Videogiochi > Life Is Strange
Segui la storia  |       
Autore: GirlWithChakram    24/06/2016    5 recensioni
Max Caulfield, neolaureata, è riuscita ad ottenere la possibilità di lavorare per la nota rivista di arte "FRAME", creata e gestita da Mark Jefferson, suo professore ai tempi della Blackwell Academy. Trovandosi con il compito di individuare un artista emergente da portare sotto i riflettori, la giovane non ha idea che il destino metterà sul suo cammino, nel modo più inaspettato, una pittrice dal passato problematico. Cosa accadrà quando l'arte porterà a convergere le loro vite altrimenti destinate a non incrociarsi mai?
[Pricefield]
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri | Personaggi: Chloe Price, Max Caulfield, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
III: Again Recklessness Triumphs | L’impulsività trionfa di nuovo
 
Un rumore insistente mi destò dal sonno leggero in cui ero scivolata. Stiracchiandomi, arrivai ad afferrare il cellulare che avevo lasciato nella giacca, abbandonata per terra.
L’ora di cena era vicina, quel riposino imprevisto, compiuto subito dopo la visita da Chloe, era servito a rigenerarmi le forze.
Feci scivolare il dito sullo schermo, accettando la chiamata.
«Pronto?» biascicai.
«Maxine Caulfield» mi redarguì la voce dall’altro capo «Avevi promesso che mi avesti chiamata appena finito il turno per raccontarmi il tuo primo giorno di lavoro.»
Mi stropicciai gli occhi e poi passai la mano a scarmigliarmi i capelli. «Lo so, Kate, mi dispiace…» mormorai, trattenendo uno sbadiglio.
«Hai idea di tutte le cose che mi sono passate nella testa in queste ore?» continuò la mia amica, decisa a farmi una bella ramanzina «Potevano averti drogata, rapita, magari persino uccisa!»
«Ok, Katie, ora stai esagerando» bofonchiai, mentre tentavo di alzarmi dal letto «Sono viva, sto bene. Dopo il lavoro sono stata distratta da una cosa e appena rientrata in casa sono crollata addormentata.»
«Che cosa hai combinato per avere la testa da tutt’altra parte?» domandò, tornando ad assumere il suo solito tono gentile.
«Sarà meglio che cominci da capo» dissi, radunando i pensieri.
Le raccontai di Victoria, di Juliet e Dana, di Daniel e della sua figuraccia con il povero Warren e, naturalmente, le parlai di quanto avevo scoperto dall’articolo su Beth Price. Proseguii narrando ciò che era accaduto nell’appartamento di sopra, dall’incontro con Rachel agli scatti di rabbia di Chloe.
«Certo che la tua vita è sempre un’avventura» commentò la Marsh quando ebbi concluso il resoconto «Solo tu potevi scoprire di avere un genio dimenticato dell’arte che ti cammina sopra la testa.»
«E in tutto ciò» sbuffai «Il bagno continua a gocciolare come un ossesso.»
Kate tacque un secondo.
«Lo so che stai sogghignando, Kate Beverly Marsh» brontolai «Posso capirlo dal tuo respiro.»
Lei si arrese e si lasciò andare ad una fragorosa risata.
«Ridi, ridi…» borbottai «Prenditi pure gioco di me! Potremmo farne uno sport nazionale.»
«Scusa, Max» sogghignò, tentando di placare le risa «Però devi ammettere che la situazione è bizzarra.»
«Già, come minimo… Tutta la mia vita è strana, mai una cosa che vada come dovrebbe.»
«È proprio questo il bello dell’esistenza: non sai mai cosa aspettarti» sentenziò la ragazza «Per esempio, chi l’avrebbe mai detto che ti saresti presa una cotta per una scontrosa punk con problemi di gestione della rabbia?»
Rimasi di sale. «P… Puoi… Ripetere?» balbettai, sicura di aver capito male.
«Oh, andiamo, Max!» replicò Kate «Ti conosco da troppo tempo per non leggere i segnali.»
«Ma se non mi hai neppure vista in faccia» obiettai, poco convinta.
«Mi hai parlato di lei in modo ossessivo» sottolineò «Mi hai ripetuto ogni singola parola letta su di lei, come a memoria. È stato inquietante. E poi quando mi hai detto di averle posato la mano sul braccio… Sembrava che stessi toccando con mano un angelo tanto eri rapita dal rievocare la scena.»
Rimasi muta, riflettendo su quelle frasi.
«L’ho fatto davvero?» sussurrai incredula dopo una trentina di secondi.
«Croce sul cuore.»
«No, Katie, ti sarai fatta un’impressione sbagliata» tentai di difendermi «La ammiro molto come artista, ma la conosco da ventiquattro ore e neppure così bene…»
«Andiamo! È il classico colpo di fulmine!» esclamò la Marsh, convinta della propria teoria.
«No, no e poi no» negai, scuotendo il capo per enfatizzare il concetto «È tutto nella tua testa.»
«Non mi parlavi così di qualcuno dai tempi di Tom» ribattè «E sappiamo tutti com’è andata con lui.»
Thomas Harris era stato un mio compagno di college a Seattle, ci eravamo conosciuti due settimane dopo l’inizio dei corsi, ad una lezione di arte moderna. All’inizio dell’ora io, sovrappensiero come al solito, mi ero seduta dietro un banco senza badare a cosa stessi facendo ed avevo brutalmente deformato un paio di costosi occhiali da sole che qualcuno aveva poggiato sulla sedia. Dieci minuti dopo era entrato in aula, reggendo un caffè in una mano e il libro di testo nell’altra, un ragazzo alto, con una scompigliata zazzera nera in testa, avvolto in una gigantesca felpa scura. Mi aveva riempita di insulti per avergli rovinato gli occhiali e a nulla erano serviti i miei mille e più tentativi di scuse. Ma da quel momento il destino aveva iniziato a farci incrociare sempre più spesso, fino a farci stringere amicizia, nonostante l’incidente all’origine del nostro incontro. Il piccolo gruppo di amici di cui facevo parte aveva accolto volentieri Tom tra le proprie file e così avevo iniziato a frequentarlo anche fuori dall’università. Kate mi aveva fatto notare subito quanto fossi ossessionata da quel tipo, ma avevo negato tutto.
Sei mesi dopo il disastro degli occhiali ci fu il nostro primo bacio, seguito da molti altri. Per mesi non ero riuscita a rimuovere dalla testa la voce della mia amica che ripeteva “te lo avevo detto” fino alla nausea.
Dopo un anno e mezzo di rapporto, proprio quando stavamo per iniziare insieme il terzo anno, la storia si concluse. Nessuno di noi due aveva saputo dire quale fosse stato il fattore scatenante, ma la nostra relazione era diventata una semplice convenzione, ci davamo per scontato e non mi ero sorpresa di sapere che aveva iniziato da un po’ a vedersi spesso con un’altra.
Quella era stata la mia prima ed unica relazione e ne ero rimasta talmente segnata da non permettere a nessun altro di prendere posto nel mio cuore. Eppure sembrava che una certa rosa blu avesse piantato radici in fretta, totalmente a mia insaputa.
«Non è per niente come con Thomas» mi opposi, tornando a concentrarmi sulla conversazione.
«Come vuoi» fischiettò Kate «Ma poi non venire a piangere da me quando realizzerai che avevo ragione fin dal principio.»
«Invece di inventare storie sui miei rapporti personali» cambiai prontamente argomento, vedendo uno spiraglio di salvezza «Che mi dici dei tuoi mocciosi? Sempre a rincorrersi e a litigarsi le matite?»
«Jennifer ed Allison hanno di nuovo bisticciato e questa volta si è messo in mezzo anche Omar» iniziò a raccontare, infervorata.
Ascoltai di come i tre bambini si fossero accapigliati per una boccetta di colla col glitter, finendo col spargerne il contenuto in giro per tutta l’aula. Kate aveva passato quasi un’ora a levarsi brillantini dalle scarpe e dal maglioncino.
«Yo, Max!» mi richiamò Warren mentre la Marsh era sul punto di cominciare a raccontarmi della recita del suo gruppo di preghiera «La cena è servita!»
«Scusa, Katie» mormorai «Devo andare. Il gran predatore Graham deve aver procacciato il pasto.»
«Certo, nessun problema» replicò la ragazza «Buon appetito, Max. A domani… E salutami la tua preziosa punk!»
Attaccai ed uscii, raggiungendo il mio coinquilino, che stava spacchettando la spesa, mettendo a posto i diversi prodotti alimentari.
«Sono passato dal ristorante giapponese in fondo alla strada e ho preso del sushi» mi informò, indicando un sacchetto a parte.
Mi leccai i baffi all’idea e a tempo di record ci ritrovammo sul divano ad abbuffarci di riso e pesce, guardando insieme un po’ di televisione.
Trascorremmo una serata tranquilla, ritrovando quell’intesa che avevamo i tempi della Blackwell, interrompendoci l’un altro a suon di citazioni nerd.
Andai a letto tutto sommato contenta della mia giornata, puntando la sveglia per essere in tempo al Two Whales per la colazione con Daniel.
Prima di chiudere gli occhi, osservai ancora una volta il dipinto della rosa, che avevo steso alla bell’e meglio e appoggiato accanto al mio equipaggiamento fotografico. Mi addormentai ripromettendomi di comprare una cornice che gli rendesse giustizia.
Il trillo dell’infernale strumento di tortura atto a strapparmi puntuale dal mondo dei sogni giunse inatteso. La mia mente stava vagando felice, trascinata tra le rapide di un fiume di petali turchini, quando l’infido oggetto aveva iniziato la propria danza impazzita.
Disinnescai la sveglia, con il vago timore che altrimenti sarebbe esplosa o avrebbe fatto esplodere il mio cervello. Mi trascinai assonnata fino in bagno e feci una rapida doccia, cogliendo l’occasione per notare la macchia in imperterrita espansione.
Dopo che ebbi finito di lavarmi e vestirmi, quando erano ormai le otto meno un quarto, bussai alla porta della camera di Warren.
«Ehi, senti» dissi, contando sul fatto che fosse già in piedi «Prendo la macchina per andare al Two Whales e poi la uso per andare al lavoro, ci rivediamo questa sera.»
Afferrai le chiavi del veicolo, controllai di avere tutto lo stretto indispensabile con me e lasciai casa, dirigendomi verso il diner.
Il Two Whales era ad Arcadia Bay da tempo immemore, probabilmente era stato proprio lui a dare il via alla costruzione della città. Era un punto di ritrovo per tutti gli abitanti, faceva parte dello spirito stesso della cittadina.
Raggiunsi il parcheggio della tavola calda in una decina di minuti, guidando piuttosto spedita, nel timore di fare tardi.
Piazzai l’automobile in uno dei numerosi spazi disponibili e mi presi in un momento di tranquillità per fare il punto di ciò che avrei dovuto concludere durante la giornata: passata la colazione, sarei andata da FRAME e non avevo idea se rivelare a Jefferson che l’affare con Beth Price era andato in fumo ancor prima di cominciare. Non volevo ammettere una simile disfatta.
Sospirai, amareggiata. I miei buoni propositi erano stati spazzati via da quello sguardo furente e quelle parole dure.
Sfilai le chiavi dal quadro di accensione ed aprii la portiera, aspettandomi di poter poggiare un piede sull’asfalto senza correre pericolo. Mi sbagliavo.
Con una sgommata degna di un campione di rally, un malconcio pick-up si piazzò alla mia sinistra, ad un soffio dalla portiera semiaperta. Se avessi teso il braccio qualche centimetro in più, la demoniaca vettura me lo avrebbe tranciato via.
Mi fiondai fuori dal veicolo, pronta a lanciarmi in un’epica disputa con lo scellerato autista. Chiusi lo sportello dell’auto con una tale rabbia che pensai di averlo in qualche modo rovinato, ma non avevo tempo per preoccuparmi di un eventuale graffietto.
«Chi ti ha dato la patente, razza di idiota!?» sbottai, sentendo qualcuno scendere dal pick-up «Non hai visto che stavi per ammazzarmi?»
«Che cazzo di esagerazione…» mi rispose il potenziale criminale, anzi, la potenziale criminale, compresi nel sentire una voce fin troppo familiare.
Quando Chloe si voltò per osservare chi fosse ad avercela con lei, i suoi occhi si spalancarono per la sorpresa. Si limitò ad accompagnare quella scoperta con un: «Oh.»
Mi passai una mano sul viso, nel tentativo di cancellare l’enorme, confusa, matassa di pensieri e parole che mi stava affollando la mente. La pittrice era l’ultima persona che avevo voglia di vedere, dopo tutti gli stupidi discorsetti di Kate.
«Voglio che tu sappia una cosa: questo non è il mio consueto modo di augurare il buongiorno» borbottai, cercando di ritrovare un briciolo di contegno dopo averle urlato contro.
«Tranquilla» rispose «Avevi stra-ragione ad avercela con me, non avrei dovuto sgommare in quel modo, non così vicino alla tua macchina.»
Sventolai la mano, per farle intendere che la questione fosse ormai risolta.
«Posso… Magari… Sì, cioè…» iniziò a balbettare, calcandosi ancor più in testa il cappello scuro che teneva in parte nascosta la sua chioma colorata «Farmi perdonare offrendoti la colazione?»
Avvampai. «Molto gentile da parte tua» replicai, combattendo contro la timidezza che stava tentando di ammutolirmi «Ma ho già un appuntamento.»
Per la seconda volta, la Price emise quello strano verso di stupore, quasi di disappunto. O forse stavo vedendo solamente ciò che volevo vedere. «Chiunque sia, è un uomo fortunato»  disse, cacciandosi le chiavi della vettura in tasca con quella che mi parve un po’ troppa enfasi.
«Non è  un appuntamento appuntamento» tentai di chiarire «Mi vedo con un collega per un caffè.»
Per la terza volta, quel suono bizzarro lasciò le sue labbra.
«Allora» proseguii, tentando di allontanare l’imbarazzo che rischiava di farci collassare entrambe «Sei qui per la colazione?»
«Sì, come quasi ogni giorno da quando sono tornata a vivere in questo buco di città» ribattè «Immagino tu abbia letto su FRAME che sono nata qui, beh non c’è scritto che ho praticamente passato la mia infanzia là dentro» continuò indicando il diner «Per te è la prima volta al Two Whales?»
Avrei voluto trattenermi dallo scoppiare a riderle in faccia, ma non ci riuscii.
«Cosa ho detto di così divertente?» domandò, sconcertata.
«Niente» mormorai «Ma decisamente non è la prima volta che metto piede là dentro.»
«Avevi detto di esserti trasferita ai Pan Estates da poco e ho immaginato che tu venissi da qualche posto lontano…» tentò di giustificarsi.
«Tranquilla, non potevi saperlo, ma sono anche io originaria di qui» le spiegai «Posso dire anche io di essere cresciuta in quella tavola calda. Anzi, vista la quantità di sabati mattina che ho passato seduta a quei tavolini, potrei averlo segnato come residenza. Mio padre mi ci portava e mi affidava alle cure della cameriera, una donna buonissima che mi faceva avere sempre qualche fetta di bacon in più, fino a che poi lui non tornava a riprendermi dopo le commissioni.»
Non sapevo per quale ragione avessi sommerso la punk con tutte quelle frasi, quando mi sarebbe bastato fermarmi alla prima.
«Sai cosa? Mia madre ha lavorato al Two Whales per una schifosa quantità di anni!» esclamò «Magari era lei.»
Rievocai l’immagine sorridente della donna che mi serviva quando ero piccola e, come mettendo a fuoco una fotografia, arrivai a leggere il nome sulla targhetta. «Tua madre è Joyce?» chiesi.
«Così risulta all’anagrafe» sussurrò «Era lei?»
Annuii, riprendendo con il mio sproloquio: «Era la migliore cameriera del mondo, le ero molto affezionata. Una volta le avevo proposto di presentarsi per il career day alla mia scuola…» Fui costretta a lasciare in sospeso il pensiero, ricordandomi che Joyce mi aveva risposto declinando gentilmente, ma aggiungendo che sua figlia non glielo aveva mai proposto ed avrebbe preferito avere una “brava ed educata bambina come me” invece del suo terremoto.
«Conoscendo mamma ti avrà detto che non poteva permettersi di saltare un turno di lavoro per una simile pagliacciata.»
«Una cosa del genere…» risposi, tenendomi sul vago.
«Comunque non ci saranno fette di bacon in più, oggi» annunciò «Mia madre e il mio patrigno si sono trasferiti nel Maine ormai da qualche anno.»
Mi spiacque sentire ciò e una nuova serie di domande iniziò a frullarmi in testa, ma non potevo entrare in modalità stalker ossessiva o avrei dovuto dare ragione a Kate, per cui mi limitai ad accennare col capo di aver inteso.
«Ti ho trattenuta anche troppo» riprese «Il tuo non appuntamento ti starà aspettando.»
«Certo» bisbigliai tra me e me.
«Allora… Ciao e buona giornata» tentò di congedarsi la punk, avviandosi verso l’interno del locale.
«In realtà» appuntai «Andiamo dalla stessa parte, per cui…»
La affiancai e, ridacchiando per allontanare nuovamente l’imbarazzo, ci muovemmo a grandi passi verso la tavola calda.
Entrando fui investita da un fiume di ricordi, di mattinate passate a dondolare i piedi dalle poltroncine mentre con la forchetta muovevo nel piatto i bocconi di cibo per crearne delle figure.
Il sentore di caffè, misto a quello dei piatti salati, servì a rivitalizzarmi all’istante.
«A questo punto ti saluto davvero» rise, appoggiandomi una mano sulla spalla «Anche perché vedo un tizio sbracciare come un matto per farsi vedere ed immagino non sarebbe carino trattenerti ulteriormente.»
«Buona giornata, Chloe» mormorai con un sorriso, dimentica di quanto accaduto appena qualche minuto prima nel parcheggio, quando sarei saltata al collo del pirata della strada per fargliela pagare.
«Altrettanto a te, Max» disse, facendo poi un cenno al cameriere, come se stesse confermando il proprio ordine abituale.
Raggiunsi Daniel che, come la pittrice aveva brillantemente osservato, stava quasi rischiando di ribaltarsi, tanto si stava sporgendo nella mia direzione.
«Sei venuta!» esultò «Cominciavo a temere che te ne fossi dimenticata.»
«No, figurati… Sono uscita un po’ tardi e mi sono trattenuta a chiacchierare nel parcheggio» replicai, accomodandomi di fronte a lui.
Il giovanotto adocchiò la punk, spostando poi lo sguardo su di me, chiaramente indeciso se lasciarsi andare ad un commento rischioso come quello del giorno precedente.
«È una mia vicina di casa» lo anticipai, per prevenire qualsiasi tipo di equivoco.
«Sembra proprio una persona… Ahm… Originale» balbettò «E ha qualcosa di noto… Potrei averla già vista da qualche parte?»
«Non che io sappia» mentii, dovendo proteggere l’identità di Beth Price.
Il discorso venne interrotto dal cameriere, che si avvicinò al nostro tavolo con il blocco delle ordinazioni alla mano.
Per quanto la chiacchierata con Chloe avesse risvegliato in me una voglia matta di omelette e bacon, mi limitai a chiedere un caffè e un muffin, mentre il mio collega prese una pila di pancakes grondanti di sciroppo.
Quando DaCosta allungò la mano sinistra per portarsi alle labbra la tazza, il gesto mise in risalto l’anello d’oro che sfoggiava all’anulare.
«Non avevo notato che fossi sposato» osservai.
«Fidanzato ufficialmente» mi corresse «Stiamo decidendo una data per il prossimo autunno.»
«La tua futura moglie è già entrata in modalità Bridezilla?» chiesi.
Mi sarei aspettata una risposta ironica, ma non che Daniel scoppiasse a ridere sguaiatamente.
«Scusami, Max » mormorò, continuando a sogghignare «Ma davvero non ho saputo resistere…»
Confusa, aggrottai le sopracciglia, sforzandomi di capire cosa non avessi colto.
«Bruce si piegherà dalle risate quando glielo racconterò.»
A quel punto, tutto mi fu chiaro. Aprii bocca, decisa a cominciare con una sequela di scuse, ma DaCosta mi stoppò prima che potessi emettere anche una sola sillaba.
«Non c’è bisogno di sprecare il fiato con quisquilie del genere» disse «Visto che ci conosciamo da pochissimo non potevi saperlo, comunque, per il bene dell’onestà… Max, devi sapere che sono gay e quello che tu hai insinuato essere preso dalla febbre del matrimonio è il mio compagno Bruce, l’uomo più tranquillo della terra. Io, piuttosto, sto diventando pazzo all’idea di tutti quei posti da assegnare, il servizio catering da prenotare e via dicendo.»
Iniziò a parlarmi del proprio partner con un sorriso sornione, raccontandomi di come, in quel momento, fossero costretti a vivere separati per via del lavoro di Bruce, che era stato trasferito in Minnesota, ma appena ufficializzate le nozze sarebbe tornato ad Arcadia Bay.
La sua narrazione si interruppe all’improvviso, facendomi preoccupare per un momento. «Cosa c’è?» domandai.
Lui tenne lo sguardo fisso oltre le mie spalle. «La tizia dai capelli blu ha finito di mangiare almeno cinque minuti fa e non ha mai smesso di fissarti, mi sembra un comportamento un po’ insolito, per non dire inquietante.»
Avrei dovuto mantenere il sangue freddo, ignorando quel fatto, ma, invece, la mia testa scattò ruotandosi insieme al mio busto di centottanta gradi.
Non appena i nostri sguardi si incrociarono, Chloe sbattè le palpebre, si cacciò le mani in tasca ed uscì.
«Bizzarro, decisamente bizzarro» constatò il ragazzo «Vi conoscete da tanto? Ne dubito.»
«In effetti sono passati solo due giorni dal nostro incontro.»
«Lo sospettavo… Eppure sembra proprio che lei si sia presa una cotta per te.»
Il sangue mi si gelò nelle vene.
«A questo punto Bruce interverrebbe dicendomi che vedo sempre cose che non ci sono» riprese «E che sono un romantico senza speranza.»
«Lei ha una ragazza» gli dissi.
«Questo non vuol dire niente» ribattè «Anche io ero impegnato quando conobbi Bruce, ma appena posai gli occhi su di lui e gli parlai, seppi immediatamente che, alla fine, in un modo o nell’altro sarebbe stato l’amore della mia vita.»
Deglutii un sorso di caffè bollente, pensando che Daniel e Kate sarebbero andati estremamente d’accordo e sarebbero stati il perfetto Dinamico Duo per tormentarmi.
«Un mese dopo ho rotto con il mio fidanzato di allora e ho iniziato ad uscire con quello che, a breve, sarà mio marito.»
Dialogammo ancora per una ventina di minuti, poi pagammo ed uscimmo, raggiungendo le nostre vetture nel parcheggio. Guidammo fino al palazzo di FRAME e, nuovamente riuniti, salimmo in ascensore.
«Ti auguro buona giornata, Max» sorrise, una volta giunti al sesto piano «Se non hai da fare, vieni a trovarmi al dieci durante la pausa.»
«Contaci» gli assicurai, andando poi a prender posto alla mia scrivania.
Trascorsi le ore alla ricerca di un nuovo artista su cui basare il mio articolo, con risultati pessimi. Giunta la mezza, raggiunsi Daniel e mangiammo insieme, continuando le ciarle della mattinata.
Alle cinque rientrai a casa, scambiai qualche battuta con Warren, chiamai Kate e mi misi ad osservare i miei vecchi scatti fotografici. Tramontato il sole, Graham ed io ci riunimmo per cena davanti al televisore e poi mi trascinai fino al letto, in attesa di cominciare una nuova giornata.
Quelle azioni, praticamente identiche a loro stesse e in quel preciso ordine, si ripeterono per un’intera settimana. La monotonia di quella routine venne spezzata solamente dalla visita di Boris che assicurò che prima o poi un idraulico si sarebbe fatto vivo, per il resto nulla venne a turbare la mia nuova quotidianità. Jefferson  non aveva insistito per la storia di Beth Price, anzi, sembrava quasi averla rimossa, il che giocava a mio vantaggio visto che non ero riuscita nel mio pretenzioso intento.
Dieci giorni dopo il mio arrivo a FRAME, un mercoledì, mentre ero impegnata a seguire Dana come un’ombra, assistendola come Victoria voleva, Taylor venne a chiamarmi per conto di Jefferson.
Con passo pesante, mi feci strada fino al quattordicesimo piano e da lì proseguii fino all’ufficio del capo.
Quando entrai, notai subito Nathan Prescott che, seduto sul divanetto sulla sinistra, stava sfogliando un book di fotografie che sembrava fresco di stampa. Da dietro la scrivania, Mark, intento a parlare al telefono, mi fece segno di aspettare un momento.
Sbirciai la lettura del giovane ereditiero, catturando il nome stampato sul dorso del volume: il suo.
«Nathan, era l’editore» alzò la voce il direttore «Se approvi questa versione, manderanno il libro in stampa cosicché sia pronto per la tua esposizione di luglio.»
Il ragazzo scorse qualche altra pagina, permettendomi di notare i numerosissimi scatti in bianco e nero dai temi vagamente gotici ed inquietanti, il soggetto preferito di Prescott da quello che avevo osservato anche dalla galleria all’undicesimo piano.
«Mi pare che sia buono, tutto sommato» sbuffò, chiudendo il tomo «Dirò a mio padre di confermare la stampa.»
Il ragazzo si alzò, salutò Jefferson ed uscì, ignorandomi completamente, come se fossi trasparente.
«Perdona le maniere del mio giovane amico» mi disse il fotografo, invitandomi a prendere posto sulla sedia opposta alla propria «Non è molto socievole e tende a vivere in un mondo tutto suo.»
«Credo che non mi abbia fatto chiamare per discutere di Prescott, però» osservai.
«Vero, Max» mormorò, incrociando le braccia sul piano della scrivania «Victoria mi ha informato che ancora non hai individuato un artista per il tuo pezzo…»
Deglutii sonoramente, sapendo dove sarebbe andato a finire quel discorso.
«Non avevi già in ballo qualcosa con Beth Price? Che fine ha fatto quel progetto?»
Abbassai lo sguardo, assumendo la mia peggiore aria da cane bastonato. «Non è andato molto bene» bofonchiai «Mi dispiace…»
«Suvvia, non è niente di grave» mi rassicurò l’ex-professore «Sarebbe stato un gran colpo per FRAME, ma possiamo cavarcela con altro… Sai cosa dovresti fare?»
Rialzai la testa, pronta a venire illuminata dalla saggezza dell’uomo.
«Passare un po’ di tempo nei piani sotterranei, nell’archivio. Oltre ad esserci parte delle opere non esposte ci sono anche articoli mai pubblicati che potrebbero farti rintracciare qualche volto ormai lontano dai riflettori da qualche tempo.»
Soppesai quella proposta: era molto valida, in più mi avrebbe dato modo di lasciar respirare le povere Juliet e Dana che non ne potevano più di avermi a ronzare là intorno.
«Domani prenditi la giornata per muoverti in libertà in quel labirinto» propose il capo «Ho fiducia in te, Max, so che alla fine mi consegnerai un lavoro eccellente.»
Lo ringraziai e poi fui congedata, così da poter tornare al sesto piano per ultimare la mia infruttuosa ricerca della giornata.
Tornai a casa in auto e salii le scale in un lampo, dopo aver letto sul cellulare un messaggio di Warren che mi pregava di sbrigarmi.
Aprii la porta e rischiai di inciampare in un paio di valigie.
«Che sta succedendo?» domandai, recuperando l’equilibrio.
Il mio coinquilino si stava muovendo come una trottola impazzita, vorticando da un lato all’altro dell’alloggio, ammucchiando vestiti e fogli in giro, portando ancor più caos in casa.
Lo afferrai per le spalle mentre trasportava una palla fatta di calzini e chiavette USB. «Warren, vuoi dirmi che ti è preso?»
«Mamma» rantolò.
Il mio cuore mancò un battito. Benché avessi visto la signora Graham solo un paio di volte, le ero affezionata fin dai tempi della Blackwell e non potevo tollerare che le fosse capitato qualcosa di male. Lei e il marito avevano lasciato Arcadia Bay per raggiungere alcuni parenti nello Utah e vivevano a Salt Lake City ormai da anni, ma erano ancora molto legati al figlio e, di conseguenza, ai suoi amici.
«È inciampata sul vialetto di casa» esplose, tornando a correre in tondo «Adesso è in ospedale, devo andare subito da lei. Papà deve restare in negozio e non potrà assisterla a casa… Appena mia zia rientrerà dal viaggio in Europa, potrò tornare, ma fino ad allora rimarrò con lei, intanto per lavorare qua o là, mi fa poca differenza.»
«Ma non è nulla di grave, vero?» chiesi per avere conferma.
«Frattura scomposta dell’omero, un po’ una scocciatura visto che le hanno dovuto bloccare tutta la spalla» spiegò, cacciando una manciata di cose nella borsa da viaggio «Ho già impacchettato tutto, parto immediatamente. Dovrò portarmi via la macchina, mi dispiace» continuò «Per qualsiasi evenienza, spese impreviste o simili, ci sono un po’ di spicci nella scatola in fondo al mio armadio.»
Si caricò in spalla i bagagli e, naturalmente, gli diedi una mano vedendolo incespicare dopo il primo gradino.
«Ti chiamo appena arrivo» promise, prima di abbracciarmi e balzare in auto.
«Salutami tutti, soprattutto tua madre.»
«Sarà fatto» mi assicurò, mentre il rombo del motore copriva le sue ultime sillabe.
«Fa’ buon viaggio» gli augurai, quando ormai non era che un puntino blu perso nel mio campo visivo.
Con un sospiro, risalii fino all’appartamento ed iniziai a fare un po’ di ordine.
Mangiai poco e malvolentieri, aspettando la quotidiana chiamata di Kate e dopo aver condiviso gli eventi della giornata con la mia amica, crollai in un sonno profondo e senza sogni.
Alle sei del mattino venni svegliata da un’altra chiamata, quella di Warren, che dopo tredici ore di guida era finalmente arrivato dai suoi e mi porgeva i saluti della sua cara mamma.
Nonostante fosse piuttosto presto, decisi di alzarmi a quell’ora, approfittando per farmi una lunga doccia calda e nutrirmi a dovere con una colazione a base di waffle e frutta fresca.
Alle otto e venti, per essere sicura di non fare tardi, mi avviai verso la fermata dell’autobus e in mezz’ora arrivai da FRAME.
Mi fiondai direttamente nei sotterranei e mi lasciai assorbire dai preziosi tesori là sotto sepolti, trovandomi a girovagare tra cornici polverose, stampe ingigantite di fotografie e persino qualche articolata scultura dalle forme insolite. C’erano poi pile e pile di fogli contenenti appunti dei colleghi che mi avevano preceduta ed informazioni sugli artisti su cui avevano concentrato il proprio lavoro. Mi sembrava così strano che in una struttura aperta solamente da tre anni si potesse essere accumulata tanta roba, soprattutto vista la quantità di informazioni che doveva trovarsi anche in forma digitale. Jefferson, però, era un uomo della vecchia scuola, ancora affezionato alla pellicola, un vero patito dello sviluppare i propri lavori nella camera oscura, quindi non c’era da sorprendersi poi molto se insistesse per avere una copia fisica di quasi ogni lavoro.
Spulciai i fascicoli dei primi mesi di attività della rivista, scoprendo diversi talenti di cui non avevo mai sentito parlare. Mi appuntai qualche nome per ragionarci quella sera con calma, nella solitudine e malinconia dell’appartamento vuoto.
Appena scattarono le cinque, sgattaiolai fuori dall’edifico, evitando ogni contatto umano. Se avessi incrociato Daniel si sarebbe messo a chiacchierare ed io volevo solamente tornare a casa per starmene tranquilla.
Ripresi l’autobus e quaranta minuti dopo mi trovai davanti al portone del condominio.
«Porca miseria» imprecai a denti stretti, cercando le chiavi nella borsa. Ogni volta che riuscivo a sfiorarne il metallo, le sentivo scivolare nuovamente al fondo, confondendosi con le varie cianfrusaglie che mi portavo dietro.
«Vicina di casa alla riscossa!» intervenne alle mie spalle una voce squillante.
«Mia salvatrice» ringraziai quando Chloe, con gesti esagerati, aprì la porta, facendo un inchino per lasciarmi passare.
«È sempre un piacere aiutare una donzella in difficoltà» replicò, strizzandomi l’occhio «Devo ricordare al mondo che la cavalleria non è ancora morta.»
«Vuoi una mano?» domandai, notando la spaventosa quantità di sacchetti che si apprestava a portare con sé.
«Non devi farlo solo perché ti senti in dovere di ricambiare il favore» ridacchiò.
«Devo ricordare al mondo che la cavalleria non è morta» le feci il verso.
Insieme, salimmo fino al terzo piano, fermandoci alla porta del 3A.
Annaspando per lo sforzo compiuto, mi appoggiai alla ringhiera delle scale, mentre la punk armeggiava con la serratura.
Portai le sporte dentro l’alloggio, poi feci per andarmene, decisa a tornare ai miei programmi di depressione in solitaria, ma una mano smaltata di blu mi afferrò il polso, bloccandomi.
«Ehi, non è che ti andrebbe di fermarti un momento?» domandò la Price, masticando qualche sillaba nella fretta di formulare la frase.
Gettai lo sguardo intorno, indecisa sul da farsi. «Non vorrei dare fastidio…» balbettai nel tentativo di accampare una scusa.
«Rachel è a Los Angeles per un casting» disse, quasi volesse giustificare quell’invito, rendendolo ai miei occhi ancor più pericoloso «Non ho voglia di bere da sola, dai… Puoi chiamare anche il tuo amichetto, se ti va. Mi piacerebbe conoscerlo.»
«Anche Warren è fuori città» risposi «Sono da sola a casa.»
«Un motivo in più per restare!» esultò «Forza, stappo le prime birre!»
Si allontanò ancheggiando, forse un po’ troppo vistosamente, fino all’angolo cucina. Estrasse due bottiglie dal frigorifero e afferrò un apribottiglie a forma di faro appeso vicino ai fornelli.
«Alla miglior serata tra ragazze della storia!» brindò porgendomi una Blue Moon.
Infervorata da quel suo spirito festaiolo non potei che rispondere prendendo un lungo sorso della fresca bevanda. Non ero tipo da eccedere con l’alcol, anzi, solitamente me ne tenevo abbastanza alla larga, se non durante le rare feste a cui prendevo parte.
«Giù, giù, forza» mi incitò la pittrice, sollevando leggermente il fondo della mia bottiglia, spingendomi a bere di più «Ci sono almeno altre dieci di queste bellezze che ci aspettano.»
Per una volta, decisi che mi sarei concessa un po’ di svago.
«Allora, Max…» iniziò Chloe, dopo che ebbe tracannato la prima birra «È l’abbreviazione di qualcosa? Maxella?»
«Maxella?» risi «Che ti viene in mente?»
La ragazza sghignazzò a propria volta.
«Sta per Maxine» proseguii «Maxine Caulfield.»
«Piacere di conoscerti, Maxine Caulfield» disse, afferrandomi la mano e stringendola «Questo evento merita un’altra birra.»
La cosa era a dir poco ridicola, ma preferii non contraddirla, lasciando che mi stappasse e piazzasse in mano un’altra bottiglia.
«Io sono Chloe» mormorò.
«Lo so già» ribattei «E il tuo cognome è Price.»
«Giusto, giusto, tu hai fatto le tue ricerche da brava cacciatrice di talenti» commentò «Comunque il nome completo è Chloe Elizabeth Price.»
«Beth!» esclamai, illuminata «Ecco il perché del tuo pseudonimo!»
Un sorriso nostalgico si dipinse sulle sue labbra. «Vuoi sapere perché l’ho scelto?»
Non potevo non approfittare di quell’occasione. Annuii, tendendo le orecchie, pronta a carpire ogni informazione.
«La storia ha inizio quando ero solo una bambina che si divertiva a giocare con suo padre» cominciò a raccontare «Papà lavorava molto per far vivere bene mia madre e me, giostrandosi tra due lavori per sette giorni su sette…»
Bevve fino al fondo la seconda Blue Moon ed io mi alzai per prenderle la terza, mentre continuava nella narrazione.
«Ogni momento libero lo trascorreva con me, assecondando ogni mio capriccio. Iniziai presto a mostrare un interesse per la pittura e mio padre lo coltivò con me. Sceglievamo un soggetto e facevamo a gara a chi lo rappresentava meglio su tela. Si chiamava William, ma per tutti era Bill, Bill Price, B e P, le due lettere con cui firmava i suoi lavori… Quando morì, in un incedente d’auto, durante la mia adolescenza, tutto ciò che mi rimase di lui fu quella sigla, così la assunsi come mia.»
«Perché la farfalla?» chiesi, indicando con la testa gli insetti tatuati sul suo braccio.
«Un tocco personale» spiegò «Mi è sempre piaciuto come animale.»
«Credo ti si addica» affermai «Colorata, fragile, in grado di generare un uragano…»
«Ma che vai blaterando, Max?» ghignò «Sei già ubriaca dopo solo due birre?»
«Che cosa ti ha fatto Jefferson per farsi odiare tanto?» domandai, cambiando totalmente argomento. Nella mia testa le trame cominciavano ad intrecciarsi, facendo emergere quesiti che mi premevano dentro da diversi giorni e i fumi etilici mi stavano spingendo a cercare finalmente delle risposte.
«Di questo non mi va di parlare» chiuse il discorso, passando alla bottiglia numero quattro «Tocca a me a fare una domanda.»
«Ma andiamo!» obiettai «Nessuno ha stabilito di fare domande a turno.»
«Va bene, se vuoi delle regole allora ti sfido a Truth or Dare» affermò con aria provocatoria.
«Quanti anni hai? Dodici?» sbuffai divertita «Di più infantile ci sarebbe solo il gioco della bottiglia.»
«Non tentarmi…» sussurrò a pochi centimetri dal mio volto, poi si allontanò borbottando: «Comunque capisco che tu voglia rifiutarti, non sei in grado di reggere gli obblighi e le verità.»
«Ti piacerebbe!» replicai alzando la voce «Spara, non ho paura del confronto.»
«Obbligo o verità?»
«Verità, ovviamente.»
«Hai ancora intenzione di provare a farmi collaborare con FRAME?» chiese, passandomi un’altra Blue Moon.
Bevvi un sorso, chiusi gli occhi ed inspirai. «Sì, non voglio arrendermi. Il tuo talento è troppo prezioso per restare relegato tra queste quattro mura.»
«Apprezzo l’onestà» ammise «È il tuo turno.»
«Obbligo o verità?» domandai, come da rito.
«Verità» scelse.
«Dimmi di Jefferson, avete avuto un qualche diverbio?»
«Sì» fu la risposta lapidaria.
«E quindi?» insistetti.
«Ah, Maxine» mormorò con aria compiaciuta «Una sola domanda per volta.»
«Ma non mi hai risposto» obiettai.
«Sì invece, non è colpa mia se non hai posto la domanda nella giusta maniera» gongolò «Si vede che non hai fatto molta pratica con questo gioco.»
Sbuffai, incapace di ribattere.
«Obbligo o verità, Max?»
«Verità.»
«C’è qualcuno di speciale nella tua vita, al momento?»
Trasalii. Non avevo proprio intenzione di rispondere, almeno non onestamente. «No, direi di no…»
«Bugiarda» mi smascherò subito «Te lo leggo in faccia che stai mentendo. Sputa il rospo.»
«Obbligo, allora» ribattei.
«Sarò buona» stabilì, alzandosi e barcollando leggermente verso il frigo, tirandone fuori altre quattro birre. Pensai che non ci fosse altro là dentro se non alcolici.
«Bevine due, per stare al pari con me» ordinò, cominciando a svuotare una delle bottiglie, per poi passare subito a quella seguente.
Soddisfai la richiesta. Nel giro di qualche momento percepii il mio mondo farsi meno stabile e leggermente vorticoso.
«Obbligo o verità?» mi sforzai di articolare senza invertire qualche lettera all’interno della frase.
«Verità» decise, accendendosi una sigaretta.
«Stai cercando di farmi ubriacare?»
Chloe aggrottò le sopracciglia, spiazzata dalla mia domanda.
Io tentai di fare la mia più convincente espressione seria.
«Va bene, mi hai scoperta» ridacchiò «Sta funzionando?»
«Per niente» risposi «Obbligo o verità?»
«Non imbrogliare, Max» contestò «Hai avuto la tua risposta.»
«E tu mi hai fatto una domanda» ribattei trionfale «Quindi è di nuovo il mio turno.»
Le labbra ancora umide di birra si incurvarono verso l’alto. «Bene, le regole sono regole… Verità.»
«Approvi il comportamento di Rachel e il suo abuso di droghe?»
La Price impallidì.
Attesi in silenzio.
«Obbligo» rettificò, mal celando il proprio turbamento. Nei suoi occhi potevo leggere quante ferite avesse esposto quella mia domanda.
«Niente più fumo fino a che sarò qui» dissi, costringendola a spegnere la seconda sigaretta che si era appena accesa.
Ubbidendo, spense il mozzicone, tenendo lo sguardo fisso su di me. «Obbligo o verità?» mi chiese.
«Verità.»
«Ti piaccio?»
Toccò a me impallidire quella volta, per poi arrossire violentemente, incapace di trovare una risposta sensata da dare.
«Sto aspettando» mi stuzzicò, avvicinandosi nuovamente, talmente tanto che le punte blu arrivavano a lambirmi la mandibola.
Se fossi stata nel pieno possesso delle mie facoltà mentali, avrei sputato la parola “obbligo” senza rifletterci troppo, ma le Blue Moon già in circolo nel mio sangue servirono a spezzare la catena che teneva a freno i miei istinti.
La mia impulsività vinse.
Mi sporsi colmando i pochi centimetri che mi separavano da Chloe, portando le nostre labbra a combaciare.
Fu questione di un istante, poi mi tirai immediatamente indietro.
«Una risposta più che esaustiva» commentò, sorridendo.
Non riuscivo a comprendere come potesse restare tanto calma. Il mio cuore aveva iniziato a galoppare come un pazzo e minacciava di esplodermi nel petto.
Non potevo restare, sentivo un desiderio risvegliarsi in me e con l’inibizione dell’alcol avrei rischiato di combinare un bel guaio.
Mi alzai, indietreggiando senza smettere di fissare la punk, che manteneva stampato in faccia quel sorriso serafico. Afferrai la borsa che avevo appoggiato vicino alla porta, girai la maniglia e me ne andai senza dire una sola parola.
Scesi le scale reggendomi al corrimano, schiantandomi contro l’uscio del 2A mentre recuperavo le chiavi.
Ruzzolai all’interno e mi affrettai a chiudere la porta, sperando che nessuno mi vedesse incespicare in quel modo.
Mi trascinai fino al letto con estrema fatica, mentre la nebbia che avvolgeva ogni mio tentativo di pensare si faceva più fitta ed impenetrabile.
Sfilai il telefonino che avevo in tasca, notando solo in quel momento la data.
«Ma vaffanculo» imprecai, scagliando l’apparecchio sul materasso.
Pochi minuti dopo, mentre tentavo di seppellire la testa nel cuscino, udii bussare alla porta dell’alloggio. Poteva trattarsi del famoso idraulico, sebbene fosse abbastanza tardi, per cui mi alzai.
Strascinai i piedi fino all’entrata e notai un foglietto che era stato fatto passare sotto la porta.
Lo raccolsi, sapendo che sarebbe stato più saggio non farlo, e lo lessi, pur essendo consapevole che fosse la cosa più sbagliata da fare.
“Grazie per la serata. Miglior San Valentino di sempre.”
In basso a sinistra c’era una farfalla stilizzata insieme ad una B ed una P.
Un uragano di emozioni mi investì, sollevando nuove domande e nuovi dubbi. Sarei voluta tornare a quell’istante in cui avevo baciato Chloe, avrei voluto fermare il tempo, arrestarmi a quel minuscolo frangente perché, per un battito di ciglia, tutto mi era sembrato perfetto.

NdA: ben ritrovai, signori lettori, spero che il capitolo vi sia piaciuto e che la storia nel suo complesso stia risultando interessante. Come è giusto ricordare, ormai mancano solamente due capitoli, anche se l'ultimo sarà ben più lungo dei precedenti e varrebbe quasi la pena dividerlo in due, ma non credo che lo farò. In ogni caso, venerdì prossimo arriverà il quarto aggiornamento, per cui spero di ritrovarvi tra una settimana. Nel frattempo devo sciorinare come è giusto la mia sequela di ringraziamenti: a wislava per il suo aiuto con commenti e correzioni, a Camyglee e Hydro_Warner per le loro gentili recensioni, a tutti coloro che hanno aggiunto la storia tra le seguite/preferite/ricordate e un ultimo grazie anche a coloro che leggono in silenzio ma che comunque si sono appassionati a questa storia. Conclusa la mia routine, vi auguro una buona settimana e spero di ritrovarvi al prossimo capitolo, nel frattempo buone cose e buona lettura.
   
 
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Life Is Strange / Vai alla pagina dell'autore: GirlWithChakram