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Autore: ValeriaLupin    28/06/2016    2 recensioni
[Raccolta di One shot su quotidianità della coppia Remus e Tonks]
1. A cena con i coniugi Tonks
2. Un compito arduo
Come Ninfadora e Remus si sono accorti di piacersi?
Mescolate una grande dose di demenza a una farsa e a una passeggiata al chiaro di luna e...eccovi servita la mia folle idea!
Dal testo del primo capitolo:
«Andromeda», si presentò di conseguenza sua madre.
«Non avrei mai detto che lei fosse la madre di Dora: è molto giovane», si complimentò educatamente lui, mentre Ninfadora era impegnata a salutare suo padre.
La donna sfoderò un sorriso serafico.
«Cosa che non si può dire di te, invece», commentò guardando i suoi capelli che già avevano cominciato a ingrigirsi. «Mamma!», la rimproverò sua figlia, sdegnata.
Dal testo del secondo:
Sirius attaccò per la quarta volta con “Jingle Bell Rock” e a Molly fu chiaro il motivo di tanto malumore da parte di Remus e Ninfadora, che aveva già avuto il piacere di conoscere l’eccessiva esuberanza di suo cugino in quel periodo.
«Vado ad affatturarlo?» propose ghignando malevola.
«No» rispose secca la signora Weasley. [...]
«Volevo solo essere utile», rispose con innocenza e vide Lupin sorridere a quelle parole e alzare..
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Andromeda Tonks, Nimphadora Tonks, Remus Lupin, Sirius Black, Ted Tonks | Coppie: Remus/Ninfadora
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
Capitoli:
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Nickname forum/efp: ValeriaL/fangirl23 
Evantuale beta: Nessun beta
Titolo: Silenziose confessioni
Coppia: Remus/Ninfadora
Genere: Angst, Romantico, Triste
Avvertimenti/note: Nessuno
Introduzione: Ninfadora sa che c’è qualcosa che non va, sa che Remus sta per scappare e ha paura. È diviso fra ciò che è giusto e ciò che desidera e i suoi silenzi si fanno pesanti. Così pesanti che Ninfadora non può più sopportarli.
Note d'autore: Ho provato a fare qualcosa di diverso per questa raccolta, ehm, spero di esserci riuscita. Le parti in corsivo sono flashback, spero si capisca^^. Storia partecipante al contest di Mitsuki91 sul forum di EFP: "Fatemi innamorare... della vostra OTP!". Il risultato non mi soddisfa pienamente, ma tant'è!
 
Silenziose confessioni
 
Ninfadora non era mai stata mattiniera eppure era seduta, ormai da ore, nella cucina deserta del suo sgangherato appartamentino nello Yorkshire.
Leggeva distrattamente il quotidiano, mentre, a tratti, lanciava sguardi apatici all’orologio; il ticchettio delle lancette era l’unico rumore che spezzava sinistramente il silenzio dell’alba. La luce, lieve, penetrava le tende celesti che le donavano una tonalità biancastra, ospedaliera. Se osservava quei frammenti di luce, riusciva a notarlo senza difficoltà: il pulviscolo sospeso nell’aria, cristallizzato in un’eterna attesa. Come lei.
 Aspettava che il tempo si fermasse, in attesa dei suoi tempi, per capire i perché, gli attimi giusti per assorbire la notizia, così sbagliata. Dora continuava a lanciare sguardi impazienti all’orario: quasi che all’ennesimo le lancette si sarebbero finalmente fermate.
Tic, toc. Tic, toc.
Quel ticchettio leggero che solitamente rimaneva inosservato, ora echeggiava potente come un tuono fra le mura concrete della cucina, fra quelle fragili della sua mente. Adesso era così importante, che ogni rintocco le mozzava il respiro.
Tic, toc. Tic, toc.
Ninfadora avvertiva un senso di costante preoccupazione da quando, quella mattina, aveva aperto gli occhi sulla sua camera buia, satura dell’odore penetrante del caffè.
Ed era l’odore sbagliato, dannazione. Le mattinate con Remus sapevano di tè caldo, latte e carta di giornale.
Tic, toc. Tic, toc.                           
Si era trascinata in cucina e si era seduta passivamente alla tavola, come se ad aspettarla ci fosse stata una tazza di tè bollente e uova sfrigolanti, invece che freddo legno e odore d’inchiostro fresco. Malgrado tutto, Remus non aveva rinunciato al suo giornale.
Remus giunse in quel momento dalla camera, in apparenza sereno e vagamente assonnato, ma già vestito e pronto a uscire. Raccolse il suo cappotto e le si avvicinò, sorridendo in quel modo educato che le faceva saltare i nervi, poi si chinò su di lei e posò delicatamente le labbra sulle sue, fingendo di non vedere che sul suo viso pallido non vi era neanche l’ombra di un sorriso, indossando quella maschera di cortesia e gentilezza che non era mai riuscita ad ingannarla.
Tic, toc.
«Mi vogliono lì immediatamente» disse rilassato, la voce rauca che la fece quasi sobbalzare. «Mangerò per strada» concluse, volgendole le spalle.
Non sarebbe stato necessario che il tempo si arrestasse. Non più ormai.
«Hai fatto il caffè?» mormorò lei e la sua voce le sembrò più raschiante e aspra del solito, così com’era aspro lo sguardo di suo marito, così com’erano falsi quei sorrisi lievi.
«L’ho comprato, un caffè Doppio. Per te, l’ho preso Decaffeinato; so che la caffeina ti fa un brutto effetto» rispose con dolcezza e una smorfia finale che voleva essere un sorriso.
“Tu odi il caffè” avrebbe voluto ribattere, ma lui era lì che sorrideva e Ninfadora dovette evitare di dire qualsiasi cosa o l’avrebbe certamente urlata.
«A dopo» la salutò Remus prima di uscire, il rumore dei suoi passi che riecheggiava oltre la porta. Le sembravano troppo veloci, svelti, quasi stesse fuggendo da quella vita, da lei, dal figlio che portava in grembo.
Non guardò più l’orologio; non ne aveva bisogno: sapeva che non sarebbe tornato come sapeva che quella notte Remus non aveva dormito al suo fianco.
Il suo lato era rimasto scoperto per tutta la notte, freddo, in sua attesa, ma lui non era tornato a sdraiarsi accanto a lei. Forse aveva chiesto troppo, erano passati solo pochi giorni da quando gli aveva comunicato di essere incinta. Uno sguardo, un gesto, un abbraccio o una carezza, qualsiasi cosa le avrebbe potuto dire che c’era ancora e che sarebbe rimasto, ma non c’erano stati e, quando c’erano stati, erano stati finti, rigidi e tremanti.
Remus era sempre stato piuttosto abile a mentire e a simulare, a tracciare silenziosamente quella linea di demarcazione invisibile fra i suoi sentimenti e il resto del mondo, eppure Tonks sapeva, ogni volta, di riuscire a ingannarlo: s’intrufolava tra i suoi pensieri e faceva breccia nei suoi muri con semplici sguardi. Aveva sempre posseduto l’innata capacità di impedirgli di isolarsi completamente, grazie alla sua testardaggine, la sua allegria e vivacità, il suo infallibile intuito e la sua capacità di comprendere ancor prima di ascoltare.
Perché il modo migliore di percepire la chiusura di Remus, era quello di ascoltare i suoi silenzi: diventavano diversi, pesanti e concentrati di parole inespresse. Anche questa volta i silenzi c’erano stati e aveva distinto i bordi della linea, ma non era riuscita a impedirgli, questa volta, di crearsi quello scudo, era stata capace esclusivamente di lasciare che i confini si delineassero e divenissero insormontabili.
Completamente estraniata dalla realtà, Dora lasciò scivolare il tempo senza averne alcuna percezione con ancora il pigiama sformato addosso e i capelli spenti ad adombrarle il viso smunto. Infine, si alzò facendo stridere la sedia contro il pavimento e frugò in un mobile disordinato, pescandone una tazza bianca a strisce colorate. La strinse fra le mani e l’avvertì emanare calore, riscaldarle il petto come se dentro ci fosse stato un liquido caldo, malgrado la tazza fosse, in realtà, fredda.
Ninfadora ricordò con dolcezza il momento e la situazione che costrinsero Remus a regalargliela: era in ritardo, aveva passato la notte a casa sua e non era ancora riuscita a bere il suo tè quotidiano.
«Tieni» le aveva detto ficcandole in mano la tazza ricolma di tè ormai tiepido.
«E la tazza?».
«Te la regalo, tanto è orribile» aveva sorriso lui – un sorriso vero, sincero –, prima di incoraggiarla a uscire alla svelta.
Probabilmente la sua intenzione era stata quella di permetterle di gettarla nel primo cassonetto sulla strada, ma lei, in qualche modo, si era presa a cuore quell’oggetto e, a dire il vero, era proprio il genere di persona che riusciva ad affezionarsi anche a un essere inanimato. Da quel giorno era sempre stata lì, dentro il suo mobiletto, come un cimelio importante e insostituibile di quell’affetto cresciuto giorno dopo giorno, nell’inconsapevolezza. Le rammentava che Remus era al suo fianco, che i suoi silenzi con lei erano stati sempre quelli giusti.
La strinse a sé e si poggiò al duro legno del tavolo con lo sguardo fisso sul muro spoglio, sperando che quell’oggetto così ordinario e privo di magia, potesse invece donarle nuovamente la consapevolezza che si appartenevano. Forse sbagliava, doveva solo cercare di dimenticarlo, pensare a suo figlio e a sé stessa prima che al suo dolore. O forse, era troppo presto per potersi dire che era sbagliato soffrire.
Il muro immacolato sembrava avvolgerla e soffocarla in una bolla di asettica solitudine: nessuna fotografia era appesa affianco al calendario e alla piccola bacheca affollata da post-it colorati. Ricordò con amarezza i giorni che aveva passato a fantasticare di riempirla con foto della sua famiglia, ritraenti Remus con il consueto sorriso lieve mentre lei, facendo il solletico al loro bellissimo bambino paffuto, rideva e gli cingeva le spalle. Ninfadora avvertì gli occhi farsi lucidi, i capelli scivolare in un cupo marrone slavato mentre un gancio pesante come un macigno si conficcava, spietato, nel suo cuore. La tirava verso il basso, contro le mattonelle gelide, ma lei resisteva con ogni cellula del suo essere perché in quell’innocuo pavimento vedeva una caduta da cui non sarebbe stata capace di alzarsi.
Posò la tazza sul tavolo con estrema lentezza e cominciò a tormentare l’orlo del suo pigiama nel tentativo piuttosto inutile di dargli una forma diversa, di dispianare ogni piega poiché solo così sarebbe stato perfetto. Non era la prima volta che tentava e lo faceva con la stessa disperata presunzione che l’avevano spinta a cercare la perfezione in ciò che stava vivendo, fingendo di non ascoltare, di non osservare, di non aver capito che qualcosa non andava.
Maltrattò la maglia del pigiama, fino a tirarla con rabbia e frustrazione, a strizzarla nelle mani rigide e tremanti per la paura e quando non riuscì più a sopportare quel dolore si abbandonò a un verso di avvilimento, scattando all’indietro come presa da un impulso nervoso incontrollabile.
Tonk! Krash!
«No!». Quel grido le rimase impigliato nella gola contratta, soffocato da quel senso d’impotenza che le divorava il petto, senza riuscire a tramutarsi in suono reale.
La tazza si era frantumata e, assieme ad essa, qualcosa si era spezzato anche dentro di lei, facendola crollare in ginocchio davanti ai resti indefiniti della sua vita. Li raccoglieva e cercava disperatamente di ricongiungerli, di dargli un senso, lacerandosi involontariamente i palmi, tanto era ceca e feroce la sua ricerca.
Il sangue sgorgava tiepido e brillante e quasi le feriva gli occhi appannati dalle lacrime salate che le colavano sul viso cinereo. Infine cedette, abbandonò i pezzi insanguinati sul pavimento e intrecciò le braccia attorno al busto incurvato.
Lasciò che il sangue sulle sue mani macchiasse il pigiama, che l’odore rugginoso le stuzzicasse l’olfatto, ora più sensibile. Fu un attimo di respiro affannoso, prima che, ancora con la mano sulla bocca, correndo, vomitasse tutto quel tormento sulle mattonelle lucide del bagno. Dopo non fece altro che trascinarsi sul gabinetto e continuare lì.
“Fottute nausee mattutine” pensò con rabbia.
Nulla sarebbe più tornato al suo posto, era sbagliato, ingiusto che suo figlio dovesse crescere senza un padre e la realtà dissolubile e i silenzi quelli che urlavano condanne e i suoi passi sempre più lontani da lei, dal loro bambino.
Tin, tin, tinkle.
Il rumore della serratura che scattava risuonò nella cucina, ma Ninfadora non lo sentì né udì i passi lenti e ignari e il fruscio della giacca appesa alla gruccia.
Remus vide la tazza in frantumi e il sangue e poi vide una scia rossa che conduceva al bagno, del vomito lungo il muro del corridoio. Affrettò il passo con il cuore in gola e, per un secondo, solo per un secondo d’inferno, credette al peggio, qualcosa a cui non aveva mai pensato realmente, ma che adesso aveva più che sfiorato la sua mente.
Non appena la vide, ingoiò il magone e sorrise di sollievo, ma poi tutto gli cadde addosso con violenza e scivolò al suo fianco, inginocchiato a terra, tenendogli i capelli spenti mentre piangeva e vomitava. Non ci credette, non davvero, che la sua Dora era capace di arrivare a tanto, proprio lei che viveva di spensieratezza e colori, ora sporcava di rosso la tavoletta del water, stringendola convulsamente.
Non disse nulla, come avrebbe potuto, sapendo che le sue parole le avrebbero serbato solamente altri dispiaceri? Le parole erano taglienti, armi che soleva non usare, se non necessarie. Quando quell’attacco di nausea finalmente terminò, il pianto nervoso di sua moglie parve non riuscire a fermarsi.
Le lacrime rotolavano copiose e bagnavano il viso a forma di cuore di sua moglie fino a giungere sulle sue labbra che Remus non aveva mai visto così distorte e deformate dalla paura e dalla solitudine che lui gli aveva inferto.
In un attimo, tutto il peso che era svanito tornò a posare sulle sue spalle ed era il peso schiacciante delle sue colpe che ormai si andava intensificando ogni giorno di più.
Delicato e determinato al contempo, senza proferire verbo, strecciò la presa ferrea sulla tavoletta e l’accolse sul suo petto, lasciando che le lacrime gli bagnassero la camicia e che le mani lo marchiassero di quel rosso cupo che invadeva i suoi occhi sinceri, così diversi dai propri, mendaci.
Il gelo sembrò abbandonarla completamente e la bolla che l’avvolgeva da quando Remus aveva varcato la porta di casa scoppiò, intaccata da quel gesto tanto atteso.
«Non ci abbandonare» mormorò singhiozzando e scrutando gli occhi traboccanti colpevolezza e sconforto. Quella preghiera fu come un’onda che scivola sulla sabbia bagnata cancellando ogni traccia di quella linea che tacitamente aveva solcato sulla sabbia umida; finalmente i suoi occhi le parlavano, il solco divisore si era dissolto e ogni pensiero gli fiammeggiava nello sguardo.
“Harry” era stato il primo pensiero di Remus, quando aveva metabolizzato la notizia della gravidanza come una spina nel cuore e un martello che picchia sulle tempie.
“Anche Harry è nato agli inizi di una guerra…” aveva collegato, inspirando violentemente, per prima cosa, ed espirando con un tremolio preoccupato. 
 “…e adesso è un orfano, senza avere neanche mai visto il viso dei suoi genitori”. Remus li ricordava, invece, ma in momenti come quello avrebbe voluto dimenticare i loro occhi amorevoli e apprensivi mentre ammiravano il loro bambino, un ciuffo di capelli scuri sulla fronte liscia e priva di qualsivoglia cicatrice e gli occhi vivaci identici a quelli di sua madre. Perché lo avevano fatto sentire irrimediabilmente inadeguato e vulnerabile, le lacrime erano affiorate agli occhi con estrema facilità e, non fosse stato per l’ostacolo delle palpebre chiuse, non sarebbe riuscito a fermarle.
Aveva avvertito anche altro: come un fuoco dietro gli occhi e, aveva percepito, li stava prosciugando di qualsiasi emozione potessero trasmettere.
Si sentì di troppo anche nella cucina di casa sua, su una sedia che aveva comprato con i soldi di sua moglie perché lui non aveva un lavoro e non lo avrebbe avuto neanche al di fuori di quella terribile guerra; la maledizione lo seguiva, e la sua paura più grande era che questa volta seguisse anche suo figlio, rendendolo schiavo di quella vita che lui non si era mai scelto, che non aveva mai voluto e che adesso aveva imposto anche ad un altro essere innocente.
Nella bocca sentiva il sapore del sangue, quello di suo figlio, perché lo aveva azzannato.
Ed era Grayback.
In un solo affondare di denti affilati nella carne morbida di un bambino, aveva inflitto tre maledizioni: un padre evitato dall’intera comunità magica e sicuramente non all’altezza di essere chiamato tale, nascere nel mezzo di una guerra che poteva privarlo dei genitori e della vita e portare i segni indelebili di un’esistenza al servizio di un astro bianco e pallido, a cui ululerà tutta la sua sofferenza nelle notti in cui splende, pieno e tondo.
“Non la vedrà mai la luna piena, ma la odierà lo stesso, almeno quanto odierà me e quanto io stesso mi disprezzo adesso”.
Poi quel pensiero gli era balzato nella testa e gli sembrava così terribilmente giusto, troppo giusto per poterlo scacciare.
“Posso ancora alleggerire mio figlio di almeno una delle pene: posso sparire dalla sua vita”.
Guardando le lacrime di sua moglie in quel momento, non potette fare a meno di ricordare l’espressione stravolta che le si era dipinta in viso quando aveva letto il suo sguardo, il suo pensiero troppo giusto.
Un’espressione che era stata sul viso di un’altra donna. Ricordò sua madre che lo guardava tristemente, ricordò le sue lacrime mentre ripeteva che non lo avrebbero accettato, gli occhi luccicanti di paura quando la luna cominciava a sorgere e lui a crescere.
“Un giorno, lo sentiranno e allora noi non potremo più proteggerlo” l’aveva sentita dire una volta con voce strozzata a suo padre, prima che scoppiasse in lacrime. La rivide nella donna di fronte a sé, in quel bagno, con i palmi insanguinati, e si rese conto che l’aveva costretta alla stessa vita di paure alla quale era stata costretta sua madre.
«Starete molto meglio senza di me».
   
 
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