cremisi dell'altro non fossero puntati nei suoi e le sue guance non fossero così anomalamente tinte di rosse per lo sforzo fisico. Era una visione a cui risultava difficile sottrarvisi, lo lasciava sospeso in una dimensione che trascendeva anche il timore di una manata del professore.
«Petar, qual é il tuo problema?»
«Mi lasci?»
La voce non risultò convincente neanche alle proprie orecchie, fu un sibilo poco deciso che pareva lasciare intendere il contrario e persino Serghei lo avvertì, capendo di dover battere fino a quando il ferro era caldo, per cavarne un ragno dal buco. Ad interrogarsi sulle motivazioni che gli avevano reso così indispensabile quel chiarimento, ci avrebbe pensato dopo. Petar sapeva che un gesto del genere doveva essere stata una grande sfida per l'orgoglio del rumeno e neanche il ricordo delle due ombre troppo vicine gli diedero la forza per allontanarsi.
«Dopo scuola, andiamo... Ti offro una birra, mi spieghi qual é il tuo problema.»
Non era una domanda e il bulgaro non riuscì a rispondere, fece un passo indietro trascinandosi anche l'altro, cercò con gli occhi una via di fuga: non poteva permettergli di entrare ancora, scoprendo tasti che avrebbe toccato con poca delicatezza e senza neanche accorgersene. Sentì il battito cardiaco accelerare alla sola idea di ritrovarsi nuovamente alla presa con l'orribile sensazione sperimentata nelle ultime settimane: la presa di coscienza di un qualcosa che non sarebbe stato mai ricambiato. Il melanconico sentimento di impotenza davanti a cose già vissute, vestiti odiosi già indossati che diventavano più stretti ogni volta che l'altro si avvicinava. Ed avrebbe voluto chiedergli di allontanarsi, perché iniziava a diventare difficile respirare, che il problema non aveva senso di esistere: non era un problema quanto una situazione asfissiante e priva di risoluzione. Con calma, avrebbe potuto spiegarglielo perché non c'era colpa da nessuna delle due parti e -probabilmente- la colpa era stata la sua a portare all'estremo una situazione a causa di una delusione seguita a castelli di illusioni della propria mente, cui Serghei non era , a tutti gli effetti, connivente. Scosse il viso, la gola secca gli impediva di proferire parola, si leccò le labbra per umettarle ma, ancora una volta, fu l'altro ad anticiparlo.
 «Petru, sul serio. Mi manchi.»
Le ultime due parole stupirono persino chi le aveva pronunciate che assunse un'espressione perplessa, prima di scostare lo sguardo ad un angolo indefinito della palestra, essere riuscito a racimolare il coraggio di affrontare la situazione, si era risolto in un imbarazzante momento di sincerità non programmata e non richiesta. Ci mancava solo facesse la parte del frocio eppure Petar non sembrò sconvolto, quanto imbarazzato e spiazzato almeno quanto lui. Il più alto abbassò lo sguardo sui lacci delle proprie scarpe che erano diventati stranamente interessanti e prima di partorire alcun pensiero, si ritrovò già ad annuire senza riuscire, davvero, ad opporre resistenza al fiume che lo stava coinvolgendo e sperò di dire qualcosa per non fare la figura del demente di turno. Non arrivò parola alle sue labbra: il demente di turno. E anche del turno successivo.
«Sì? Sul serio, sì? E non fare 'sta faccia che mi sembri uno stoccafisso. Sì o no?»
«Sì, sì, dopo scuola, sì.»
«Aspettami, fuori i cancelli, allora, devo prima passare a casa a prendere una cosa.»
Non ci fu tempo per altre parole 'ché le carezze di Ariovisto beccarono prima l'uno e poi l'altro dietro la nuca.

***




Quando era piccolo, Serghei, aveva visto la propria vita come qualcosa di roseo e perfetto. Aveva una spiccata ambizione in qualunque cosa: voleva arrivare più in alto sugli alberi, trascorreva intere giornate a leggere e, fondamentalmente, lo faceva per il velleitario fine di sentirsi ammirato ed invidiato. Già da bambino avvertiva una certa differenza tra sè e ciò che lo circondava e nel sentirsi diverso, aveva sviluppato una certa superbia per mascherare il pensiero costante che, forse, era a lui che continuava a mancare qualcosa.
Sostituì l'impossibilità del suo riuscire a comunicare con la sicurezza che fossero gli altri a non riuscire ad arrivare a lui, si gonfiò ed autoproclamò migliore. Il non essere compreso, capito era una conseguenza del suo essere troppo intelligente, troppo sopra il resto. Perse velocemente l'interesse verso chi, già dall'infanzia, guardava come una massa informe di mediocrità, cadendo nel silenzio della supponenza e negli sguardi di superiorità senza avvertire la solitudine intrinseca ad un modus pensandi del genere: c'era Petar accanto a lui e Petar aveva sempre spiccato nella pece nera.
Non ricordava come fosse iniziata l'amicizia con il figlio dei vicini, subito dopo il trasferimento. Come ricordare avvenimenti temporaneamente posti ai loro primi sei anni di vita? Ricordava solo di un processo naturale, una voglia di stupirlo. Ed ecco che tutte le cose che imparava, non servivano più solo ad impressionare gli adulti ma anche -e sopratutto- a stupire lui, 'chè Petar sgranava gli occhi e lo ascoltava su qualunque cosa avesse da dire, come quando aveva imparato a leggere l'ora, anche senza i numeri scritti sul quadrante: quella sembrò davvero un'impresa degna dell'entusiasmo del bambino bulgaro.
Non si era mai accorto, lui sul serio non si era mai accorto di avere iniziato ad isolarlo insieme a sé. Più che isolarlo, era l'altro ad ignorare gli altri per lui, perché Petar andava sempre d'accordo con tutti i bambini ma li lasciava da parte per tendergli la mano, sempre.
Serghei non si era mai accorto, lui non si era mai accorto di essere stato tanto egoista da  impedirgli qualunque altra scelta, infinitamente egoista anche perché era sicuro che comunque avrebbe scelto lui. Ma chi dei due aveva più bisogno dell'altro?

«Oh, mi hai aspettato.»
«Non ho mai infranto una promessa, hm?»
«Andiamo.»

Nessuno dei due salì sulla propria bicicletta, iniziarono a camminare accanto portandole in mano.
Quando era piccolo, Petar, non aveva mai pensato alla sua vita ma se glielo avessero chiesto, lui avrebbe risposto che voleva qualcosa di semplice che gli permettesse di tenere a bada le piantine che curava sul davanzale della cucina. Una volta aveva messo delle lenticchie ed un po' d'acqua in un vasetto vuoto di yogurt, dell'acqua e le aveva spostate al sole, il giorno dopo avevano già iniziato a spuntare i primi germogli. Da allora, ogni mattina si precipitava a guardare i progressi e ben presto tutto il marmo fu coperti di vasetti di yogurt opportunamente verdeggianti. Un mattino, tornando con gli occhi attenti, aveva incrociato due iridi rosse e più che spaventarsi, lo incuriosirono e alzando il volto per guardare oltre, il proprietario di quegli occhi, arrampicato sotto la finestra della cucina, fece lo stesso. Fu allora che si era spaventato trovandosi un bambino a testa in giù, a mantenersi solo con le mani sugli infissi. Era caduto all'indietro dallo sgabello, esattamente come l'altro era rotolato fuori sull'erba.
Simultaneamente tornarono in piedi a guardarsi e scoppiarono a ridere. Il piccolo Petar non si crucciò su quella sensazione che lo portava più vicino al nuovo bambino strano, non se ne interrogò, la assecondò.
Fu un processo naturale: aveva sempre cose interessanti da dirgli, qualche volte un po' strambe ed inquietanti. Altre volte troppo inquietanti per dormirci la notte ma, tutto sommato, era divertente guardarlo correre da lui a raccontargli mirabili novità.
Non capiva, lui proprio non capiva come gli altri non riuscissero a vedere quando meraviglioso potesse essere quel bambino e più lo allontanavano, lui più li snobbava, poteva anche non esserci posto per loro, 'ché Serghei riempiva tutto.
Serghei sapeva tante cose ma non sapeva andare in bicicletta, fu davvero faticoso insegnarglielo.
Non capiva, lui proprio non capiva che ad allontanare la cattiveria degli altri lo isolava persino da sé stesso. Pensava avesse bisogno di lui.
Ma chi dei due aveva più bisogno dell'altro?

«Entriamo qui, non ci chiedono i documenti.»

Petar indicò un bar poco illuminato e fermò la bicicletta ad un lampione, imitato dall'altro e restando sempre in silenzio, si accomodarono al bancone ed ordinarono due birre. ll bulgaro non capiva perchè avesse accettato, visto che trascorreve il tempo cercando con gli occhi le uscite di sicurezza e le possibili vie di fuga e, questo, Serghei lo avvertiva perfettamente. Servì un lungo sorso di birra, al rumeno, seguitò dal tonfo del vetro sul legno un po' marcio. Girò il volto verso quello dell'altro ed iniziò a dondolarsi sullo sgabello per poi decidere di tornare a guardare il proprio boccale. Una mano andò a massaggiarsi il collo e a torturare l'orecchio dell'orecchio destro.

«Sul serio, Petar, io non mi spiego che cosa ti sia preso. Riconosco di non essere una persona facile ma lo sono sempre stata, non capisco questo tornare ad ignorarmi. Non lo so, forse ho capito fischi per fiaschi, che ne so. Vuoi dirmelo?»

Ma Petar non gli rispose, si limitò a guardarlo, mordendosi l'interno della guancia: parlare con sincerità, avrebbe potuto voler dire perderlo definitivamente, forse. Questa previsione gli fece tornare quell'orribile sensazione di asfissia e lui contrì il viso, d'istinto portò una mano al colletto della maglietta per allargarla, nonostante sapesse che non serviva a nulla. Respirò profondamente ed alzò una mano dargli un colpetto sulla guancia, accennò a un sorriso sollevando un angolo delle labbra.

«No, è-- è stata colpa mia, scusami.»
«Non prendermi per il culo. Se non vuoi dirlo a me direttamente, dimmelo indirettamente.»

Non capì a cosa si riferiva sino a quando il rumeno non tirò fuori dalla sua borsa -probabilmente- quello che era tornato a prendere a casa. Per chiunque potevano essere solo due scatole di alluminio legate da uno spago però, Petar, non potè fare a meno di regalargli un sorriso sincero prendendone in mano una delle sue, macchiate di pittura. La rigirò davanti a gli occhi e sbuffò divertito, Serghei arricciò il naso e portò l'altra all'altezza dell'orecchio, come fosse la cosa più normale del mondo: così, in mezzo ad un bar semi-popolato. Ma che il rumeno se ne fregasse altamente del contorno, era cosa risaputa. Lo sguardo verde indugiò ancora sulla figura altrui, soddisfatta e rilassata, attento a non perdersi neanche una parola.
Sospirò sentendo la tensione salire insieme ad un imbarazzo quasi pietrificante, quando decise di iniziare a parlare.

«Serghei?»
«Hm? Ti sento, la ruggine non impedisce il funzionamento.»
«Non è ruggine, è pittura.»
«Dannato daltonismo.»
«Credo che il ragazzo di cui sono innamorato sia etero.»

Non ci fu alcuna reazione eclatante, non una reazione schifata. Serghei non gli rovesciò la birra in testa come nei migliori dei suoi pronostici, lui semplicemente sbuffò, poi sospirò come rilassato, chiuse gli occhi e poggiò il mento alla mano ferma sul bancone. Rilssato lo era sul serio, credeva di aver trovato la soluzione: Petar era davvero convinto che l'avrebbe giudicato? Che l'avrebbe preso in giro per una cosa del genere? S'era arrovellato settimane per poi scoprire che non s'era mai trattata di una situazione irreparabile. Sentì i nervi sciogliersi e fece un profondo respiro rilassando il volto. Portò la scatola alle labbra.

«Siamo in un'età particolare, Petru, non devi dare per scontate certe cose. Capita che, alle volte, ci serva qualcuno che ci indirizzi verso qualcosa. Se le cose sono fatte con buona fede, non porteranno mai nulla di orribile. Non puoi trascorrere i tuoi anni migliori, il fiore dei tuoi anni, a rimuginare: sii chiaro, coraggioso, schietto. D'altronde, cosa può capitarti? Abbi il coraggio delle tue idee e la responsabilità delle tue parole.»

Il rumeno, quelle cose, le pensava sul serio. Aveva sentito Josif e Larush prendere in giro Petar riguardo una certa cotta per il ragazzo altissimo e biondo della loro scuola -quello con gli occhiali che a lui, personalmente, metteva ansia- ma trovò certe preoccupazioni infondate, potevano risolvere tutto e salvare la loro amicizie. Tanto ne era sicuro, che le mani di Petar e circondargli il viso furono un fulmine a ciel sereno.
Tanto ne era sicuro, tanto sentì il vuoto totale e la terra mancargli da sotto la suola degli anfibi quando le labbra del bulgaro si poggiarono sulle sue. Fu un bacio talmente irruento ed intenso: sapeva della frustrazione di settimane, la stessa che in qualche misura avevano condiviso, sapeva persino di un retrogusto malinconico e rabbioso, laconico al punto da renderlo irresistibile e sentì che le mani fredde di Petar, scottavano sulle sue guance.
Non esisteva più il bar, non esisteva la gente. Non sentì il rumore dell'alluminio che cadeva a terra, sentì solo la lingua dell'altro accarezzargli le labbra.
Fu un bacio talmente fuori da qualunque schema e da qualunque logica da farlo sentire prepotentemente vicino, prepotentemente privo di qualunque difesa, qualunque pensiero coerente. Al punto da destabilizzarlo.
Al punto da riscaldarlo.
Al punto che si ritrovò a ricambiarlo.

"E già ti amavo dal profondo
avevo piombo da sparare
se stereofonica posavo
d'imbarazzante giovinezza lamé
e fantascienza ed erezioni
che mi sfioravano le dita
tasche sfondate e pugni chiusi
"avrei bisogno di scopare con te"
tremavo un po' di doglie blu
e di esistenza inutile
vibravo di vertigine
di lecca-lecca e zuccheri."



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Se siete arrivati sino a qui, complimenti in primis. In secundis, se la mia partner non mi avrà bloccato sul serio, arriverà anche il secondo capitolo.
Lieta di avervi divertiti, se l'ho fatto. Ancor più lieta serei, se avessi fatto nascere un interesse, seppur minimo, per ogni personaggio di questa storia che ha lasciato qualcosa in me, esattamente come lo hanno fatto le persone che ci sono dietro.
Grazie a chi a letto e grazie a chi avrà voglia anche di recensire.

A presto.

Ps: Valo non mi bloccare.




   
 
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