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Autore: FireFistAce    30/06/2016    2 recensioni
"Tu non mi hai mai parlato del tuo passato, Marco."
E quella consapevolezza ad Ace aveva fatto molto, molto male. Si era sentito in qualche modo tradito per l’ennesima volta.
"Tu sai tutto di me, sei l’unico a conoscere il mio passato e l’identità di mio padre perché per me sei importante, molto più di quanto credi, e... scoprire che tu non hai mai fatto come me, che non ti sei mai fidato di me al punto da aprirti, ecco... mi ha fatto capire che probabilmente non sono abbastanza importante per te."
Dirlo ad alta voce, concretizzare quel pensiero e quella nuova consapevolezza faceva molto più male che lasciare che rimanesse tutto nella sua testa.
Marco, a quelle parole, sgranò di poco gli occhi cerulei e lo fissò incredulo. Era quello che Ace pensava? Era quello che lui gli aveva fatto credere? Si sentiva uno stupido, ma la verità era che Ace aveva ragione e Marco non aveva niente da ribattere per potersi difendere.
Non c’era niente da difendere.
"E questo vuol dire che avevi ragione quando mi hai detto che puoi vivere benissimo senza di me. Io posso vivere benissimo senza di te."
Genere: Angst, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Marco, Portuguese D. Ace
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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BORDER OF LOVE

Capitolo V
 
Appena riaprì gli occhi, Ace ci mise un po' a raccogliere tutti i pezzi e a rimetterli assieme, aveva dei ricordi sparsi e confusi che andavano dal momento in cui si era accasciato a terra fino all'arrivo in ospedale: c'erano Nami e Thatch che lo tiravano su, la voce di Marco che continuava a chiamarlo, gli infermieri, la sala operatoria, poi il buio.

Facendo uno sforzo non indifferente, almeno in quelle condizioni, alzò il braccio sinistro e fece scivolare la mano all'altezza delle costole. Il tessuto ruvido della garza che copriva la ferita fu ciò che il suo tatto incontrò ed una domanda sorse spontanea nella sua mente che, pian piano, andava schiarendosi: quanto aveva dormito? Perché gli sembrava di essersi svegliato da un sonno durato secoli.

Si tirò a sedere, trattenendo un gemito e facendo comparire una smorfia di dolore sul proprio volto, e si guardò intorno: era la solita anonima stanza d'ospedale, puzzava di cloro e disinfettanti, ma sembrava quanto di più lontano potesse esserci dall'asettico, con l'intonaco scrostato alle pareti e le macchie di muffa nell'angolo sul soffitto, il pavimento sporco.

A parte lui, c'erano altri tre pazienti che dormivano nei loro letti con l'aria abbastanza tranquilla, le flebo attaccate al braccio ed i contenitori con le pillole sul comodino. Ace degnò loro di appena un'occhiata disinteressata e poi guardò la finestra per cercare di capire che ore fossero, ma le tende tirate oscuravano la sua vista e non fu in grado di dirlo.
Si passò una mano sul viso, si sistemò meglio contro il cuscino, percependo una nuova e dolorosa fitta alla ferita, poi richiuse gli occhi e sospirò.

Lui odiava gli ospedali, non gli erano mai piaciuti in tutta la sua vita. Certo, non ci era finito molte volte, soprattutto mai per cose troppo gravi: qualche vaccinazione, qualche frattura alle ossa o ferita riportata dopo una rissa oppure la febbre troppo alta, da quando si era trasferito, invece, non gli era mai capitato di finirci.

Odiava gli ospedali perché, nonostante tutte le volte che ci fosse stato non si trovasse in fin di vita, l'odore dei disinfettanti ed il pallore cadaverico dei pazienti, il silenzio tombale e i volti stanchi dei visitatori gli erano sempre parsi come un presagio di morte, come se la sala d'attesa fosse il punto in cui Dio lo avrebbe giudicato, decidendo se aprirgli le porte del Paradiso o spingerlo giù all'Inferno.
Si rendeva conto che non ci fossero molti dubbi circa il posto che lo avrebbe accolto.

Provava una pesantezza generale agli arti che lo faceva sentire sfinito e voglioso di assopirsi e risvegliarsi chissà quando, ma si sforzò di non addormentarsi di nuovo: non avere il controllo su quello che gli succedeva era destabilizzante, e lo innervosiva.

L'infermiera entrò dopo una mezz'ora che si era svegliato, una donnina minuta e dal volto stanco che gli diede bruscamente il buon pomeriggio, controllò la sua ferita, la flebo, e gli lasciò sul comodino quello che sarebbe dovuto essere il suo pasto e che aveva tutta l'aria di essere cibo per cani. Un pasto che Ace di sicuro non avrebbe toccato.

"Che ore sono?"

Fu la prima cosa che, con voce roca, domandò alla donna, lei mandò un'occhiata distratta all'orologio che aveva al polso prima di porgergli un bicchiere d’acqua.

"Le due e mezza del pomeriggio."

Rispose brusca, poi sembrò ricordarsi di un particolare

"Qui fuori c'è un uomo."

Disse, ed Ace la guardò confuso, lei alzò gli occhi al cielo prima di continuare.

"Alto, biondino e con una capigliatura discutibile. Sta dormendo, lo sveglio per farlo entrare?".  

Ace rimase stupito, perché quella descrizione poteva condurre ad una sola persona, poi annuì e si tirò su di scatto, gemendo tra i denti per il dolore che il movimento gli aveva causato.

La donna lo rimproverò malamente ed uscì, dicendogli che non avevano tempo da perdere e che lo avrebbero lasciato a sanguinare se gli fossero saltati i punti.

Ace avrebbe volentieri dedicato cinque minuti della sua vita ad insultarla, ma la sua attenzione era incentrata su tutt'altro.
Marco varcò la soglia della porta con urgenza, ma con l'espressione assonnata e lo sguardo intontito, e ci mise un po' per realizzare che sì, Ace si era davvero svegliato.

Ace si sarebbe aspettato che fosse in compagnia, oppure che lì fuori ci fosse Rufy, che sembrava essersi affezionato davvero molto a lui, ma non la presenza di Marco, e il fatto che lui fosse lì voleva pur dire qualcosa.

Lui, però, rimase lì immobile a fissarlo, come se lo vedesse per la prima volta dopo anni. In quel momento, Ace si chiese di nuovo per quanto tempo avesse dormito, ma adesso la domanda era posta con molta più preoccupazione di prima, ed anche più sconcerto.
Non seppe cosa dire o cosa fare, e allora semplicemente imitò Marco: rimase in silenzio a fissarlo, trattenendo il respiro nei polmoni.

Lo sguardo, dopo una titubanza iniziale, si spostò con attenzione su tutto Marco e si rese conto che stava indossando gli stessi vestiti di quella sera, una macchia di sangue, seppur non molto grande, si era seccata sull’orlo della camicia e un po’ sui pantaloni e questo significava che quel sangue era quello di Ace; aveva l'espressione stanca, i capelli sembravano quasi più spettinati del solito e si rese conto che per quanto tempo fosse stato lì, per tutto il tempo che aveva dormito dopo l'operazione, Marco doveva essere rimasto con lui senza mettere piede a casa neanche per un attimo.  

Dopo quel lungo silenzio, Marco gli si avvicinò mandando un'occhiata vaga agli altri pazienti, anche se non realmente interessato e forse lo faceva solo per non dover guardare lui, poi afferrò una vecchia sedia di legno sistemata fino a quel momento sotto la finestra e la trascinò fino al letto per potersi sedere vicino a lui.

La sua mano andò a scostargli una ciocca nera dalla fronte, rivolgendo poi al giovane un leggero sorriso, perché adesso che lo vedeva sveglio si sentiva molto più sollevato di prima.

"Come stai?"

Fu la prima cosa che gli domandò, anche se sapeva benissimo che una persona appena ripresasi da un’operazione che lo aveva salvato da una coltellata non poteva certo stare a meraviglia.

"Potrei stare meglio."

Rispose infatti.

"Quanto ho dormito?"


Chiese poi, osservando come lo sguardo ceruleo di Marco si perdesse ad osservare la tenda bianca e spessa che copriva la finestra.

"Due giorni interi, più metà del terzo."

Disse infine, riportando le sue iridi sul volto di Ace e accarezzandogli una guancia piena di lentiggini.

"Ci hai fatto preoccupare un sacco, Ace. Mi hai fatto preoccupare, hai idea di cosa io abbia provato nel vederti qui inerme, con il dubbio che le tue condizioni potessero peggiorare?"

Abbassò poi la testa, poggiando la fronte contro la sua spalla sinistra.

"Non lo fare mai più, Ace. Mi sei svenuto tra le braccia, ed io... io ho avuto paura di perderti."

Mormorò poi, sospirando contro la sua pelle appena coperta dalla veste dell’ospedale mentre Ace, ancora incredulo, alzava la mano per portarla tra i capelli di Marco.
Erano morbidi al tatto, affondarci le dita era un piacere che non avrebbe mai creduto di poter provare.

"Sono felice che tu sia rimasto."

Sussurrò il corvino a sua volta.

Non capiva come mai solo lui avesse deciso di rimanere lì, perché dopo quello che gli aveva detto non credeva di meritare tanta preoccupazione da parte sua, ma ne era felice. Il suo cuore batteva decisamente troppo forte e aveva paura che Marco potesse sentirlo, forse anche troppo nitidamente.

Rimasero in quella posizione per una manciata di minuti, poi Marco si allontanò da lui e gli prese il volto tra le mani per evitargli di distogliere lo sguardo.

"Quella sera, quando ti ho detto che senza di te potrei vivere senza problemi, mentivo Ace. Quando ti ho visto perdere conoscenza tra le mie braccia, e il tuo volto era così pallido e perdevi un sacco di sangue, io... mi sono pentito di quelle parole ed ho avuto paura. Paura di non vederti più aprire gli occhi. Paura di non sentire più la tua voce o vedere il tuo sorriso. Paura di averti perso per sempre."

Il respiro di Ace si bloccò, trattenuto nei polmoni mentre quello di Marco s’infrangeva contro le sue labbra. Così vicino, così bello e anche così spiazzante.

Marco era stato sincero, Ace poteva esserlo a sua volta?

Deglutendo, il giovane abbassò lo sguardo per quanto le mani di Marco glielo permisero, poi schiuse le labbra per parlare e le richiuse, compì questo gesto un paio di volte, alla ricerca delle parole giuste per esprimere tutto quel groviglio di sentimenti che si muovevano nel suo stomaco e nel suo cuore, poi sospirò e riportò nuovamente le iridi pece in quelle cerulee dell’amico.

"Perché? Perché mi dici queste cose, eh Marco? Tu... tu non sei innamorato di me, vai a letto con le donne che vogliono stare con te e dai tuoi racconti devo dedurre anche che ti piaccia. Tu non provi niente per me, giusto?"

Voleva certezze, Ace, perché se adesso si fosse illuso inutilmente, beh, probabilmente sarebbe andato in pezzi una volta per tutte e niente questa volta lo avrebbe rimesso in piedi.

Un sospiro divertito sfuggì dalle labbra del più grande, che gli accarezzò le guance con i pollici

"Non è una questione di cosa piaccia al mio corpo, Ace, ma di cosa brami il mio cuore."

Spiegò poi dolcemente.

"Ed il mio cuore brama te."

Fu una questione di attimi, le loro labbra si unirono in un bacio dato con urgenza, ma anche con dolcezza e amore. Le mani di Marco rimasero ben salde a circondare il volto di Ace, mentre quelle di Ace si chiusero attorno al colletto della camicia di Marco.
Quando si separarono, Ace piangeva.

"Ho sognato così tante volte una cosa del genere che non credevo si sarebbe mai avverata."

Singhiozzò mentre Marco lo abbracciava, facendo sì che il corvino potesse nascondere il viso contro la sua spalla. Sorrideva, era felice, e quella volta per davvero. Non erano sentimenti grigi colorati artificialmente, erano veri ed era stato Marco a donar loro colore.

Niente sarebbe mai potuto andar male adesso che erano insieme.
  
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