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Autore: Clockwise    09/06/2016    2 recensioni
Chiudono gli occhi, entrambi, uniti e lontani ad un tempo. Lo stesso sospiro – tornare a casa.
[...]
«Mi dispiace, John.»
Scosse la testa.
«Di esserti innamorato di me?»
Sherlock non rispose; lo fecero i suoi occhi, trasparenti come acqua.

Amanda ha diciannove anni quando va a Londra per la prima volta in cerca di suo padre, in cerca di risposte, costringendo John e Sherlock, ormai estranei, a fare i conti con loro stessi.
"Nostos": in greco, "viaggio di ritorno", "ritorno a casa".
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson, Molly Hooper, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mycroft
 
So we beat on, boats against the current, borne back ceaselessly into the past.
F. Scott Fitzgerald, The Great Gatsby
 
 
Parlano tutti contemporaneamente.
«Mycroft? Cosa, come–?»
«Il ritratto di Mary.»
«Io sarei tua figlia?»
Amanda tiene gli occhi puntati su Sherlock, che le stringe ancora la mano. Lui assottiglia gli occhi, corruga appena le sopracciglia. Si volta verso John, lascia andare la mano della ragazza.
«Mycroft è morto ieri sera, l’ho saputo mentre ero in treno. Ha contratto la febbre gialla mentre era in Nigeria, o almeno, questa è la versione ufficiale: in realtà è stato avvelenato per ordine di un piccolo funzionario del governo britannico, ma sto ancora cercando di capire chi e con che cosa, appena Molly farà l'autopsia ne saprò di più e potrò dare adito ad uno scandalo nazionale.»
Amanda sbatte le palpebre, stordita dal flusso di parole. John si passa una mano sul volto.
«Gesù, Sherlock, è terribile. Mi dispiace.»
Sherlock solleva il mento e assume una postura più rigida, stringendo appena le labbra.
«Se lo aspettava. Non credevo mi avrebbe preceduto, comunque.»
John non riesce a staccare gli occhi dal suo profilo granitico, dai suoi occhi troppo liquidi, dalle pupille troppo grandi – occhi di bambino. Non è cambiato affatto, negli anni – è anche più bello di come lo ricordasse, misterioso e sfuggente come la prima volta che l’ha visto.
«Perché dici di essere mia figlia?» domanda Sherlock, tornando a guardare la ragazza. Lei si riscuote, passandosi una mano fra i capelli.
«Oh, io... Mi chiamo Amanda Holmes, e ho sempre pensato...»
«Falso. Mary ti ha dato quel nome perché sarebbe stato certamente più semplice, per te, rintracciare un Holmes piuttosto che un Watson: è un cognome piuttosto raro.»
Amanda sente il suo cuore palpitare più veloce, il sangue turbinarle nelle orecchie. John chiude gli occhi e deglutisce. Ha temuto questo momento da quando ha visto Amanda sulla soglia di casa tre giorni prima.
«Cosa... Cosa vorrebbe dire? Watson, non capisco...»
Sherlock piega il capo di lato, un sorriso a un tempo sornione e indulgente.
«Oh, sono certo che capisci benissimo, invece.»
Quindi si volta verso John, assumendo un cipiglio sorpreso e quasi infastidito.
«Non gliel'hai detto?»
Amanda sposta lo sguardo dall'uno all'altro, agitata.
«Detto cosa? Chi di voi due è mio padre? Dottor Watson, John, perché non mi hai detto niente?»
Nello sguardo scuro di John c'è vergogna e paura. Scuote appena la testa – non ha parole da darle. Lei si volta verso Sherlock, in cerca d'aiuto.
«Mary e John Watson sono i tuoi genitori biologici.»
Il petto di Amanda si alza e si abbassa al ritmo del suo respiro accelerato. Sente un groppo di lacrime ostruirle la gola, un grumo di delusione e rabbia e confusione riempirle la bocca.
«I-io non... John?»
Diamine. È stato padre per tre giorni e già sua figlia lo guarda così.
Solleva le spalle, sentendosi improvvisamente piccolo e rattrappito, come prosciugato.
«Amanda. Non hai mai voluto me come padre.»
Lei scuote la testa, coprendosi la bocca con una mano. Lo guarda, ma non riesce a parlare. Sherlock le posa una mano sulla spalla e, gentilmente ma con fermezza, la fa sedere sulla poltrona di John. Quindi si volta verso la cucina, non prima di aver fatto segno a John di seguirlo.
 
 
•••
Era una strana forma di terrore, quella che lo attanagliava per alcuni brevi momenti, di notte o quando guardava il profilo calmo di John. Sherlock non poteva, in tutta onestà, dirsi infelice, tutt'altro: non ricordava di aver mai provato tanta gioia per così tanto tempo.
«Sherlock, mi passeresti il telecomando, per favore?»
La voce di John era morbida, calda, come tutto il suo essere: dolcemente adagiato sulla spalla di Sherlock, sembrava immerso in una bolla di calore e serenità, pacifico e sonnolento come un gatto sazio. La facilità con cui si appoggiava a lui, si lasciava andare contro di lui, fisicamente e non, era disarmante. Sherlock non pensava che qualcuno avesse mai potuto affidarglisi così tanto, fidarsi di lui a tal punto.
Gli porse il telecomando e lo guardò cambiare canale pigramente, gli occhi socchiusi, pronti per il sonno. Si sarebbe probabilmente addormentato sul divano e a Sherlock sarebbe toccato il gramo – no, affatto – compito di portarlo in camera da letto.
John gli strinse un braccio e si sistemò meglio sul divano scricchiolante, spingendoglisi di più addosso. Sherlock non si mosse, né reagì in alcun modo. Non aveva mai accettato che neppure sua madre lo abbracciasse o lo accarezzasse, da una certa età in poi, eppure John non gli dava alcun fastidio, al contrario. Spostò il braccio destro, che iniziava a formicolare, schiacciato contro il fianco di John, e glielo poggiò sulle spalle, timido. John sorrise e districò il suo braccio sinistro per passarglielo intorno alla vita, stringendolo a sé senza timore.
Sherlock poggiò la testa all'indietro sul muro e chiuse gli occhi, lasciandosi pervadere dal calore familiare e confortevole diffuso dalla pelle di John.
Non aveva mai provato una felicità così completa, così perfetta, se non nei suoi sogni o quando era bambino. Per questo, abbassando gli occhi sulla testa biondo-argento, fu assalito dal sottile terrore che quella felicità, come gli era stata concessa, così sarebbe potuta sparire, lasciandogli un vuoto e un dolore come non ne aveva mai provati prima. Certo, ricordava bene quando quanto era stato difficile, quando aveva dovuto fingere il suicidio e vivergli lontano per due anni, quando John aveva sposato Mary, quando Mary se n’era andata e loro non sapevano che fare di sé stessi, e John era così distante. Ma se fosse dovuto succedergli qualcosa di simile ora, ora che si erano trovati… Una morsa di terrore cieco gli ghermì le viscere, gli tolse il respiro.
John gli si fece più vicino, mormorò qualcosa, già a metà strada per il sonno. Sherlock lo strinse a sé.
•••
 
 
L'acqua scroscia con violenza dentro la teiera.
«Perché non gliel'hai detto?»
John scuote la testa, coprendosi gli occhi con le mani.
«E come potevo?» sussurra, in un misto di furia e rimpianto. «È arrivata qui, tutta felice, “la figlia di Sherlock Holmes”, era... sembrava così orgogliosa di poter anche solo ipotizzare di essere tua figlia.»
Lo guarda, una nuvola di disperazione sul volto.
«Non potevo deluderla. Non volevo. E poi...»
Sherlock non ricambia il suo sguardo, ma lo tiene d'occhio nel riflesso capovolto della teiera, mentre la mette sul fornello.
«Oh, andiamo, guardami, Sherlock. Ho cinquantaquattro anni. Negli ultimi sette non ho fatto altro che andare e venire dalla clinica, la mia vita è rimasta piatta e uguale per sette anni. Sono un accumulo di polvere!»
Sherlock si volta, ora, e il dolore negli occhi di John lo colpisce in pieno volto.
«Come potevo dirle che un disastro del genere era suo padre? Sarebbe mai potuta essere orgogliosa di me? Pensare che il famoso investigatore fosse suo padre sembrava renderla felice, io non volevo deluderla.»
«Non pensavi di dirglielo affatto? Di lasciarla andare e basta?»
John si prende la testa fra le mani.
«Non lo so, non ci ho veramente pensato. Magari, speravo che, conoscendomi, avrebbe potuto, non so... Non trovarmi troppo deludente. Magari le sarei andato bene anch'io.»
Sherlock torna a rivolgersi ai fornelli, lasciando che John nasconda di nuovo il viso dentro i palmi delle mani. La teiera fischia, richiamandoli all'attenti.
«Tu saresti stato un bravo padre, John» mormora, senza guardarlo.
«Certo, come no» sbuffa John, scuotendo la testa in un'amara risata. «Guarda che bel lavoro che ho fatto...»
Sherlock versa il tè in tre tazze, le posa su un vassoio mentre John prende latte, zuccheriera e cucchiaini. Si aspettano, coordinano i movimenti, in armonia anche dopo tanti anni.
John lo ferma con una mano sul suo braccio mentre sta per aprire la porta.
«Mycroft? Voglio dire, sapevi niente, come…»
Il volto di Sherlock si irrigidisce e al contempo i suoi occhi si fanno morbidi, liquidi, trasparenti.
«Sembrava un’influenza, al telefono. Non mi ha detto nulla. Mi ha chiamato la sua assistente quando era già troppo tardi.»
John scuote appena il capo, rafforzando la presa sul suo braccio.
«Gesù, Sherlock…»
Non sa come continuare. Ti starò vicino? Ci sono qui io? Ti aiuterò a superare anche questo? Suonano tutte promesse vuote, ora. Lascia cadere il braccio e segue Sherlock in soggiorno.
Amanda è lì dove l'hanno lasciata, nella poltrona di John, con lo sguardo perso nel vuoto. Solleva appena gli occhi quando entrano.
«Voglio la storia, ora. Tutta la storia.»
John guarda Sherlock, che tiene gli occhi sul suo tè. Ricambia brevemente l'occhiata, prima di parlare.
«È tutta opera di Mycroft.»
 
 
•••
18 Aprile
 
Sherlock.
 
Quello che sto per dirti potrebbe farti infuriare. Ti prego di non volermene: tutto è stato fatto per il bene tuo e di John, e dell’Inghilterra stessa.
 
Diciannove anni fa, Mary ricevette l’ennesima minaccia. Esponenti della mafia russa, con cui una volta lei aveva avuto a che fare, erano riusciti a rintracciarla. Mary aveva tentato di negoziare, ma avrebbe dovuto pagare un prezzo troppo alto: te e John.
Chiese il mio aiuto; glielo concessi.
Non potevamo agire diversamente: Mary doveva allontanarsi subito, aspettare la nascita della bambina sarebbe potuto essere pericoloso. Senza un soggetto da ricattare, i russi erano innocui – come avrai ben capito, il loro obiettivo eri tu, cercavano di costringere Mary a venderti.
So cosa obbietteresti: avremmo potuto “combattere” per lei, sconfiggere i cattivi. Purtroppo, non è così che funziona il mondo: non esistono eroi né dei che salvano la situazione in extremis; il mondo è fatto di compromessi, di sacrifici, di do ut des.
Una mia conoscenza mi doveva un favore: possiede un podere nei pressi di Dresda, in Germania, a malapena utilizzato, isolato nel mezzo della campagna. Mary e la bambina, Amanda, hanno vissuto lì per cinque anni. Ovviamente, la bambina non doveva sapere nulla: credeva di essere stata adottata da un funzionario del governo – nella fattispecie, io – e che Mary fosse la sua governante inglese. Lo ammetto, è stato terribilmente tedioso dover partire per la Germania così spesso, sebbene non mi trattenessi a lungo – un paio di giorni al massimo, dubito che Amanda saprebbe riconoscere il mio viso, ora (nonostante, ormai, sia altamente improbabile che io la incontri nel prossimo futuro). È stato difficile soprattutto tenerlo nascosto a te – ma tu sembravi occupato altrimenti, per nostra fortuna.
Mary non è riuscita a fuggire per sempre, tuttavia: l’hanno trovata, prima che io potessi intervenire.
La sua morte è un rimorso che mi tormenta costantemente.
 
Amanda ha avuto diverse istitutrici, frequentato ottimi collegi, in Germania prima, in Inghilterra poi. Ora studia felicemente a Cambridge.
In tutta onestà, sono sorpreso che tu ci abbia messo così tanto a rintracciarla e, se proprio vuoi saperlo, sono stato io a fare quella soffiata ai tuoi informatori – stavi impiegando troppo tempo, quasi diciotto anni, Sherlock, il dottore è riuscito a distrarti davvero a lungo.
 
Forse sarà difficile per te, ma spero tu capisca le mie – le nostre – ragioni. Non potevamo agire diversamente, né potevamo dirvi nulla – il vostro equilibrio era troppo fragile, ma tu lo sai meglio di me. Dopotutto, il Dottor Watson ha pianto la tua morte per due anni.
 
Forse, avrei potuto rivelarvi tutto dopo la vera morte di Mary, ridarvi Amanda. Non l’ho fatto. In parte, temevo che, scoperto il mio coinvolgimento nella faccenda, i nostri rapporti si sarebbero potuti inasprire – ho già tanto da farmi perdonare da te, Sherlock. In secondo luogo, e te lo dico in tutta franchezza, non credevo sareste stati in grado di crescerla – conducevate una vita tanto fuori dall’ordinario, la vostra meccanica era ancora così instabile. Inoltre, provavo un incomprensibile senso di protezione, verso quella creatura: in collegio si trovava bene, era circondata da ragazze e ragazzi della sua età, studiava diligentemente e aveva buoni rapporti sociali. Mi mandava addirittura cartoline. Non credevo che portarla a Londra sarebbe stato un bene, per lei: in quell’età delicata, sarebbe potuto essere destabilizzante. Col passare degli anni, è diventato sempre più difficile. In fondo, continuavo a ripetermi, non sta passando un’adolescenza troppo diversa da quella che ho passato io, dentro e fuori da collegi e scuole private. Ora mi rendo conto dell’errore che ho fatto, e della grande forza d’animo di Amanda: io ho ricevuto l’amore dei nostri genitori, e guarda cosa sono diventato; lei è cresciuta da sola, ed è – e sarà – infinitamente migliore di me. Ma non serve che te lo dica io.
 
Venendo a materia di più immediata importanza – mi dispiace, Sherlock. Ho commesso più di un errore, nella mai vita, primo fra tutti non essermi fidato abbastanza di te. Ti ho sempre protetto troppo, invischiato nel mio affetto troppo radicato per essere espresso correttamente – non sono mai riuscito a vederti per quello che eri, che stavi diventando. Me ne rincresce. Ho fatto del mio meglio. È stato difficile togliermi dagli occhi l’immagine di te bambino, le spalle curve e il viso triste, furioso, disperato. Sei sempre stato così fragile, Sherlock. O meglio: io ti ho creduto – e in parte, reso – tale, al punto da non accorgermi mai della tua forza, del tuo sconfinato amore.
Perdonami, un giorno.
 
Mycroft
•••
 
 
John ha chiuso gli occhi durante tutto il racconto, scuotendo lievemente la testa – non può crederci; Amanda li ha tenuti spalancati, fissi su Sherlock, sempre più lucidi.
Il silenzio si dilata per lunghi minuti, innalzandosi fra loro come le volute di vapore dal tè. È John, improvvisamente, a romperlo.
«Non posso credere che Mary…»
«Vuol dire che Greta… Mia madre… E non l’ho mai saputo…»
Guarda in alto, verso gli altri due. Sherlock le restituisce uno sguardo muto; John sembra accartocciarsi su sé stesso.
«Da quanto lo sai, Sherlock?»
«Anthea mi ha consegnato la lettera stamattina.»
John scuote la testa.
«Da quanto sai di Amanda?»
La ragazza tiene i suoi occhi fissi sul detective, tremanti. Quasi preferirebbe non saperlo. Sherlock abbassa il capo – sa bene che John l’ha capito dalla lettera di Mycroft, ma vuole farglielo ammettere ad alta voce.
«Un paio di anni. L’ho scoperto poco dopo essere tornato da Parigi.»
John annuisce, deglutendo. La delusione e il rancore sono evidenti sul suo viso. Con un gesto secco, volta la testa verso Amanda, escludendo Sherlock dalla sua visuale.
«Amanda, se non ti ho detto nulla è perché...»
Vorrebbe chiudere gli occhi, non sopporta il suo sguardo risentito, ma si impone di resistere.
«È difficile. Amavo Mary.»
Sherlock trattiene appena il respiro, come tutte le volte.
«E amavo te, che non c'eri. Mi dispiace, davvero.»
Amanda annuisce, il viso adombrato.
«Posso capirlo, credo.»
«Grazie.»
Sherlock posa la tazza vuota sul vassoio.
«Bene, ora che questo è chiarito, passiamo oltre.»
John e Amanda lo guardano entrambi perplessi e sconvolti.
«Nessuno deve sapere che sono qui, o ricominceranno con le minacce di morte, le ultime sembravano serie, non vorrei doverle affrontare, troppo seccante. Per quanto riguarda Mycroft, i funerali si svolgeranno domani, a Highgate, alle due. I miei genitori arriveranno in mattinata con il treno delle dieci, dovrò andare a prenderli, John spero vorrai farmi compagnia. Ora devo andare, Molly mi aspetta al Bart's, spero che abbia già concluso l'autopsia, o quanto meno iniziato.»
Si alza in piedi, lisciandosi le pieghe della giacca, e si avvia verso il divano, dove ha lasciato il cappotto.
«Andiamo John» comanda, quasi automaticamente, mentre lo indossa. «Oh, Amanda, ovviamente puoi venire anche tu, se non hai altro da fare, ma ti avverto, il Bart's–»
«Non sono più il tuo blogger.»
Sherlock si blocca con metà braccio fuori. Si sistema lentamente e si volta verso John. Lui scuote la testa, gli occhi stanchi, abbattuti.
«Sette anni, Sherlock. Non posso dimenticare.»
Il detective abbassa gli occhi, annuisce una volta, incassa il colpo.
«Arrivederci, John. Amanda?»
«Eccomi.»
La ragazza balza in piedi, affrettandosi verso la sua giacca di jeans, abbandonata anch'essa sul divano. Sherlock ha già superato la soglia, ma lei esita un secondo.
«Io... Ciao, John.»
Ha scelto lui, pensa John, con rammarico e rassegnazione. Di nuovo.



 

Buonasera!
Sono finalmente riuscita ad aggiornare – per il prossimo capitolo, però, temo dovrete aspettare di nuovo.
Spero la spiegazione di Mycroft sia stata all'altezza delle aspettative e di non aver deluso nessuno. Ci stiamo avvicinando ai capitoli clou
Ho modificato leggermente gli avvertimenti (grazie Koa!) in Angst e Drammatico – a questo punto, si sono resi necessari.
Grazie di cuore a chi è arrivato fin qui e a chi segue/recensisce/preferisce!
A presto!
-Clock
 
  
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