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Autore: BlackStone    17/05/2016    5 recensioni
Sherlock e John si ritrovano alle prese con un caso dalle mille sfumature del male, tutte pennellate in modo uniforme su una tela.
Sherlock dovrà affrontare una battaglia con i propri sentimenti, le proprie paure più profonde e guardare il suo mind palace andare in frantumi.
[Johnlock]
Genere: Azione, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Lestrade, Molly Hooper, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Velocità: 19,62 metri al secondo.
Forza d’impatto: 833,85 Newton = 833,85 Joule.
Tempo: 2,03 secondi.

Numeri che vorticavano su uno specchio nero, che sbattevano su pareti di vetro, crepate.
Suoni confusi, immagini riflesse di persone morte e vive.
Una goccia che cadeva nel mare, poi un’altra, e un’altra ancora. Pioggia, senza nuvole, acqua che zampillava su altra acqua. Un cane che tentava di nuotare nel denso oceano nero, un bambino coi capelli ricci corvini che tentava di rimanere a galla e di raggiungerlo.
Un altro vetro che si ruppe, provette e parti anatomiche umane che andavano a fondo per poi riemergere, come una macabra danza.
Un uomo con una camicia di forza che sorrideva, che lo guardava con occhi sgranati.
-È finita, Sherlock, il tuo palazzo mentale sta crollando- disse, sogghignando, per poi sparire nell’abisso.
Aveva quel liquido scuro fino alla vita oramai, e non riusciva ad andare controcorrente, né a nuotare dentro di esso, era così denso che lo aveva imprigionato. Sulla superficie lucida, gli sembrava quasi di vedere tutti i volti importanti che aveva incontrato nella sua vita: Molly, Lestrade, Anderson, la Donovan, Mrs.Hudson, Irina Johnson, Rose, Victoria, Augustus Magnussen, sua madre, suo padre, Mycroft…
E fu allora che lo vide, una pallottola uscire dalla sua spalla, le ferite aperte sulla sua schiena, il volto stravolto e sudato. John.
-John!- chiamò, -John!-.
Il liquido gli arrivò al collo, ma lui continuava a urlare il suo nome.
-Sherlock, riprenditi- sentì, in lontananza, la voce ovattata di suo fratello, ma non riusciva a vederlo, -riprendi il controllo di tutto questo, puoi farlo-.
Ci fu una pausa, dove si udiva solo il rumore del mare nero urtare le pareti del palazzo mentale.
-Fallo per te, Sherlock, fallo per John-.
 
Fu l’acqua a farlo tornare in sé, nel più brutale dei modi. L’impatto gelido con il bagnato gli ricordò quanto fosse dura la realtà.
Entrò a piedi uniti nel Tamigi, e trattenne bene il fiato.
Era buio, non riusciva a trovarlo.
Cercò, tra le acque, la figura di un uomo, ma tutta l’oscurità pareva uniforme e non poteva esserci nulla di più scuro di essa.
Sapeva che ogni secondo in quell’acqua sarebbe potuto essere determinante per John, e doveva sbrigarsi.
Pensa, Sherlock, pensa” si diceva, mentre i suoi polmoni iniziavano ad accusare segni di cedimento man mano che si inoltrava nel profondo, e il freddo gli mordeva ogni lembo di pelle.
Fu allora che la vide: una piccola e sottile scia di bollicine, che venivano dal basso. Si buttò a capofitto, a grandi bracciate, sempre più giù e, nonostante non riusciva a vedere nulla al di là del proprio naso, allungò un braccio, e lo toccò. La sua pelle fredda, robusta e tesa.
Non perse tempo, lo afferrò, constatando, con preoccupazione crescente, che l’amico aveva perso conoscenza.
Risalire fu difficile, per un uomo che stava trasportando su di sé un altro uomo con più o meno il suo stesso peso, ma doveva farlo, mentre la sua mente lottava contro lo scarso ossigeno per rimanere lucida.
Ma poi sentì la riva.
 
Un’ambulanza era già lì, e alcuni addetti con un giubbino catarifrangente accorsero verso Sherlock e John, stesi stremati su una sporgenza di cemento. Li tirarono su e, prima che Sherlock potesse accertarsi delle condizioni del dottore, glielo strapparono dalle braccia, lo riempirono di coperte e lo caricarono su una barella, cercando di stabilire un battito cardiaco.
Insistettero per coprire anche Sherlock, dato che rischiava anche lui l’ipotermia, ma lui non volle sapere ragione, voleva che curassero John.
Sul ponte si sentì una violenta sgommata e l’impatto di una macchina, sicuramente la volante di prima. Poi più nulla.
Il Tower Bridge non aveva subito gravi danni dall’esplosione: solo metà della larghezza della strada non esisteva più, e una parte della facciata della torre più vicina. Le ambulanze erano tante, e altrettanti i feriti caricati su di esse: a volte erano costrette a portarne anche due. Era stata una fortuna che ce ne fosse rimasta una libera per John.
-Signore! Deve salire anche lei!- gli urlò un ragazzo dall’ambulanza, e Sherlock, per la prima volta, obbedì senza obiettare.
John aveva la pelle cerea e molle; il torace gonfio e duro e il battito che sembrava un fruscio d’ali. Perdeva liquidi dal naso e non dava nessun segno di coscienza.
-Versamento pleurico! Dobbiamo assolutamente applicargli un catetere intercostale! Ha troppa acqua nei polmoni!- urlò un’infermiera, mentre gli infilava una flebo nel polso.
Sherlock fu avvolto dalle coperte e l’ambulanza partì, sfrecciando tra le auto e le strade, emettendo il tipico rumore assordante.
Rumori di elicotteri, infermieri urlanti, attrezzi che cozzavano, macchinari che emettevano “bip” a volte frequenti, a volte rari. Questo fu il viaggio dal Tamigi all’ospedale più vicino.
Riempivano Sherlock di domande, gli misuravano i parametri vitali,  lo asciugavano, intimandogli di togliersi immediatamente i vestiti.
-PER L’AMOR DEL CIELO, c’è un uomo critico dietro di voi e avete la faccia tosta di venire in tre a chiedermi scempiaggini! STO BENE, maledizione! Pensate a LUI. LUI-.
Per quanto insistettero, non ci fu verso di fargli cambiare idea.
Appena misero piede nel pronto soccorso, bastò un’occhiata di un medico di passaggio per farli andare nella Sala Rossa. Dopodiché, di quello che fecero di John, Sherlock non lo seppe: fu costretto a cambiarsi e a fare delle analisi. Imprecò, mandò molti di loro a quel paese, li minacciò, ma alla fine l’ago nel braccio glielo piantarono ugualmente.
 
John fu portato prima nel Centro Iperbarico, per poi essere trasferito in Terapia Intensiva. Era caduto in coma, e c’erano sempre cinque infermieri a turno nella sua stanza, poiché la sua temperatura corporea e il suo battito cardiaco dovevano essere costantemente monitorati. Sherlock passò la notte ad attendere fuori dalla stanza.
Sentì spesso la macchina dell’elettro-cardiogramma emettere un lungo e sonoro “biiiip”, e defibrillatori al lavoro; sentì garze venire strappate dai rotoli, sentì flebo venire spostate in ogni dove della stanza: solo ogni tanto usciva un infermiere, ma correva talmente veloce che non ci fu modo di chiedergli qualcosa su come stesse John.
Lestrade arrivò il giorno dopo, con evidenti occhiaie, e l’aria sciatta: aveva infilato distrattamente la camicia, che infatti era abbottonata solo per metà; la giacca grigio perla che stonava con il resto del completo color piombo, le scarpe con i lacci infilati ai lati di essa, come se si fosse messo le scarpe solo per pietà. Sherlock dedusse che era passato a casa solo per darsi una veloce rinfrescata, e che era lui quello sulla volante, quella notte.
-Sherlock…- sussurrò Lestrade, dopo averlo individuato molto tempo dopo da quando era venuto, -stai bene?-
-Sì, se solo questi imbecilli facessero capire qualcosa. È lì dentro da tutta la notte, il cuore ha smesso di battere svariate volte. Gli hanno dovuto applicare un drenaggio toracico e ha alcune ferite infette, per cui è passato anche nel Centro Iperbarico. Non so più nulla-.
Lestrade fece una faccia inorridita, e cerco nella tasca qualche possibile sigaretta sparsa, nonostante sapesse di non averne. Sherlock vide sul suo braccio un numero indecifrabile di cerotti alla nicotina.
-Ne hai uno per me?- aggiunse il detective, sfregandosi nervosamente le mani.
-No…Senti Sherlock, devo dirti due parole.-
-Lo so che hai guidato quella volante, stanotte. So che molti dei tuoi uomini hanno perso, o stanno perdendo, la vita, e che, dalla tua faccia, pare che non ne sia valsa la pena. È fuggito, vero?-
-Non esattamente- disse Greg, passandosi una mano tra i capelli, -è una cosa inspiegabile anche per me, che ne ho viste tante nella mia vita-
-Cioè?-
-Ho saltato il ponte, quando lo stavano chiudendo, e sono sicuro di aver preso quell’assassino in pieno. Ho sentito il rumore delle ossa rompersi, Sherlock. E per la foga ho preso anche Victoria, nonostante abbia provato a schivarla... scendo dalla macchina, e non c’è nemmeno un’anima. Nessuno, né sotto, né davanti alle ruote. Porco mondo, come accidenti è possibile, eh? Li avevo presi entrambi!-.
Sherlock trattenne a stento un risolino.
-Te lo dico io cos’è successo: se l’è preso Victoria. Vedrai come tornerà a te, da qui a qualche giorno-.
L’ispettore aveva l’aria di chi non aveva capito una sola parola, ma non ebbe il tempo per ribattere: due infermieri uscirono, asciugandosi la fronte, dalla stanza, con un’espressione preoccupata dipinta in volto.
-Ehi, voi! Sono l’ispettore Gregory Lestrade, esigo che mi facciate vedere immediatamente il dottor John Watson- disse, mostrando loro il distintivo, ma uno dei due gli fece segno di metterlo via.
-Qui ogni persona è uguale, ispettore. Né lei né la regina Elisabetta può entrare in quella stanza-
-E allora ditemi come sta, cazzo-
-Moderi il linguaggio, cortesemente- aggiunse l’altro medico, un uomo di mezza età con una gran parte della superficie cranica completamente calva, ricoperta di macchie, -è in condizioni davvero critiche, lo confesso. L’ipotermia aveva raggiunto il terzo grado, e i muscoli non rispondono ancora a determinati impulsi, né riescono a riscaldarsi. Le pupille sono immobili, e il respiro gli viene dato artificialmente. Inoltre, le ferite erano quasi tutte infette e piene di detriti, per non parlare della ferita da sparo, che ha aggiunto ulteriore liquido nei polmoni. Fortunatamente ha trapassato la spalla e ci ha permesso di ricucire il buco a dovere. Direi che sarebbe potuto andare peggio ma, anche in queste condizioni, è difficile che ce la possa fare-.
Per Sherlock fu come un pugno nello stomaco. Scattò in piedi e afferrò il medico per il colletto del camice.
Un’altra parete si ruppe, una nuova ondata gli investì la mente.
-Me lo faccia vedere, incapace senza cervello! Lei ha l’Alzheimer, non può permettersi di curare dei pazienti, rischia di ucciderli o di ledere alcuni dei loro organi…-.
Venne bruscamente tirato indietro da Lestrade, che però guardò il medico con aria cupa.
-È la verità, dottor…Moerse?-.
 
I giorni che seguirono furono strazianti, tristi e preoccupanti. Quando il dottore venne arrestato per incapacità nell’esercitare la propria professione, e per molti altri errori commessi, trovarne un altro che si occupasse di John fu un’impresa a dir poco titanica. Dall’arresto, solo infermieri specializzati entravano nella stanza di John a curarlo, e a Sherlock e Lestrade venne offerto sempre il cibo più succulento presente nell’ospedale. Anche la stanza di John cambiò: lo portarono in una ben arredata, piena di comfort, provvista di salottino, bagno accessoriato e televisore con tutti i canali, anche se serviva a ben poco, con John in coma.
Il dottore, infatti, oscillava tra la vita e la morte e, ogni volta che sembrava riprendersi, aveva un crollo poche ore dopo. In più, non c’era verso di fargli riprendere i sensi.
Sherlock passava tutto il giorno, e la notte, accanto a lui, cosa che Lestrade, Mrs.Hudson, Molly e gli altri non potevano fare per via del lavoro e della vita. Al detective venivano affidati piccoli casi, che risolveva all’ospedale.
Non vide un solo parente di John fare capolino in sua visita: solo amici, vicini e lontani, alcune anziane signore che lo avevano come vicino di casa ai tempi in cui lui era adolescente e colleghi commilitoni dei tempi dell’Accademia Militare.
Poco meno di una settimana  dalla caduta, già non fece più visita nessuno di nuovo: solo Molly, Lestrade di tanto in tanto, Anderson, Stramford e la signora Hudson, che portava squisiti manicaretti che Sherlock era costretto a ripulire. John veniva nutrito tramite flebo.
Oramai il detective viveva nell’ospedale, e nulla lo faceva smuovere dalla poltrona bianca reclinabile posta vicino al letto di John, se non una suonata al violino in tarda sera.
Per quanto gli infermieri lo rimproverassero per questo suo vizio, ai pazienti piaceva, e spesso gli chiedevano determinate canzoni: Sherlock si ritrovava a suonare antiche ballate, walzer, serenate, musica classica svariatissima, da “Clarinet Polka” a vere e proprie colonne sonore di film moderni. Questo ogni sera, appena dopo le nove.
 
Una sera, Sherlock prese il violino come suo solito, mentre osservava la neve cadere.
-John, penso che stasera suonerò Schubert, “andante con moto”- disse, consapevole che John era perfettamente in grado di udirlo, ma non di rispondergli. Oramai riusciva a respirare autonomamente e non aveva più crolli, inoltre il suo battito si era stabilizzato e i tremori dovuti alla febbre si erano nettamente dimezzati. I punti erano stati tolti alle ferite, ma grossi lividi giallastri erano rimasti, inoltre non ancora usciva dallo stato comatoso.
Iniziò a suonare: note melodiose e leggere echeggiarono nel silenzioso ospedale.
Una canzone rilassante e allo stesso tempo triste, che però migliorava l’umore di molti pazienti e, Sherlock ne era sicuro, anche quello di John.
Suonò e suonò, avrebbe potuto farlo fino a consumare le corde. Fu allora che avvertì un movimento, debole, provenire dal letto di John. Inizialmente, credé che fosse qualche insetto, dato che ce n’erano non pochi in quell’ospedale, e si affrettò a posare il violino per prendere la sua pantofola, avvicinandosi cautamente al letto.
Sarà una mosca, con tutto quel marciume che cucinano qui e che io ho lasciato, prudentemente, nel piatto” pensò, ma non vide nulla di piccolo e ronzante nelle vicinanze.  
Esplorò piano piano ogni angolo nelle vicinanze del letto di John, dal comodino pieno di regalini e cianfrusaglie alla poltrona bianca, ma non trovò nulla che si muovesse o che facesse rumore, così alla fine si rassegnò e si lasciò andare, sedendosi e sbottonandosi i primi tre bottoni della camicia. Chiuse gli occhi e sospirò.
Avrebbe fatto meglio a dormire, per non pensare a ciò accaduto sul ponte. L’immagine di John che cadeva lo perseguitava nei suoi pensieri, nei suoi incubi, ogni giorno e ogni notte: di lì a poco avrebbe desiderato solo sigarette in grandi quantità, come sempre, per cui dormire sarebbe stata la via più semplice per rimandare il dolore.
Lo sentì di nuovo, più forte, tra le lenzuola.
Stavolta ne era sicuro.
Analizzò ogni piega, cercando segni di movimento. E se fosse…?
-John?- tentò, sentendosi stupido: era impossibile che si fosse già ripreso, con tutte quelle ferite. Si alzò, ricordandosi di dover mettere a posto il violino.
Tuttavia la speranza che un giorno si sarebbe svegliato risiedeva nelle profondità del suo cuore. Avrebbe voluto sentirlo parlare, proprio in quel momento.
-No…- sentì, flebile come un fruscio, -…suona…ti prego…-.
Sherlock sentì il cuore mancargli un battito. Era ancora frutto della sua astinenza da tabacco, o aveva sentito davvero John parlargli?
Si girò, individuando la figura del dottore ricambiargli lo sguardo. Due occhi verdi, un sorriso forzato dietro un volto pallido, pieno di barba incolta, lo accoglievano. Per quanto l’amico fosse davvero devastato dalla febbre, dai continui sbalzi di temperatura, dalla pulizia scarsa e dalla mancata rasatura, Sherlock lo abbracciò con tutto l’affetto che aveva represso negli anni.
Si sentì libero, forte, il cuore che gli martellava come se gli stessero suonando dentro milioni di orchestre. L’odore della sua pelle, le mani deboli poggiate sulle sue spalle. Il detective non avrebbe desiderato nient’altro in quel momento.
-Mi fai male Sherlock…- disse il dottore, riscaldato da quell’abbraccio così inaspettato. Era così felice di vederlo che il dolore sembrava essergli scomparso.
-Sono un idiota!- urlò Sherlock, lasciandolo – potrei riaprirti le ferite, potrei interrompere il deflusso di qualche medicina, potrei causarti qualche frattura, potrei…-
-Sherlock, va tutto bene, calmati...per favore potresti chiamare qualcuno? Non penso di stare molto…- balbettò, tossendo a tratti. Era uscito dal coma da quando il detective aveva iniziato a suonare, e aveva lentamente preso coscienza della situazione in cui era. Era stata una fortuna essere sopravvissuto al salto, alle ferite, all’acqua gelida, e da dottore aveva compreso tutte le sue condizioni fisiche. Tuttavia non sapeva dove fosse e come ci fosse arrivato.
Sherlock, prima di poter replicare, era già corso nel corridoio, mentre lacrime di agitazione e felicità gli pungevano gli occhi. Un gran sorriso spontaneo gli illuminava il volto.
-Infermieri! Medici! Razza di incapaci, John si è svegliato!-.
 
Nei giorni seguenti ci fu come una processione dentro la stanza di John: Molly venne, al settimo cielo, con una bottiglia di champagne, brindando armoniosamente (ruppe persino un bicchiere, in un “cin cin” con Anderson); Philip passò molto tempo a parlare con John di supposizioni su nuovi casi affidatigli, che Sherlock smentiva prontamente; clienti su clienti della clinica di John ad augurargli una buona guarigione; la signora Hudson portò gustosi manicaretti, dolci e tè; infine Greg aveva portato delle notizie.
Era seduto su una sedia di legno trovata in una stanza vicina, di fronte a John, appoggiato sul letto con lo schienale sollevato, e al detective, seduto a gambe incrociate sulla poltrona bianca.
Il dottore era riuscito a radersi, con l’aiuto di Sherlock, e a mangiare qualcosa, per cui aveva assunto un colorito già più roseo.
-Stamani ho trovato, davanti alla porta di casa mia, un pacco senza mittente. L’ho aperto cautamente dentro, accertandomi che non fosse un ordigno o qualche diavoleria di quel genere, e…-
-…e ci hai trovato dentro qualche parte anatomica insanguinata, dato che le tue dita sono sporche di sangue rappreso agli angoli delle unghie. Il problema è capire di chi e quale…ah no aspetta, una testa, in particolare quella di Willem, dal capello rosso che penzola dalla tua manica- Sherlock non perdeva occasione di mettere in mostra la sua intelligenza da quando John si era ripreso, come se avesse avuto una carica di energia improvvisa. Aveva spiegato al dottore per filo e per segno ogni passaggio dalla sua caduta all’ospedale, omettendo i particolari sentimentali e le sensazioni, nonostante fosse come impellente il desiderio di rivelargli tutto ciò che provava.
Eppure era così difficile, per lui, cambiare il proprio rapporto con John.
Per il dottore, da quando era venuto a conoscenza che Sherlock l’aveva salvato, era strano immaginare un uomo tanto freddo e duro cercarlo nelle acque torbide e rischiare la vita per lui.
-Sì- disse semplicemente Greg, sconfortato, -maledetta lei e le sue vendette! L’avrei acchiappato, quel dannato cazzone, torturato e sbattuto in isolamento in qualche manicomio criminale…-
-Lestrade, ciò che è fatto è fatto. Mandarlo in isolamento o ucciderlo non avrebbe mutato la sua convinzione di grandezza artistica. Era un uomo disturbato, e come tale è da comprendere- lo interruppe John, bevendo un sorso dalla bottiglietta d’acqua al suo fianco.
-Comprendere?! Ma ti si è fottuto il cervello?! Sai quello che ti ha fatto, sì?- sbottò Lestrade, battendo un pugno sul ginocchio.
-George, smettila- ammonì Sherlock, alzando il palmo verso di lui.
-Greg! Ma lo ascolti, Sherlock? Lo ha frustato, gli ha fatto ingerire della merda liquida e…-
-Ti prego di non ricordarmi quelle cose, Greg. Sto dicendo che è inutile nutrire rancore per un uomo morto. Basta così- disse John.
L’ispettore si sentì in improvviso imbarazzo, e si alzò nervosamente.
-Io…torno al mio lavoro. Spero che tornerai presto al Bart’s, John- concluse, uscendo dalla stanza.
Sherlock e John si guardarono per un istante, poi distolsero lo sguardo contemporaneamente.
-Toglimi un dubbio- disse il dottore, lasciandosi andare sul materasso, -come hai scoperto che il dottor Moerse ha l’Alzeheimer?-.
Il detective rise, rivolgendogli un occhiata maliziosa.
-Lo conoscevo da tempo, e la firma sul suo cartellino era ogni anno più sbiadita e illeggibile, per non parlare delle diagnosi…dimenticava anche le cose più evidenti, dagli ematomi alle ulcere. In più chiamava i pazienti con nomi di vecchi pazienti da lui uccisi per errore. Semplice come rubare la caramella a un bambino-.
John ridacchiò.
-Sei sempre il solito: sai applicare le tue doti investigative anche quando non ci sono io a darti degli input-
-Beh, la mia intelligenza funzionava anche prima di conoscerti. Tu hai solo dato un motivo per migliorarla- azzardò, parole che uscirono dalla sua bocca come un fiume in piena. Era così preso dall’emozione di poter avere di nuovo John al suo fianco che non rifletteva più prima di parlare.
Ma poi si rese conto della reazione che suscitò in John. Egli arrossì, si scorticò nervosamente le pellicine delle mani e sorrise timidamente.
Entrambi non sapevano come quelle sensazioni stessero invadendo il loro corpo, sapevano solo che, guardandosi l’un l’altro, innescavano antichi tremori alle mani, rossori alle guance e battiti accelerati.
 
Nelle due settimane successive Sherlock riuscì a tornare pian piano a Baker Street, sotto l’attento interrogatorio della signora Hudson, che voleva sapere ogni dettaglio della loro permanenza all’ospedale. Era venuta solo a sapere che John aveva riacquistato le sue funzioni motorie, era tornato a camminare e a curarsi esteticamente, che mangiava abbondantemente e che gli avevano tolto le flebo. Omesse il particolare del dottore che gli faceva le valigie, costringendolo a tornare nell’appartamento a pulire.
Stava armeggiando il computer, quel giorno, facendo delle ricerche su un caso di scomparsa di un animale (trovava interessante perfino quello, dato che si annoiava praticamente tutte le ore del giorno), quando il telefono gli squillò.
Numero sconosciuto.
-Qui Sherlock Holmes- disse, come suo solito, senza domandarsi troppo chi fosse. Voleva avere una certezza della sua iniziale ipotesi.
-Credo che lei già abbia dedotto la mia identità, signor Holmes- gli rispose una voce meccanica dall’altro capo, -e credo che lei già sappia la questione della testa da me inviata-
-Oh, ma certo. Sapevo che era opera tua. La vendetta personale senza interferenze è davvero così piacevole come si dice?-
-Alquanto. Ad ogni modo, lei ha ancora diritto a una ricompensa. Cos’è che vuole, a parte il numero di sterline adeguato?-
-Vorrei poterti rincontrare, un giorno, Victoria-
-Quel giorno è vicino, signor Holmes-.
 
La signora Hudson, fischiettando allegramente, stava asciugando i piatti nella piccola cucina, con la radio accesa su un canale di musica dei vecchi tempi, quando alla porta suonarono.
Non curante, pensò fosse qualche cliente del detective, pronto a chiedere udienza, ma quando aprì la porta e si trovò davanti John Watson quasi le volò di mano la padella e lo strofinaccio con il quale la asciugava. John le sorrideva; la benda che si intravedeva tra i bottoni slacciati della camicia.
Ripresasi dallo spavento, ricambiò il sorriso allargando le braccia e abbracciandolo.
-John! Che bello rivederti! Come sarà contento Sherlock nel vedere che sei tornato! Non ci hai detto nulla, non sapevo che tornassi qui così presto!-
-Ho avuto il consenso di uscire prima, dato che mi ero ormai ripreso. La prego di non urlare così tanto, Sherlock potrebbe sentirla…e per favore non mi stringa così, le ferite non si sono ancora rimarginate del tutto-
-Quindi Sherlock non sa nulla?- disse lei, sorpresa piacevolmente, -Ha voluto fargli una sorpresa, non è così? Oh che belli questi avvenimenti degli innamorati! Pensi che mio marito, nel lontano..-
-Scusi signora Hudson, ma non credo che abbia tempo per ascoltare le sue chiacchiere. Potrebbe prepararmi del tè, gentilmente? Ah, dopo provvederò io a portare la mia piccola valigia al piano di sopra-
-Ma certo! Ma certo!- canticchiò lei, questa volta non ribadendo di non essere una governante. Filò in cucina e cacciò una grossa scatola di tè nero.
John salì il primo scalino, contento di rivedere ciò che oramai chiamava “casa”. Quei vecchi gradini di legno non gli erano mai sembrati così accoglienti, e poggiare la mano su quel corrimano fu come toccare le nuvole.
Salendo, sapeva che Sherlock avrebbe riconosciuto i suoi passi. Lo faceva sempre, calcolando perfino il peso della persona in avvicinamento. Certo, John era dimagrito parecchio, ma credé che il detective l’avrebbe riconosciuto comunque.
Il cuore gli batteva più forte ogni scalino che avanzava, la sua mente studiava un presunto dialogo dopo aver varcato quella porta; studiava il suo aspetto fisico: si era pettinato i capelli all’indietro e si era rasato a dovere, inoltre cercava di camminare nella maniera più sciolta possibile, in modo da non sembrare dolorante per via della spalla. Quel dolore lo aveva già tormentato una volta, ma non ci si era mai abituato.
Sherlock aveva appena poggiato il telefono sul tavolo, quando sentì i passi.
Peso: 85 Newton.
Poggia prima il tallone e poi la punta. Soffre per qualche dolore, distribuisce il peso in maniera iniqua, non nella sua andatura naturale.
Esita su qualche gradino: insicurezza…timidezza.
John.

Piccoli fiori blu spuntavano dalle crepe, a mazzetti, nutrendosi dell’acqua nera non ancora prosciugatasi.
Si alzò, avanzando a gran passi verso la porta. La mano si fermò ancora prima di raggiungere il pomello. Avrebbe fatto bene a corrergli incontro? Sapeva tante cose, Sherlock Holmes, aveva recitato molte volte la parte del fidanzato, da quello più dolce e premuroso a quello menefreghista; sapeva milioni di miliardi di frasi, dolci, amorose, tristi, di conforto; eppure non sapeva come comportarsi in quel momento.
John gli aveva salvato la vita, e non solo quella notte, lo aveva capito, compreso, aiutato.
Lo aveva ammirato nella sua totalità, lo aveva fatto ragionare.
Lo aveva amato.
Mai Sherlock avrebbe pensato di essere amato da un'altra persona, maschio o femmina che fosse e, ancora meno, avrebbe pensato di innamorarsi a sua volta.
Aprì la porta, dopo un profondo respiro.
Si trovò a faccia a faccia col dottore, con la mano tesa dove poco prima era presente il pomello.
-John- disse semplicemente, annullando tutti i discorsi che gli tartassavano la mente.
-Sherlock- rispose John, guardandolo dritto negli occhi.
Ci fu un lungo momento di imbarazzo, in cui i due si guardavano senza dirsi nulla, mille parole che danzavano da una pupilla all’altra.
Poi John si soffermò a guardare l’appartamento: tutto era al suo posto, i mobili risistemati secondo una logica ben precisa.
-Hai pulito, vedo. Per una volta mi hai ascoltato- disse John sorridendo, entrando nel soggiorno.
-Non prenderci l’abitudine- rispose lui, non riuscendo a smettere di guardarlo.
John si sedette sulla sua poltrona rossa, cautamente poggiando il braccio ferito. Sherlock si posizionò sulla sua, resistendo alla tentazione di avvicinarsi a lui e ad abbracciarlo.
-Hai lavorato a molti casi in questo periodo?-
-Noia, noia, noia. Ho fatto quasi tutto qui, non mi va di uscire-
-Uhm- arricciò il naso.
Altra pausa imbarazzante.
John si alzò, dando un’occhiata al computer, ancora acceso, di Sherlock.
-“orgasmo legato alla violenza”. Sherlock, non dirmi che questi sono i tuoi passatempi sessuali-.
Il detective stava per replicare, quando notò che John stava guardando dei fogli di carta ammucchiati ordinatamente sulla scrivania.
Solo poco dopo si accorse della grave dimenticanza.
John afferrò il primo foglio, lesse poche righe, nonostante avesse riconosciuto la scrittura, la carta, la data. Il suo volto divenne lentamente rosso, ma di rabbia.
-Cosa…cosa ci fai con le mie lettere?- balbettò, agitando il foglio.
-Le trovai tra le tue camicie, quella fatidica sera. Non avevo altra scelta che leggerle, sono quelle che mi hanno condotto a te, altrimenti non avrei saputo come fare- disse Sherlock, mantenendo la sua calma glaciale.
-Ah sì?- urlò John, sbattendo la lettera sul pc, spegnendolo, -Il grande detective Sherlock Holmes che non sa come fare! E io ci dovrei anche credere? Come la storia del suicidio? Io dico che tu ti sei divertito a leggere le mie cose personali, come con le e-mail delle mie ex fidanzate-
-Quelle sì che erano divertenti. No John, sto cercando di dirti che sono riuscito a capire tutto il gioco di Lily e di Willem grazie alle poche righe di Martin. Non mi interessa cosa vi univa, nonostante sia ben consapevole che era amore. Per me l’unica priorità in quel momento era trovare te-
-Trovarmi per mostrare all’Inghilterra quanto tu sia bravo con i crimini, per far vedere che razza di specie di detective tu sia?!- urlò John, puntandogli l’indice contro.
-No- disse Sherlock, avvicinandosi a lui, -perché non facevo altro che pensare a come tu stessi, a cosa quel maledetto ti stesse facendo, a cosa rischiavo di perdere, se non ti avessi trovato. Non mi sarei mai perdonato la tua morte-.
John rimase letteralmente folgorato da quelle parole, come se gli avessero regalato milioni di sterline in contanti. Sherlock che gli diceva una cosa così…dolce? In che razza di situazione stava capitando?
-Casomai dovrei capire perché tu abbia salvato un idiota come me- concluse il detective. Gli occhi erano animati da una strana luce, nonostante fossero fermi come sempre, e di quel colore ghiacciato che lo pietrificava ogni volta che lo guardava.
-Perché tu sei il più grande uomo, il più grande amico, la persona a me più cara che ho. Se ti avessi perso come successo a Martin, che razza di uomo sarei stato successivamente? Non avrei avuto motivo di continuare a vivere, con i rimorsi, con la nostalgia dei nostri momenti migliori. L’ho già passato quel periodo, dopo il tuo finto suicidio: ero un uomo morto che camminava- disse John, guardando l’espressione indecifrabile di Sherlock.
Il detective gli sorrise.
-Ti sono mancato?- disse, con occhi calorosi.
-Oh, Dio, sì-.
Sherlock lo abbracciò, in un modo affettuoso e vero che non aveva mai sperimentato. Il calore dei loro corpi si fuse, i loro cuori battevano così vicini. Per John era come stare in un letto caldo e morbido in pieno inverno. Si sentiva così sicuro, colmo di vita, felice.
-Non so cosa tu mi faccia, John Hamish Watson. Il tuo profumo rilassa ogni mio muscolo, come se stessi assumendo morfina. Il tuo calore riesce a scaldarmi, i tuoi occhi spengono ogni mia attività celebrale. Hai preso possesso non solo della mia persona, ma anche del mio palazzo mentale-, disse Sherlock, prendendo il volto di John tra le mani, e guardandolo dritto negli occhi, -le tue labbra mi mettono in una tale agitazione, fanno ribollire il sangue nelle mie vene…-.
Si avvicinò a lui, oramai poteva respirare il suo ossigeno.
-…tu sei riuscito a farmi innamorare di te, John-.
Il dottore rimase stupefatto. Il cuore sembrava picchiare la gabbia toracica, implorando di uscire disperatamente. Quella dichiarazione così inaspettata, così…
Sherlock voleva baciarlo.
Gli prese i polsi, lo spinse a distanza, poi lo lasciò andare.
-No, Sherlock, mi hai baciato troppe volte- disse John, a muso duro.
La delusione negli occhi di Sherlock era palpabile. Lo aveva rifiutato davvero?
Allora era proprio vero che l’amore è sofferenza, che non bisogna mai abbassarsi ad amare qualcuno, chiunque esso sia.
-Ti chiedo scusa per il mio comportamento. Ho lasciato il mio desiderio fisico prendere il sopravvento- disse Sherlock, facendo per andarsene.
John lo fermò prendendolo per un polso, poi con l’altra mano gli afferrò il colletto e lo tirò a sé. Si complimentò per l’ottima recitazione, più volte da soldato aveva mascherato contentezze e dolori con quella maschera da menefreghista insensibile. Sorrise.
-Sherlock Holmes con del desiderio fisico. Questa te la rinfaccerò finché non morirò- sussurrò, poi dischiuse le labbra e baciò Sherlock.
Il detective, appena avvertì il contatto della morbida bocca del dottore, si abbandonò alla più completa forma di sentimento; continuò a baciarlo, a sentire quelle labbra umide e calde, il calore che gli invadeva il basso ventre, il torace, la testa.
Ogni tanto uno schiocco echeggiava nel silenzio della stanza.
Pareti, crepe, persone, erano invase da mazzetti blu di piccoli fiori profumati.
Poteva sentire le rondini, Sherlock Holmes. Poteva vedere la primavera dopo tutto l’inverno rigido che era stata la sua vita.
A John veniva da sorridere, per quanto era felice: la morbidezza dei ricci del detective che sfioravano il suo volto, quelle labbra che mordevano le sue, il suo respiro corto, il calore delle sue mani sulle sue guance, i cui pollici lo accarezzavano.
Tutto quel desiderio represso che si scatenava, come una tempesta, tra le labbra dei due.
Si aprì una porta, ci fu un momento di silenzio.
Ma a loro cosa importava?
Cadde una tazza, poi un’altra.
Si staccarono l’uno dall’altro solo quando sentirono una donna urlare.
L’anziana signora, stava, con la bocca spalancata in un urlo muto, immobile a fissarli, mentre del tè nero si allargava sul pavimento copiosamente.
-Ah, signora Hudson!- disse Sherlock, andandole incontro, -credo che non ci sarà più bisogno della stanza al piano superiore-.


 
 
 
[Nota dell’autrice: Ebbene, miei cari lettori, benvenuti all’ultimo capitolo, l’epilogo. Mi dispiace che sia passato quasi un secolo dall’ultima pubblicazione, ma sapete cos’è maggio per gli studenti, e se vi facessi vedere il mio diario vi prendereste un colpo….inoltre ho un nuovo arrivo in famiglia, una piccola gattina di nome Trilly, che mi ha portato via molto tempo per la scrittura e per la concentrazione.
Ma eccomi qua, alla fine, in tutti i sensi. Ringrazio tutti per aver partecipato al mio percorso con questa storia, da quelli che hanno commentato a quelli che si sono letti un solo capitolo: per me siete stati tutti importanti, dal primo all’ultimo. Vi voglio tanto bene.
All’inizio la mia insicurezza era un ostacolo insormontabile, ma poi ho pubblicato il primo capitolo, e la droga è iniziata. Vi dico che, qualunque cosa vogliate fare nella vostra vita, METTETEVI IN GIOCO! Rischiate! Fregatevene del giudizio degli altri, ci sarà sempre qualcuno pronto a sostenere le vostre idee, a condividerle. Voi mi avete aiutato tanto, e ve ne sarò eternamente grata.
Come avrete già immaginato, ci sarà un sequel a breve, e ci sarà il grande ritorno di Victoria!
Dunque, che dire, vi ringrazio di cuore. Questo non è un addio, ma un arrivederci.
BlackStone, Alessia. ]
   
 
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