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Autore: I_am_the_darkness    17/06/2016    2 recensioni
"Migliaia di schegge di vetro attorno ai miei piedi.
Delle urla mi arrivano alle orecchie. Di paura? Forse di dolore.
Mi guardo attorno. Sono stata io a fare questo? Osservo i muri sporchi di sangue e le finestre senza vetri, questi ultimi sparsi a terra, come se un'esplosione fosse avvenuta nell'aula, e mi rendo conto che, senza neanche accorgermene, avevo perso il controllo. Di nuovo."
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio, Sabaku no Gaara, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Naruto prima serie, Naruto Shippuuden
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CAP 1
Mi ritrovai su una superficie morbida, che realizzai infine essere un futon. Le coperte mi avvolgevano in un abbraccio caldo, quasi protettivo. Per un istante immaginai che fossero le braccia amorevoli di mia madre a stringermi in quell’abbraccio, per darmi conforto, per darmi un po’ di forza anche solo per aprire le palpebre e ritornare alla realtà di tutti i giorni.
Aprii con fatica le palpebre, appesantite dalla stanchezza, che adesso mi opprimeva. Mi costrinsi a rimanere con gli occhi aperti e a sedermi per tentare di scacciare anche gli ultimi residui di sonno. Il buio avvolgeva ogni cosa, me compresa, rendendo gli anfratti della stanza inquietanti ai miei occhi, facendomi immaginare strane e orribili creature che sbucavano fuori per portarmi via. Mi guardai intorno con circospezione, mentre i miei occhi pian piano si abituavano al buio, e capii di essere nella mia stanza. Mi strofinai gli occhi con la mano, togliendo le cisti che si erano accumulate agli angoli dei miei occhi e sbadigliai. Il silenzio era irreale e piacevole nella casa, non so cosa avrei dato per averlo anche di giorno, per stare nel silenzio più totale e poter leggere in pace i libri in cui trovavo sempre conforto e compagnia, quella che le persone non erano in grado e non volevano darmi. 
Un raggio di luna, fino ad allora probabilmente nascosta dalle nuvole, quasi volesse fare un dispetto a non far vedere la sua bellezza mozzafiato, filtrò dalla finestra della mia camera, illuminandola quasi a giorno. Mi alzai togliendomi di dosso le coperte color blu elettrico, e andai alla finestra. Mi misi in punta di piedi per poter vedere meglio il paesaggio notturno che si stagliava al di fuori della mia camera, gli alberi erano immobili, non un soffio di vento li smuoveva, i raggi della luna rendevano l’erba argentata e facevano brillare la brina che si era formata sulle foglie e sui fili d’erba, ma non era il paesaggio terreno quello che mi interessava, oh no, per quanto magnifico e affascinante fosse, ciò che c’era in cielo mi intrigava di più. La luna che con i suoi bagliori argentei donava la sua luce alle piante, alle case e al villaggio intero, e mi incantava, sarei potuta rimanere ore ad osservare quello spettacolo di pura bellezza che solo pochi prescelti potevano davvero notare in tutte le sue sfumature. Cos’era il cielo senza la luna? Solo una distesa di blu profondo che poteva farti annegare a guardarlo a causa della sua oscurità, solo una tela nera senza colori, solo il nulla che ti avvolgeva e ti stremava. Alla luna tutto era concesso, lacrime, sorrisi, sogni e pensieri, lei li prendeva e li teneva al sicuro senza dirli a persona alcuna, come una confidente sempre pronta ad ascoltarti e senza mai giudicarti, la luna vecchia consigliera delle notti più buie o più luminose.
Chiusi gli occhi per un attimo godendomi la sua luce sulla mia pelle, un attimo di relax che poteva rinvigorirmi corpo e anima. Udii a un certo punto voci provenire dal piano inferiore, voci sommesse probabilmente per non farsi sentire da nessuno, cioè da me. Mi avvicinai alla porta facendo meno rumore possibile, per non far scoprire il fatto che stavo origliando, e misi poi un orecchio su di essa per sentire meglio. 
-Come mai questa visita a quest’ora di notte?- chiese una voce profonda. Mio padre, un uomo burbero ma di buon cuore, con capelli e occhi neri come la pece, che tuttavia avevano sempre una luce vivace in essi, che notavo subito appena lo guardavo negli occhi. 
-Lo dovrebbe sapere il motivo, visto quanto accaduto ieri mattina.- rispose un uomo a me sconosciuto, probabilmente un jonin. Mi sorpresi quando disse ieri mattina. Ma quanto ho dormito? 
-Già… ieri mattina. Beh ma è stato un incidente, non è di certo colpa di mia figlia. E poi non poteva venire questo pomeriggio o domani, invece di piombare qua senza preavviso?- 
-Dovevano fare una riunione per decidere cosa fare, e sono venuto qua per informarla che la decisione che è stata presa è per il bene, oltre che per il villaggio, per voi.- 
-E quale sarebbe questa decisione, sentiamo che precauzioni sono state prese per far sentire la gente più protetta da una bambina di otto anni.- disse mio padre infastidito e colpito sul vivo da quello che sapeva stava per dirgli lo sconosciuto. Ero indecisa tra la decisione di farmi seguire ovunque da una squadra di jonin e la decisione di rilegarmi in casa a vita, se non per qualche uscita sporadica. Mi appiattii ancora di più alla porta. Sentii il jonin ridacchiare per la reazione di mio padre per poi smettere subito dopo.
-Dovete andarvene.- disse piatto l’uomo, come se quella che avesse detto fosse una cosa senza importanza, come se stesse chiedendo che tempo faceva fuori. Strinsi i denti e continuai ad ascoltare, ma tutto quello che seguì fu un lungo silenzio, in cui immaginai la faccia di mio padre sbiancare sempre di più, le sue mani strette a pugno, quasi volesse frenare l’impulso di prendere a pugni l’uomo davanti a lui.
-E lo dice così? Come se questo non comportasse una vita praticamente distrutta? Mia figlia… mia figlia ha subito la perdita di sua madre da poco tempo e adesso lei vorrebbe che ce ne andassimo, lasciando qua i suoi amici, per quanti pochi siano?- chiese mio padre incredulo con la voce rotta. Strinsi le labbra. In questo posto non avevo neanche un amico, le persone mi stavano alla larga a causa della mia diversità e a me stava bene così. Credo.
-Non io. Lo vuole la gente, oltre che al capo di questo villaggio e un buon capo ascolta sempre il popolo, non crede anche lei?- disse ridacchiando. Strinsi i pugni talmente forte da conficcarmi le unghie nei palmi. Sembrava quasi che gli piacesse prendere in giro mio padre. Anzi ero sicura fosse così. Professionalità zero inoltre…
-Non mi prenda per il culo.- ringhiò mio padre in un impeto di rabbia. Potevo quasi vedere il suo volto ora rosso di rabbia e i suoi occhi luccicare dalla rabbia impetuosa che teneva in corpo. Il jonin ridacchiò ancora, come se trovasse la rabbia di mio padre esilarante.
-Mio figlio è stato quasi ucciso da quel mostro che adesso è probabilmente addormentato in camera sua tranquillo come se niente fosse, dormendo sonni tranquilli mentre mio figlio è in terapia intensiva lottando per la vita. È già un’ingiustizia che la lascino andare semplicemente in un altro villaggio, anziché ucciderla seduta stante, visto il pericolo che è per le persone intorno a lei.- sibilò l’uomo a mio padre con cattiveria e rabbia. Quelle parole ammutolirono mio padre e trafissero il mio cuore, perché in fondo era una verità che sapevo e non avevo il coraggio di dire a me stessa, una verità che faceva male più di ogni altra cosa, la verità di essere un pericolo, un mostro e che quando te la sbattono in faccia senza peli sulla lingua è come ricevere una pugnalata. 
-Mia figlia non è un mostro… è stato un incidente. Se suo figlio non fosse stato così stupido da infastidire mia figlia fino a farla scoppiare, non è un problema nostro.- gli risposte non troppo convinto, perché in fondo lo sapeva anche lui che quello che aveva detto era la verità, ma l’affetto paterno che provava nei miei confronti, il fatto di essere l’unica adesso a ricordargli la mamma, lo spingeva ad arrampicarsi sugli specchi nel tentativo di difendermi da quelle accuse fondate. 
-Lei è cieco. È accecato dall’affetto che prova per sua figlia e non si rende conto del pericolo che realmente è. Domani mattina dovete fare le valigie e andarvene da questo villaggio, se sarete ancora qui allora dovremo mandarvi via con la forza…- disse sottovoce il jonin, ormai esausto quanto mio padre, che rimase in silenzio e chiese dopo un po’ dove saremmo dovuti andare. -Villaggio della Sabbia.- ottenne questo come risposta. E poi nient’altro. Sentii la porta di casa aprirsi per poi richiudersi subito dopo, lasciando solo un silenzio insostenibile, che avvolgeva i pensieri miei e di mio padre, un silenzio che avrei rotto volentieri questa volta se avessi potuto, per non sentire più il senso di pesantezza che mi opprimeva. La cosa peggiore era che non mi sentivo in colpa per ciò che avevo fatto, non mi sentivo pentita di aver mandato in terapia intensiva quel bambino, mi sentivo in colpa tuttavia per le conseguenze che avrebbero portato le mie azioni.
Mi staccai dalla porta e tornai alla finestra, dalla mia luna, dal mio cielo, stavolta con i singhiozzi trattenuti di mio padre a fare da sottofondo e i miei occhi rossi, che scrutavano il cielo, erano attratti come una calamita, ora più che mai, da quello spettacolo e le mie lacrime silenziose offuscavano la mia vista, che ormai vedeva solo un nuovo giorno all’orizzonte, una nuova vita, una nuova casa.
   
 
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